mercoledì 6 marzo 2013

I Calabro Albanesi - Vincenzo Dorsa

 

 Vincenzo Dorsa
a cura di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro
 
Da attiva famiglia liberale e cristiana, Vincenzo Dorsa, nacque Italo Albanese a Frascineto il 28 febbraio del 1823 da Francesco e Vittoria Bellusci. Educato nel Collegio Italo Albanese del San Adriano nel 1840 passò al Collegio di Propaganda Fide a Roma, che abbandonò non appena dopo un anno.  Cattolico liberale, avendo egli appreso, al San Adriano, fin dalla tenera età i principi fondamentali di libertà e di giustizia sociale  ed essendo fervente divulgatore delle nuove idee diffuse in Europa,  in quel periodo, mal sopportò il clima illiberale  religioso e culturale che si viveva in quella Istituzione anacronisticamente ancorata a vecchi pregiudizi di carattere feudale. L'attività intellettuale del Dorsa fu molto intensa;  oltre ad insegnare Lingua e Letterattura Greca e Latina al liceo classico "Telesio" di Cosenza, collaborò intensamente, con vari scritti,  alle pubblicazioni de' " Il Calabrese", "Il Calabrese Rigenerato",e "Il Bruzio" del Padula. Pubblicò diverse opere fra le quali " La tradizione Greco Latina negli usi e nelle credenze popolari della Calabria Citeriore" che nel 1883 fu tradotta in lingua tedesca; " La Tradizione Greco Latina nei dialetti della Calabria Citeriore". Sulle colonne de "Il Calabrese" - scrive Domenico Cassiano - insieme ad altri giovani intellettuali arbereshe, come Domenico Mauro, Alessandro e Cesare Marini, il Dorsa partecipò attivamente al dibattito culturale e politico del tempo, collocandosi in una propria posizione originale tendente alla riscoperta del Vico sulla scia tracciata dal Cuoco.
Le opere iù importanti del Dorsa sono: Lettere Romane dirette a Panfiltate, 1847; Su gli Albanesi: ricerche e pensieri, Napoli 1847; I Vangelo di San Matteo tradotto dal greco nel diletto calabro albanese di Frascineto; Sulla genesi e progresso del Diritto Romano e sua influenza sullo svolgimento della civiltà moderna. Pensieri di Cesare Marini.
Morì all'età di 32 anni a Cosenza, il 4 dicembre del 1855.
 
I Calabro Albanesi
 
Estratto da " Il Calabrese" 15 ottobre 1843

Egli è pur troppo consentaneo al corso naturale de' popoli trasmigrando portare seco e serbare gelosi almeno fino a che non si confondano colle ospite nazioni, le reliquie di quelle affezioni, di quegli usi, di quello spirito che trassero dalla natura della patria terra. E' questa una legge eterna immutabile nasco- sta allo sguardo della riflessione, ma potente sul cuore dove scolpilla la mano della provvidenza che chiama a società le umane generazioni, tutte da lei costantemente regolate colla norma per cui l'ordine morale mirabilmente percorre la curva misteriosa delle sue leggi. -Gli Albanesi della nostra Calabria fanno di ciò prova luminosa. Illustri avanzi de' commilitoni di Scanderbek, volsero ormai 400 anni, da che, abbandonati i patri lari vennero a fermar stanza novella in questa estremità dell'Italica regione; e se tutt'altro rimase loro oltre il mare, buona porzione de' costumi e de' pregiudizi conservati non cessa distinguerli tuttavia dai Calabri indigeni in mezzo a' quali si rattravano. -D'una tal distinzione poi essi menan vanto, e per quel sentimento onde l'uomo ama avere un impronta e quasi uno stemma, per cui elevato di su la massa confusa dell'universale tragga a se uno sguardo particolare, la tengono a gran gloria essere registrati nell'albo di cotali; non ostante che veggano messe in deriso dallo straniero qualcuna delle costumanze e pregiudizi nazionali. Ma cotanto attaccamento alle loro anche bizzarre proprietà è per essi in certo modo necessario come pabolo della fantasia che serbano tuttora vigorosa e potente. E ciò a ragione; perciocchè gli Albanesi de' quali parliamo, a considerarli nelle loro idee, caratteri, sentimenti, costumi, noi li troviamo di presente percorrere tra i popoli l'ultimo periodo della barbarie, ch'è l'esordio già della raffinata società civile. Epperò non è a meravigliare se tuttavia scorgiamo in essi quello spirito fantastico e poetico che si ravvisa costantemente in tutti i popoli a' quali è aperta la natura sensibile, e de' quali la ragione è ancora sul principio del suo processo. Per tale considerazione necessariamente non può non esser loro che la massima delle delizie il vagheggiamento delle originalità e maniere semplici e naturale onde vengono informate le proprie operazioni.

