martedì 14 febbraio 2012

Villa Spinola, il telegramma celato a Garibaldi

 

Non sempre la cronaca, al tempo dell'Unità d'Italia e negli anni successivi , riflettè su diari ,  testimonianze genuine e non subdole, alla quale, accorpandosi  anche la distratta storiografia, essa,  poco si prodigò per il raggiungimento del vero. Ombre aleatorie ricoprono , tutt'ora,  il cielo,  sotto il quale,  la spaziosità della Storia ricerca respiro. E'd'uopo che un vento ben augurante spiri e faccia  scostare sopra questa nobile vastità,  dubbi d'ogni sorta. Eventi precipitosi, come quello della spedizione dei Mille, ben poco predisposti ad una raccolta associata della Storia  e non  enunciati dall'erudizione libresca, nella loro incurata dispensa, possono glorificare o demonizzare.  Allogando la poetica  aristotelica, mi appropinquo alla cronaca. Il 3 maggio del 1860 avvenne un fatto che avrebbe potuto rinviare, se non addiritura vanificare, le sorti del processo di unificazione dell'Italia. A Quarto e precisamente a Villa Spinola, si era insediato il quartier generale di Garibaldi,  dove si consumò un episodio poco conosciuto dagli estimatori di storia risorgimentale. E' noto che Garibaldi,  il quale aveva promesso di guidare la spedizione in Sicilia, solo a patto che gli insorti vi si tenessero in armi fino al suo arrivo, decise negli ultimi giorni, dopo aver appreso che l'insurrezione era stata domata, di non prendersi più cura e di salpare per Caprera. Ma le premure esternategli dagli Italo Albanesi, Crispi e Damis, mettendo in giro, abilmente,  notizie favorevoli, lo fecero ritornare sulla deliberazione precedentemente presa, ordinando che si facessero in fretta i preparativi della partenza. Ma proprio due giorni prima, il 3 maggio, si delineò una situazione che avrebbe potuto arrecare gravi ed irreversibili conseguenze all'impresa stessa.
L'emigrato calabro-albanese Angelo Scura, figlio di Pasquale, in seguito Ministro di Giustizia nel governo proditattoriale,  impiegato  nell'ufficio telegrafico di Genova, fece pervenire al patriota calabrese Luigi Miceli la copia di un telegramma ufficiale con il quale il Marchese D'Aste, comandante di una parte della squadra navale piemontese nelle acque di Palermo, annunziava al governo di Torino, che gli insorti di Sicilia - che Garibaldi considerava ancora in armi - erano stati completamente sconfitti e dispersi.
Questa notizia avrebbe, sicuramente potuto far ritardare o perfino far recedere Garibaldi dall'intento di capitanare la spedizione, e nell'uno e l'altro caso modificare i disegni già ben predefiniti. Miceli tacque e risolvette di non dire nulla, neppure a Garibaldi. Ma poi non volendo assumersi una tanto grave responsabilità, poco prima di salpare da Quarto, decise di informare gli albanesi, Crispi, Mauro e Damis, suoi, sempre, compagni di lotta. Confortato da loro al silenzio, si stabilì che il Damis avrebbe parlato del telegramma a Garibaldi, solo quando si sarebbe stati in alto mare. Difatti, lì per lì non se ne  fece alcun accenno. Damis che era sul Piemonte con Garibaldi, fece quanto si era stabilito, e allorchè si giunse a Talamone, Garibaldi chiamò Miceli, gli chiese altri particolari del telegramma, e avutili, secondo la testimonianza diretta del Damis, gli disse: "Solo l'anima dannata di un calabrese, amico degli albanesi, poteva fare questo: bravo Miceli!" Tenutosi poi consiglio fra i capi si decise di proseguire ad ogni costo, e poichè nel telegramma era specificato che solo a Marsala c'era ancora qualche banda di insorti, si scelse quella città come luogo di approdo.


