martedì 3 dicembre 2019

Derku- L'uccisione del maiale

 ( di Pietro Napoletano Arberesh di Firmo)


L’uccisione del maiale era un avvenimento che si svolgeva con un rituale sempre identico, perpetuatosi nei secoli, e che aveva assunto un aspetto quasi liturgico.
Il motivo è da ricercarsi nel ruolo che la carne di maiale assumeva nell’alimentazione familiare del passato. “ Paç sapur si ka kripa e m’e dhenshe nje tel nga dita”, diceva la padrona di casa, buttando un pizzico di sale sul maiale ucciso e spaccato,ma prima che venisse sfasciato. Era una espressione augurale: “ che tu possa avere il sapore del sale e mi possa assicurare un tocco al giorno”.
Perché il maiale riempiva la tavola per quasi tutto l’anno: carne fresca, salsiccia, soppressata, capicollo, prosciutto, guanciale, lardo, ciccioli, cotiche, gelatina, animelle ,strutto, braciole conservate nella sugna.La fase preparatoria aveva inizio i primi di novembre, allorchè si procedeva all’ingrasso dei maiali, con una super alimentazione a base di ghiande, castagne, sfarinati di granturco e orzo. Allora non si conoscevano mangimi, né i trigliceridi! E ognuno sperava in cuor suo di possedere la bestia più grossa e grassa, tanto da costituire motivo di invidia da parte dei vicini.
La macellazione aveva inizio generalmente verso il 13 dicembre, a Santa Lucia, e proseguiva fin dopo l’Epifania. I più abbienti ne macellavano uno all’inizio della campagna ed uno a fine gennaio. Il rituale, però, incominciava fin dai primi di dicembre. Le donne facevano il bucato, pestavano il sale e il pepe, procuravano lo spago e, qualche giorno prima, facevano il pane, mentre gli uomini procuravano la legna secca ed affilavano i coltelli.
Stabilito il giorno, si prendevano accordi con il macellaio che, per lo più, non era macellaio di professione, ma uno che si improvvisava tale per l’occasione e che, nella maggioranza dei casi, apparteneva alla famiglia. Si invitava anche qualche amico perché aiutasse.
Dallo scrigno dei miei ricordi, emerge la figura del prozio Raffaele che arrivava puntualmente alle prime luci dell’alba, allorchè nella grossa caldaia di rame l’acqua stava già per arrivare all’ebollizione.
Entrando in cucina, egli tossiva rumorosamente, sputava con destrezza sulla brace, si sedeva quasi per compiacenza, sorbiva con sveltezza la tazza di caffè che gli veniva offerta, si arricciava con gesto meccanico i grigi mustacchi, ed invitava energicamente a mettersi al lavoro.
Gli uomini entravano nel porcile; qualcuno buttava per terra un pugno di fave e di granturco e, mentre il maiale, digiuno dal giorno avanti, incominciava a mangiare, lo legavano con un nodo scorsoio ad una gamba. Poi lo facevano uscire e, mentre una persona, facendo tintinnare un secchio, lo invitava a seguirla, le altre lo aizzavano e, occorrendo, lo spingevano. La bestia, impaurita, spesso si fermava o tentava la fuga per una via traversa, e allora due uomini lo afferravano per le orecchie e lo tiravano, mentre gli altri lo spingevano. Strilli acutissimi laceravano la quiete mattutina, poi la bestia si calmava e riprendeva il cammino, ansimando faticosamente per l’eccesso di adipe. Raggiunto il cortile, veniva afferrato, legato, sdraiato su un robusto e basso scanno, e immobilizzato dagli aiutanti.
Intanto, il prozio Raffaele completava il rituale lasciandosi allacciare il grembiule e sflilando delicatamente dal fodero bisunto il lungo ed affilatissimo coltello, poi si faceva buttare dell’acqua per bagnare la gola della bestia, quindi, con mossa fulminea,immergeva la lama, facendo sì che il fiotto gorgogliante di sangue vermiglio cadesse esclusivamente dentro il paiolo. Era quello il momento culminante e più emozionante.
Il suino, sgambettando disperatamente, lanciava il suo acuto grido di morte e lo scannatore, dopo un auto elogio alla raffinata tecnica che aveva consentito la fuoriuscita di tutto il sangue, vibrava finalmente il colpo mortale. Un sordo grugnito, poi un rantolo sempre più fioco, e la bestia rimaneva immobile.
Mentre la donna continuava a rimescolare il sangue affinchè non si raggrumasse, il corpo inerte del maiale veniva rovesciato in una grossa madia di legno. Iniziava quindi la fase della pelatura. Un degli uomini portava un pentolino d’acqua bollente e lo versava per prima nelle orecchie, ne versava poi un’altra sul dorso, mentre tutti gli aiutanti, alla svelta, ponevano mano agli affilatissimi coltelli, avendo cura di non far raffreddare la cotenna. Ai piedi veniva riservato un trattamento particolare: venivano immersi nel pentolino affinchè il pelo si ammorbidisse meglio.
Finita la pelatura, il roseo porco veniva appeso ad una trave per le zampe posteriori e lo scannatre procedeva alla sua spaccatura ed all’estrazione del fegato, dei polmoni, e delle interiora contenute nella cavità toracica e addominale.
Cure particolari erano riservate al lavaggio dell’intestino che doveva essere sfilato quando era ancora caldo. Finalmente, troncata la testa, che veniva esposta trionfalmente sul davanzale di una finestra con un’arancia in bocca, il corpo spaccato in due veniva lasciato a colare e a rassodarsi.
A mezzogiorno si riunivano tutti nell’ampia cucina per onorare il copioso banchetto a base di maccheroni, soffritto e fegato arrosto, il tutto abbondantemente innaffiato da ottimo vino,mentre l’aria era satura di un’acuta fragranza di vivande che stuzzicava l’appetito, se ce ne fosse stato bisogno.
Erano altri tempi, allora. La gente aveva altri problemi, ma sapeva trovare momenti di intima e sincera giovialità. La tavola metteva allegria. Non si aveva paura del cibo. Non sapeva cosa fosse il mal di fegato e nessuno mai parlava di pressione sanguigna, di colesterolo o di triglicerdi. La convulsione che attanaglia la nostra esistenza e la frenesia del nostro tempo erano sconosciute ai nostri padri. E un lauto pranzo costituiva un momento di esaltazione e di godimento quasi spirituale.
Nei giorni che seguivano, continuava il lavoro per la preparazione degli insaccati, della gelatina, del sanguinaccio, dei ciccioli, dello strutto e per la salatura di lardo, guanciale, prosciutto, capicolli e cotiche che costituivano il companatico più sano e genuino per tutto l’anno. E le lunghe pertiche da cui pendeva festosamente l’appetitoso salume, erano l’orgoglio della famiglia e, insieme con il pane, la soluzione del suo problema alimentare.

( di Pietro Napoletano, arberesh di Firmo)

Foto di: francavillainforma.it