A conferma di ciò giova notare che, i canti de' Calabro- Albanesi diretti o ad elogiar le belle, o a celebrare una festa, o a dare un saluto a chi per bell'opra ha fermata la loro attenzione, sono tutti prodotto estemporaneo dell'estro che là per là si accende. Si uniscono a due cori, e l'uno ripete il verso che l'altro cantando improvvisa; usando sempre in simili casi la rima, la quale o pervenuta in prima dagli Arabi, o nata tra i tardi nipoti di Romolo, come vuole il Gravina, di certo è pe' canti Albanesi un vezzo che si è prestato dai canti Italiani. -E ciò sembraci fondato in quanto che la posizione delle vecchie canzoni popolari e delle rapsodie guerresche che ci ha rimasto salve l'ira del tempo le rinveniamo tutte d'un ritmo sciolto. Tali sono gli Epitalami che s'intonano agli sposi ne' giorni nuziali dai cori de' parenti ed amici, e tali gl'Inni Eroici in lode del famoso Castriota loro Re o di altro prode connazionale, che ora formano l'ornamento de' banchetti clamorosi, delle ridde, o di qualche festa di bellico trionfo, la cui memoria comecchè rammenta le antiche loro glorie sulla spada de' discendenti di Athmann, è per essi dolce come la riacquistata civiltà; onde la forza di quattro secoli fu incapace a cancellarlo dai loro petti.

Si dilettano gli Albanesi de' balli, che guidano al suon della zampogna, o ne' quali s' il civile che il plebeo, sì il ricco che il povero si accomunano e ballano e cantano insieme. - Amano la corsa e la lotta, e questi avanzi del loro tempo eroico formano de' pubblici spettacoli nelle grandi feste, quanto è belle veder richiamati a vita novella i giuochi famosi di Grecia; dappoichè salvo il luogo e i tempi preziosi di quella classica antichità, salvo l'entusiasmo universale della Nazione e lo scopo veramente grandioso cui si mirava, il palio per l'aere sventolante che incita al trionfo la forte gioventù ilare nel volto scesa nell'arena, la voce grave de' vecchi che la dirige ne' movimenti e le impedisce le frodi, le grida confuse di eccitamento e di plauso elevate dagli spettatori, il Curato infine che presiede, le sono particolarità che offrono ormai il simulacro vero della Greca palestra.

In simili feste gli Albanesi toccano l'eccesso dell'allegrezza; ma serbando sempre inalterabile il buon ordine, non perdono nè di contegno nè di decenza -due pruove che attestano di loro un popolo sensibile e a un tempo virtuoso. -Gli uomini e le donne intervengono tutti sì ne' pubblici spettacoli che nelle conversazioni private, ma non mai si soffre tra i due sessi confusione alcuna; dappoichè il pudore, che, secondo il Vico, ha unite le società e caratterizza i popoli semplici, brilla ancor vergine sulla fronte degli esuli di Epiro, mantiene ancor florida quella morale rigorosa che dannata forse dalla moderna falsa civiltà, è pure invero la miglior gloria della barbarie. Da quel pudore l'uomo è rattenuto tra i suoi doveri, e quel pudore è il magico talismano onde l'onestà delle donne va bellamente difesa. -Le donne poi ne' giorni di lavoro o chiuse nella propria abitazione come in un ginecèo attendono alle cure casalinghe, o da collaboratrici seguono nella campagna i mariti; e tutte indifferentemente e senza distinzione si portano alla fontana per attinger acqua o lavare i panni, ma sempre accompagnate dalla modestia e semplicità -nobili figlie di quel candore che adorna il loro animo e nemiche eterne alla stucchevole affettazione. -Le spose promesse non trattano affatto coi fidanzati: alla vista di essi come colte da un fulmine tutte pudibonde corrono precipitosamente a cerca di un luogo che le nasconda a quegli sguardi allarmanti, a' quali non si rendon visibili che nel giorno istesso in cui salutate vengono già spose.