Note di bibliografia essenziale:
Giuseppe Garibaldi, conferenza tenuta a Milano il 25 giugno del 1882 da Gaetano neri;
Pietro Camardella, I Calabresi della spedizione dei Mille, Ortona a Mare, Off. Grafiche, 1910;
Archivio familiare su corrispondenza con Pier Domenico Damis.

lunedì 13 febbraio 2012

Europeismo ed albanesità nelle lotte per l'indipendenza

Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro
Di sicuro un popolo, come quello albanese,  il cui patrimonio spirituale, ereditato da antichi padri e tramandato ad attenti ed intraprendenti posteri,  incentrato sulla libertà e che, fin anche dopo  le luttuose vicende che hanno determinato flussi di migrazione incontrollata, diligentemente ha custodito,  non potendo non esternare,  seppur in patrie accoglienti,   il forte, indomito ed avito sentimento. Se incertezze ed oscurità aleggiano sulle sue origini , la storia  è ricca, come quella di Sparta  e di Roma , dei suoi fatti guerreschi.  Era ancora in auge la Grecia quando l'Aquila Macedone spinse il suo volo - come scrive il mio conterraneo Frega - ricovrendo la terra delle sue ali. Questo popolo, con indicibile ardimento, sfidò l'orgoglio della potenza Romana, mentre i campi dell'Epiro fumavano sotto le rovine della amara sconfitta. Vinta, ma non doma,  solo l'Albania rimaneva libera tra i popoli vassalli della complessa organizzazione latina e quando le orde dei Turchi sbucarono dai brulli territori asiatici e la mezzaluna sventolò sulla cupola di santa Sofia in Costantinopoli minacciando la cristianità, la grande anima di Giorgio Castriota Skanderbeg tenne attonito il mondo. Ma non termina qui la storia bellicosa di questo popolo fiero ed indomito, ostante la tirannia e sdolcinato con il tiranno.  In terre ospitanti, come l'Italia e la Grecia, gli albanesi,  oltre a dover riprendersi un posto decoroso, nell'ordine sociale precostituito,  diedero, con estremo disinteresse, un forte contributo in tutti gli accadimenti sviluppatisi per il raggiungimento della libertà e della indipendenza dalle diverse statualità tiranniche.  In Italia, adusi ma non acquiescenti, alle sovverchierie  del feudalesimo laico ed ecclesiastico, si resero protagonisti  in  tutti i rivolgimenti atti a mutare l'ancestrale tessuto sociale , concretando,  con plaudenti iniziative e risultati,  antiche aspirazioni. Determinanti furono nel periodo illuministico dando la parte migliore di sè alla nascita della Repubblica Partenopea, antònima della Noblese oblige e delle Vergini del focolare e dove, il sofiota Pasquale Baffi ricoprì la carica di ministro.  Nella giacente e stagnante desolazione su cui si adagiavano le Calabrie, corrose  dalle fauci e dissanguate dal vampirismo della feudalità mista, gli albanesi emersero, con provata dignita, sulle popolazioni autoctone e con la istituzione del Collegio Italo Albanese diedero lustro e onore alla terra matrigna,  evidenziando che il processo di acculturazione è stato impersonato e guidato da una ristretta ma cosciente cerchia locale, dove i valori e i modelli culturali dominanti nelle comunità erano quelli nella quale la classe dirigente si riconosceva. La tradizione venne attualizata in nuove forme più moderne di civiltà e di costume, ma persistendo come identità etnica e come valore sublimato.  