giovedì 19 novembre 2020

SULLE ORIGINI "ALBANESI" DI SAN GIORGIO LUCANO






SULLE ORIGINI "ALBANESI" DI S. GIORGIO LUCANO




Di Vincenzo Fucci 

Terra di S. Giorgio. Dal 1863, regnante Vittorio Emanuele II°, sulla base di una esplicita deliberazione di quel Consiglio comunale – sindaco Giuseppe Lauria – divenne, con decreto reale, a tutti gli effetti, S. Giorgio Lucano. C'è comunque confusione sulle sue origini, sulla sua fondazione. 
Per alcuni avrebbe avuto origini e sarebbe stato fondato da profughi albanesi. Non si può essere di questo parere.
 La "Nuova descrittione del Regno di Napoli diviso in dodici provincie" di Enrico Bacco, del 1639 – che è la più vicina nel tempo alla data ufficiale di nascita del paese (1607) – riporta S. Giorgio alias Mendulo con "nove fuochi" mentre lo Giustiniani (1797), a proposito di Noja, l'attuale Noepoli, dica che "comprende cinque altri casali, cioè Terranova, Sangiorgio, Cersosimo, Casalnuovo e S. Costantino. Questi due ultimi sono abitati da albanesi". A proposito di S. Giorgio lo stesso Giustiniani rileva che "...in certi notamenti trovasi appellato Sangiorgio alias Minullo ed altre volte Sangiorgio alias Mandulo ma forse per errore".
 L'abate Domenico Sacco nel suo "Dizionario geografico-storico-fisico del Regno di Napoli" del 1795, qualche anno prima perciò dello Giustiniani, nel descrivere San Costantino e Casalnuovo (l'attuale S. Paolo), allora "terre della Provincia di Matera e in diocesi di Anglona e Tursi", rileva che gli abitanti dei due paesi (o casali) sono affidati alla cura spirituale di un arciprete curato per Casalnuovo e di un arciprete per San Costantino, entrambi di rito greco; i due centri, dice Sacco, sono abitati da albanesi. Tra le date dei testi di Bacco, Giustiniani e Sacco si inserisce quella della Relazione Gaudioso (1736) secondo cui: "La terra di S. Giorgio, distante dalla sopraddetta miglia dodici, situata vicino le montagne del Pullino, angustissima di territorio, viene posseduta dallo illustre Principe D. Fabrizio Pignatelli. È abitata da 50 e non più persone tutte miserabili, la maggior parte dei quali va procacciandosi il vitto in alieni paesi per essere detto territorio orrido e di malissima qualità, tenendo semplicemente una piccola Parrocchia senza entrate talmente che la Chiesa viene mantenuta dall'Università" (Traduzione Pedio). A redigere la relazione è stato senz'altro Rodrigo Maria Gaudioso per incarico di Carlo III°, ma si sarebbe limitato a raccogliere ed a coordinare le notizie fornitegli dalle varie Università. Tra le altre gli giunge anche quella dell'Università di S. Giorgio i cui amministratori – Pietro Antonio Di Stasi, sindaco, Domenico Silvestro capo-eletto, e Domenico Conce eletto – tutti sotto-croce segnati, ne fecero "Piena, veridica e reale feda". Nella "Relazione Gaudioso" perciò compaiono le notizie che loro stessi hanno voluto fornire. Non fanno comunque alcun cenno di albanesi, di origini albanesi, della presenza tra quei "50 miserabili" di albanesi o di loro discendenti. Mons. Antonio Lavitola, nei suoi "Cenni storici su Noepoli" a proposito di S. Giorgio osserva: "...I vassalli dovettero vendere, per pretesi debiti, diritti e privilegi, ai marchesi Pignatelli. 
Questi, nel 1617, per popolare il paesello di Mendulo, oggi S. Giorgio, la cui origine si attribuisce a banditi che furono obbligati a prosciugare il lago fiancheggiata, invitarono con concessioni le popolazioni dei dintorni ad occorrervi". La fonte del Lavitola appare Giuseppe Zito col suo "Contributo alla storia della Basilicata - Il Mandamento di Noepoli" del 1911 nel quale dice che: "...Sotto la signoria dei Pignatelli, che è durata fino all'abolizione della feudalità nel 1806, il feudo di Noha (o Noja, l'attuale Noepoli) si popolò di altri quattro casali: due albanesi e due italiani". Ed ancora: "...Alcuni (albanesi ndr) dopo essersi fermati prima nel casale detto Rubio, vicino a Francavilla sul Sinni, s'internarono nell'agro nolano e fondarono l'attuale S. Costantino. Altri si fermarono, secondo la tradizione popolare, prima nel luogo detto Mennulo, ove è attualmente il paese italiano di S. Giorgio Lucano, poi risalirono la valle del Sarmento e di fronte ai loro connazionali di S. Costantino, fondarono Casalnuovo ora detto S. Paolo. Questa tradizione trova conferma nel De Lellis il quale dice che Fabrizio Pignatelli, signore di Noha, cacciò gli albanesi da Mendollo (Mennulo) perché facinorosi e sanguinari. Gli albanesi dei due paesi conservano ancora la lingua ed i costumi nazionali". Che non siano stati, gli albanesi di cui accenna il De Lellis, una o due famiglie che avevano ottenuto "concessione" dal Pignatelli che ad un certo punto ritenne di allontanarli dai suoi territori? Di questa "concessione" comunque non c'è traccia alcuna, come non c'è traccia della presenza di quei "facinorosi e sanguinari", come rileva lo stesso Zito. Ma, del resto, Rubo o Rubio, feudo della Certosa di S. Michele in Valle, nei