Un tal giorno è poi il più degno di rimarco agli occhi del filosofo. Non è all'uopo tesser qui la serie delle mille bellissime simboliche cerimonie Ecclesiastiche giusta il rito della Chiesa orientale: il nostro argomento esige tutt'altro. Per dirla quì in iscorcio onde non istancare così co' dettagli la pazienza del leggitore, notiam di volo che, la pompa nuziale dalle prime mosse infino al suo termine viene accompagnata continuamente dal canto tessuto tutto di sentenze morali ed economiche. Notiam parimenti a scelta tra le mille che, al ritorno che fassi dal tempio, lo sposo appena giunto alla soglia della sua casa volto indietro si slancia correndo tra la turba accompagnante presso di lui la sposa, che rapisce e la conduce entro il talamo maritale - Io quì mi son fiso precipuamente con la mia attenzione; perocchè vi veggio un motivo di assai interessamento il rimontare per tali riti alle origini delle società, usando cioè il pudore da parte della donna era costretto a lottare colla violenza dell'uomo aggressore. E in quei tempi primitivi della umanità delle Nazioni ci conviene riferir parimenti la figura emblematica del regio-ciclopico potere de' padri, su la moglie e famiglia, che rappresenta in tal giorno lo sposo Albanese; da poi che questi vien titolato Re, ed interviene alla funzione con un cappello in capo e con indosso un manto maestoso -Tutta la scena poi vien resa più brillante da mille scoppi di archibugi che ora accompagnano le svariate desinenze del canto, ora servono a dar de' risalti alle diverse ritualità, secondo la forza del simbolo che rappresentano.

Un magnifico contrapposto alla pompa nuziale è la pompa funebre. La donna ispirata in quei momenti dal dolore scioglie lugubre canto a delle nenie sparse di tale una patetica e parlante poesia, che per sentire allora l'uomo primitivo raccomandare i suoi affetti alla natura, e nella natura leggere la magica dolcezza del compianto. Il cadavere nella sua fantasia è un oggetto che sente e che ragiona: mettesi perciò con esso a dialogare, e mille cose gli dice e mille gli commette per gli abitatori dell'eterno regno. -Le familiari al defunto strettisi al collo fra loro cantano ad una voce in suono armonico e grave e l'elogio delle virtù di lui, e con tale apparato lo accompagnano al sepolcro. Là corre intero il villaggio, ed una scena commoventissima cui si dà luogo non può non sforzare al pianto i cuori anche di marmo Ciascuna donna del convoglio alla vista de' tetri monumenti di morte sentendosi a un tratto ridestare nel petto le tristi memorie de' cari perduti, trascinata dal dolore te la vedi correre e poggiarsi boccone su i coperchi delle tombe amiche, dove chiama i trapassati del suo sangue, e li saluta, e li piange: -Per l'uomo è disonore versar lacrime: il segno del suo lutto è il viso raccolto a forte mestizia, e il grosso tabarro che glie lo nasconde, e che sia verno sia està porta sempre indosso e dentro e fuori casa.

I Calabro-Albanesi pari a tutti gli altri popoli che camminano un simile stadio nello sviluppo umano, non sente tuttavia il peso della infinità de' bisogni fittizi. Amante a preferenza della pastorizia, genere di occupazione che priva l'uomo del commercio e lo circoscrive entro il perimetro di una sfera limitatissima, non può avere idea de' molti comodi onde si abbella la vita. Dietro ciò, non ha un forte interesse di promuovere la curiosità e l'emulazione, fonte divine e feconde delle più belle conseguenze, senza le quali il genio delle arti e delle scienze miseramente isterilisce. E' alquanto ritroso quindi ad occuparsi di esse, e quantunque fatto per coltivare con successo, pure fiso nell'idea di superfluità che attacca a tuttocciò che non è di primaria necessità, le dichiara quasi mera ostentazione di talenti vani e corrotti. -Felice vita patriarcale! -De' suoi plausi, e se li merita, noi non pronunzierem giudizio, che rimettiamo ai Sofi l'ardua sentenza.

Per tali riflessi i nostri Albanesi vestono di un grosso panno di lana, di una tela grossa parimenti e in qualche contrada anche di ginestra, tutto preparato in casa istessa dalle proprie donne, ed uno è il vestire sia sotto la più ardente canicola che nella più rigida bruma -Son frugalissimi ne' cibi, che acconcia- no indistintamente nella naturale eroica semplicità. Distendono la mensa sopra un ruvido trespolo lavorato colla scure dalle proprie mani, e la moglie considerata già come la prima domestica, ha l'ufficio di servirla. E ciò è a dirsi tanto allorchè si è solo in famiglia, quanto, allorchè si ha il piacere di offrire l'ospitalità a persone straniere.