Quando il tiranno borbone ricusò la Costituzione, forzatamente concessa, la rivoluzione divampò nella Calabria Citra e ad accenderla furono gli Italo Albanesi. come Domenico e Raffaele  Mauro,  Domenico e Angelo Damis, Grancesco Crispi, i Pace, i Placco  e moltissimi altri, che in rappresentanza e con gli altri fratelli di sangue , sul finire del 1860 entrarono in Napoli,  decretando informalmente L'Unità d'Italia .In quel frangente, dopo la storica battaglia del Volturno , Garibaldi con pubblico encomio cosi si rivolse al Generale arbereshe:" Bravo Damis, i tuoi albanesi si sono battuti da leoni." ( G. Garibaldi in memorie autobigrafiche pag 191). Ma non solo  nelle marziali rivoluzioni  si distinsero e si sopraelevarono, ma anche nella filosofia, dove con Camillo Vaccaro, uno dei padri del positvismo italiano, e  con Vincenzo Stratigò poeta e soldato, espressero, con sublime dottrina , i principi fondamentali dell'unità e della civiltà dei popoli.
Quando gli artigli della potente Russia, dilaniatori i serbo greci, attraverso il suo disegno imperialistico panslavista  ostava  le mire di  indipendenza dell'Albania, forte si levò la voce degli indomiti Albanesi d'Italia, che attraverso Damis, Crispi, Schirò, De Rada e Lorecchio echeggiò al mondo che la terra delle Aquile  riacquistasse la gestione autonoma e la dignità dovutale. Ecco la genialità di questa nobile stirpe: ritrovare e riemmergersi nella propria storia e nelle proprie origini.
Nel primo quarto del secolo XIX,  l'ombra generosa di questò popolo, comparve maestosa e salvò la Grecia fra gli artigli dell'Aquila della Selleide. Il mondo ebbe la seconda volta lo spettacolo di un secondo Leonida e la bara dell'albanese Marco Boçari ebbe il pianto di tutti i generosi della terra.
Byron,  il principe dei poeti moderni, comparve su quelle sponde e la sua ode mandò un fremito guerriero che pare risvegliasse il vecchio genio degli Albanesi: " Feroci sono i figli dell'Albania. Chi è il nemico che li ha veduti fuggire? Chi ha sostenuto il loro sguardo di morte? Tamburgi! Tamburgi! e il loro grido di guerra, al cui rombo scendono come torrenti, volano come le Aquile, stridono come le folgori."
E se anche la crudele politica del Metternich che voleva vedere soffocata la rivoluzione greca, valutandola come perturbatrice del legittimismo, il Miaulli con navi greche tenne in rispetto la flotta turca, Teodoro Kolkotronis a capo dei fierissimi montanari Manioti e Boçari con i Sulioti di  Epiro e di Acarcania, resero sterile quegli infausti intendimenti. Ma il sangue ribolliva nelle vene degli albanesi d'Italia, che facendo loro la causa dei fratelli arvaniti, attraverso l'associazionismo massonico, fecero ridestare  la coscienza della comune civiltà cristiana. La massoneria arbereshe sempre, fraternizzante con quella inglese, fece in modo che banchieri ed investitori  aprissero credito agli insorti. Questo atteggiameno di mutuo soccorso  si manifestò solo grazie alla esistenza di una notevole tradizione intellettuale degli arbeshe, comprovante la reale possibilità che ha l'uomo di risorgere anche nei momenti più tristi della sua storia. Un popolo, quindi, che ha sviluppato nel corso dei secoli una sua civiltà collocandola idealmente nell'ambito della "civiltà moderna" europea, sia pure legata all'altra "Europa", differenziandola per il suo contenuto etico e culturale da ogni altra classificazione sociologica, tale da rendere le condizioni storiche reali della sua particolare fenomenologia come  elementi  straordinari di politica sociogenetica. Le diaspore disgregano le società e le adagia a una miseria più grande di quella contabile e delle statistiche. Gli albanesi sono sopravvisuti alla catastrofe rivalutando la loro storia senza confinarla  entro circoscritte mura  ove lo sguardo dell'orizzonte appare teoretico, asfittico e miope, ma concretamente viva di quella universalità reale in cui si sostanzia la vita spirituale dell'uomo. 

sabato 4 febbraio 2012

Il meraviglioso popolo dei Buskali della valle di Hundeza

(di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)
Oltre cinque lustri fa, curiosando fra le pagine di Lidhja, rivista diretta dal papas Antonio Bellusci,  lessi, con molta curiosità e spirito di annotazione, uno scritto dell'Ing. Ernesto Scura concernente la esistenza di una misteriosa popolazione chiamata Kafira. Il non più fanciullesco desiderio del sapere,  determinò un improvviso e intenso bagliore e non di breve durata nella mia mente e nella mia anima. In quel periodo non era facile poter acquisire notizie con facilità, quel poco a disposizione per la ricerca era disponibile solo attraverso testi di etnologia specializzata e di geografia fisica-politica.

La fortuna di aver soggiornato a Napoli, per studi e per un periodo più o meno lungo, e la instancabile, ridicola, ossessiva passione, caratterizzata da eccesivo ottimismo, fra le innumerevoli  bancarelle di testi antichi di San Biagio dei Librai, ha in parte appagato la mia, già consulta, bramosia di conoscenze e nozioni, anche se non derivanti dall'esperienza e dall'esercizio.
Durante la mia permanenza nelle Forze Armate, grazie ad ufficiali colti, quale caro mi è il ricordo del Generale Fernado Micheli, riuscii attraverso L'Istituto Geografico Militare di Firenze, a raccogliere, seppur avvilupandole, notizie molto importanti riguardo la allogazione dei Kafiri. Il desiderio di approfondimento non si è affievolito con il passare degli anni, poichè, considerandomi un garante ed assertore della evoluzione della Microstoria, che, nella sua tendenza privilegia lo studio di fatti minuti delle vicissitudini dell'uomo in ambiti circoscritti,  con reiterazione, ha maggiormente dato impulso all'opera di ricerca. 