L'ospitalità tra le virtù diffusive è la più magnanima al certo e la più sedicente. Nata dal forte sentimento che l'uomo sensibile ha de' mali altrui, forma il pregio più distinto de' popolo barbari e con ciò vo' dedur lo stesso pe' nostri Albanesi, che han dato e danno tuttavia pruove lusinghiere a chi ha l'occasione di studiarli davvicino. -Ma se l'ospitalità al loro sguardo è il cenno più sacro del cielo, sono terribili e feroci poi se il beneficio vien loro contracambiato con la nera ingratitudine,

se ne' propri bisogni gridano indarno a una mano soccorritrice. S'armano allora a fiera vendetta, e colla propria forza fisica che mettono in campo e vendicano i torti ricevuti e reclamano senza entrar più oltre come dritti perfetti tanto questi quanto quei dritti anche di semplice umanità e beneficenza, de' quali si fa loro niego ingratamente. E' però che van sotto la taccia di uomini ferosi e crudeli: essi accendibili al menomo urto sentono troppo debole l'impero della ragione per domare dietro una sostosa abitudine gl'impeti della natura animale, sicchè battono comunemente sempre la morte. E da esso motivo prende origine medesimamente in gran parte il loro diletto peculiare pe' ladroneggi, se non vorremo addentrarci anche dall'altro canto più in là e rinvenirla ai popoli tutti in quello studio del loro processo ci- vile quando solo la forza del corpo conoscono e pregiano.

Non è a supporsi poi da quanto si è esposto non rinvenirsi tra le colonie Albanesi di Calabria differenza alcuna di ceto. Le morali straordinarie vicende a simiglianza de' fisici cataclismi dell'universo sono come un soffio novello dell'onnipotenza che manda il Creatore a far nuova la faccia della terra. Il nostro secolo cominciò già con simile palingenesia, e la forza scuotitrice degl'ingegno e della civiltà tuonando su' petti Albanesi balenò nella loro mente. Così la lunga barbarie che guida i popoli fanciulli fu per essi al termine del suo corso, l'ignoranza fu bandita, e la filosofia figlia purissima del cielo intromettendosi a mano a mano giunse a tale che di presente serbandosi negli Albanesi inalterabile virtù, i forti sentimenti, e le savie costumanze, il resto di queste e i curiosi pregiudizi solo continuano nel loro originario vigore presso il basso ceto e presso tutti indifferentemente ne' villaggi che sono pur troppo remoti dal commercio e dalle città civilizzate. Ma lo spirito di un popolo non è forse a dedursi dalla massima parte di esso formata già dalla plebe, non mai dalle poche famiglie de' nobili?

I nostri Albanesi sono di statura alta e di complessione robusta. Hanno un viso infiammato e serio -parlan poco e tardi, ma piace il loro accento grazioso rotondo e nasale -Sdegnano la vile dipendenza, tanto ch'è difficile rinvenir tra le donne qualcuna che si adattasse al mestiere di serva, e gli uomini la reputano a vergogna il contrar nozze con tali. -Hanno in orrore l'adulazione e quelle arti vili che mentre tendono a far superbire stoltamente i grandi, rendono abbietta la umana condizione. -Son facili alle risse, ostinati ne' litigi, e spesso un mero pettegolezzo è per loro una guerra di Lapiti. -L'amicizia cogli uguali, la fedeltà verso il padrone, la costanza e sincerità di cuore, e l'esaltata gelosia per le donne, la fermezza de' principi fissati, la inesorabilità nelle vendette e negli odi, il coraggio, l'intrepidezza son della particolarità per cui eglino si distinguono ancora. -Hanno molta intelligenza; ed al proposito mi gode l'animo trascrivere le parole di M. Busching che parlando degli Albanesi così si esprime -"ils ne cultivent point les sciences, mais ils sont tres-habiles a conduire les eaux" -solo questo per non essere infinito a farne la mostra con fatti per se stessi parlanti.

Ecco quanto credo sufficiente per dare un idea del carattere e costumi attuali delle Colonie Albanesi siti in questa Calabria. Noi facciam voti che il cielo le guardi benigno, e che menandole allo stato di vera coltura e civiltà, le conservi ancora (se possiamo augurarci un ispezial dono) amiche eterne di quelle virtù che in mezzo la rude semplicità furono e sono tuttavia il suo ornamento precipuo.

Bibliografia essenziale:
Domenico Cassiano, Risorgimento in Calabria, Figure e protagonisti Italo Albanesi, Ed Marco Lungro 2003.

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