Nonostante il territorio dell'Afganisthan sia abitato in prevalenza dai "Pukhtun-khwa o Pashtanah", il loro idioma è di origine ariana e le parole semitiche che si riscontrano nel suo vocabolario, gli sono venute non dall'ebraico, ma dall'arabo, dopo la conversione degli abitanti del Pukhtun-khwa al maomettismo. 
Popolazioni variamente incrociate abitano le asperità di quei brulli territori: Afgani, Persiani, Arabi, Usbecchi e Turchi e vengono spesso chiamati, a Kabul come a Bokhara, con il nome di Parsivan o Parsi -Zeban equivalente a persiani.
Tribù come gli Hindki e i Kzihil Basha pare siano di origine indù, ma sono molto propensi al processo di civilizzazione. Tutte queste etnie sono abituate all'obbedienza e si rendono servili ai loro padroni in maniera incondizionata e tutte astrette alla religione maomettana. 
A nord  e ad est del Kohisthan popolato dai Tagiik, ad ovest degli Swati, dei Mound, a sud ovest dei Dardi di Gilgit e dell'Indo Superiore, la regione montuosa è abitata da indigeni ai quali si da il nome di Kafir o " infedeli", una delle comuntà più piccole e combattive della terra.
Questa meravigliosa popolazione, mai domata  e mai asservitasi alla fede islamica, sciitica e sunnita,  si auto proclama Kalash; più spesso ancora viene designata con l'appellativo di Siah-Posh o "Nero Vestiti", a causa delle pelli di capra nera.
Fra essi si distinguono i Sefid-Posh, che vestono di pelle di capra bianca, ma anch'essi , ed è per un abuso di linguaggio,  rimangono i "Neri Vestiti".
L'unico clan Kafir, di cui le donne abbiano conservato l'antico costume nazionale, è quello dei Buskali (a questo punto ritengo opportuno che il lettore memorizzi bene questi vocaboli); esse portano sul capo una cuffia adue corna, aventi ognuno oltre 25 centimetri di lunghezza.
I Buskali delle valli dell'Hindu-kush,sono riusciti a mantenersi indipendenti, grazie alla difficoltà di accesso del loro paese, circondato ad ovest e a sud  dalle vie storiche della Battriana e l'Indostan: l'asprezza dei colli, la strettezza delle chiuse e soprattutto l'inestricabile intreccio della vegetazione nelle macchie che orlano i fiumi, hanno difeso loro anche meglio del loro valore personale.
Quanti sono? Sono stati calcolati in mezzo milione, ma contando con essi tutte le popolazioni comprese fra l'Indu-kush, il fiume di Kabul e la frontiera indiana, i Kafir propriamente detti non superano le 150.000 unità. 
Nel 1840 , James Wood, al tempo della sua visita al Badakscian, vide alcuni Buskali e fu da essi invitato a recarsi nella loro patria dove trovò "tanto vino e miele quanto ne desiderasse", cosa illogica fra le altre popolazioni afgane.
Nel 1879 una escursione è stata fatta a nord di Gialabad, nel paese dei Kafiri dall'ufficiale inglese Tanner, visitando i villagi dei Buskali di Aret, Sciulut e Kalat, superando il valico del monte Ramkand, da cui la valle, percorsa dal fiume di Kabul - scrive il Tanner - " appare come un abisso, da loro chiamato Ka-hon, con le sue città ed i suoi villaggi, piccoli spazi grigiastri circondati di verzura".
I professori del National Geographic, Yule e Rawlinson, ritengono che i Kafiri non siano altro che Indù arianiti respinti da gran tempo nel "Paese delle montagne", chiamato da essi "Wamastan".
Secondo l'autorevole parere del professor William Trumpp, che ha veduto qualche Buskali, ritiene con certezza essi siano di origine europea. Non è raro incontrare degli esemplari dai capelli biondi e gli occhi azzuri, ma i più  hanno capelli bruni o castagno chiari ed occhi grigi; la tinta della loro pelle non sarebbe più scura di quello che sia in media fra gli Occidentali.
Si è voluto identificare i Kalash Buskali come i discendenti dei Macedoni, lasciati nelle montagne da Alessandro; ma, prima di venire in relazione con la civiltà europea essi ignoravano la loro origine macedone, ma tra essi il capo viene denominato "Sikander o Lisander".
Un altro particolare da aggiungere che i Kalash Buskali del villaggio di Sciulut, nella gola di Hundeza, valle sinuosa a forma di naso, si autoproclamano come gli ultimo eredi di Lisander, che nel 326 a.C. attraversò il Kafiristan alla conquista dell'India. Nei loro canti epici mettono in rilievo come il seme greco e le magiche fatine abbiano generato montanari biondi dagli occhi azzurri.

Coltivano la vite, cosa rara fra le altre popolazioni dell'Afganisthan e bevendo vino alla maniera macedone, cioè mista ad acqua, celebrano riti orgiastici e dionisiaci, dove le belle Kafire danzano similmente alle baccanti. I loro villaggi sono difesi da muraglie in pietra che loro chiamano Kalat " fortezza" e utilizzano per un miglior funzionamento della vita sociale un codice comportamentale consuetudinario simile a quello di Dukagijni o della "Montagna" propriamente detta.
E da come il mio amico di studi liceali, Antonio Borriello, antropologo, mi descrive, avendoli diverse volte visitati, pare che molte volte, il mio idioma si avvicini al loro. Si sta studiando molto sui Kafir Kalash, ma è necessario, anche se arduo, studiare i Buskali: i musi di cavallo, che fieri percorrono ancora le montagne dell'Afganisthan e le gole della valle di Hundeza.


Bibliografia:
Elphinstone, M. An account of the Kingdom of Caubul Londra 1898; Istituto Geografico Militare Firenze;
Journal of the Asiatic Socyeti of Bengal ;
De Saint Martin V., Annèe Geographique, 1863;
Foto www.unimondo.org.