pressi di Francavilla sul Sinni, non era "diruntum et destructum" già all'inizio del XV° secolo? In una nota, nel suo "Contributo alla storia della Basilicata" del 1911, Zito che si è riportato a Tommaso Pace – autore di "Notizie storiche sul demanio e municipio di S. Costantino Albanese" del 1877 che non fa cenno alcuno alle origini albanesi di S. Giorgio – rileva che "Anche adesso gli albanesi chiamano S. Giorgio, Minnuglio". Non potrebbe darsi che i "...facinorosi e sanguinari..." di cui parla il De Lellis, siano quelli che Lavitola definisce "banditi"? Comunque, per gli albanesi, S. Giorgio era Mendullo, Mennulo, Minnuglio, Mendollo, Minullo: quale era il suo nomignolo preciso nel dialetto? Il Racioppi, che per altro, è preciso per le chiare origini dei casali di S. Paolo e di S. Costantino, non fa cenno alcuno – nemmeno a titolo di ipotesi – delle origini albanesi dell'altro casale sarmentano, S. Giorgio appunto, che cronologicamente fu l'ultimo a sorgere nell'antico Stato di Noha. Che, ad ogni modo, un S. Giorgio sia stato fondato in seguito ai flussi migratori della popolazione albanese che caratterizzò il periodo, è fuor di dubbio. Si tratta, però, di S. Giorgio Albanese che, ben diverso dal nostro, è situato in Calabria in una zona dove tutti quei piccoli centri sono di chiara origine albanese anche nel nome.
 Una zona che è appena al di là della parte lucana del massiccio del Pollino dove sono sorti i nostri S. Paolo e S. Costantino; ed anche a S. Giorgio Albanese il Sacco riporta la presenza di una Chiesa di rito greco con il relativo parroco così come riporta la presenza della Chiesa di rito latino, intitolata a S. Giorgio, con il relativo parroco. S. Giorgio Albanese, S. Cosmo Albanese, Spezzano Albanese, S. Demetrio Albanese, tutti sorti intorno al 1470, hanno conservato intatto il loro patrimonio culturale, dalla religione, agli usi, ai costumi, alle tradizioni. Non vi è dunque alcuna concretezza sulla origine albanese del comune lucano che lo stesso Zito definisce con chiarezza "italiano". In definitiva c'è un solo elemento: quella che egli stesso chiama "tradizione popolare" senza peraltro indicare alcun altra notizia se non l'episodio dei "facinorosi e sanguinari" ripresa dal De Lellis. Che poi uno o più gruppi di persone, nelle loro migrazioni, si siano fermati per un tempo anche breve in un posto, senza mettervi radici, non può avvalorare una tesi di fondazione tanto più quando di questa esistono precise indicazioni e documentazioni. È ancora Giuseppe Zito, con il suo richiamato "Contributo..." del 1911, che ci sovviene. Egli infatti riporta il preciso atto di nascita del piccolo centro lucano, a rogito notar Giulio Senisio di Cerchiara di Calabria: lo "strumento" dell'8 marzo 1607 intervenuto tra il Principe di Noha, Fabrizio Pignatelli, ed alcuni coloni di varie provenienze: Lausonia Viola di Castelsaraceno, Orlando Palazzo di Viggianello, Filippo Santagata, Felice Ippolito, Prospero Acciardi, Paladino Napoli e Tiberio Buonafede di Trebisacce. Alcuni di questi cognomi sono sopravvissuti all'usura del tempo. Nello "strumento" sono riportati i pesi e le servitù a cui i coloni stessi dovevano sottostare. Lo stesso Zito che aveva già riportato lo "Istrumento della fondazione di S. Giorgio – secolo XVII – nel suo "Contributo alla Storia della Basilicata – Lo Stato di Noha" del 1901, nel presentare "la descrizione di tre costumi antichissimi e caratteristici" – tra cui il "Gioco della falce" rivisitato nel tempo ed arricchito con elementi che non hanno alcun riscontro – non riporta e non fa cenno alcuno alla "tradizione popolare" ripresa dal De Lellis. Tutti i nomi o nomignoli con cui gli albanesi chiamavano S. Giorgio erano espressioni dialettali che, a quanto pare, potrebbe avere un solo significato: piccolo. E non vi è dubbio che S. Giorgio, all'epoca, sia stato di modestissime proporzioni come del resto attestavano gli amministratori del 1735 nella loro relazione all'incaricato di Re Carlo III°, Rodrigo Maria Gaudioso. S. Paolo e S. Costantino, i due microcosmi della Valle del Sarmento, di chiara origine albanese, hanno da sempre avuto – sino a non molti decenni or sono – come punto di riferimento S. Giorgio Lucano specie in alcune ricorrenze dell'anno.
I loro caratteristici costumi, peraltro molto apprezzati ed ammirati, erano familiari nelle giornate di fiera e di festa quando affollavano i negozi di generi vari per gli acquisti di ogni genere, dall'abbigliamento all'oreficeria. Erano tributari di S. Giorgio Lucano e non può apparire strano che lo chiamassero in dialetto Minullo, Mendullo o come altro, nel significato di "piccolo paese". Questo, anche se non manca l'ipotesi del significato di "paese in mezzo alle acque" per essere il paese stesso situato tra il torrente Sarmento ed un lago, poi prosciugato o scomparso nei secoli per le condizioni climatiche. Del resto, attraverso i secoli, dell'eventuale presenza albanese non è rimasta traccia alcuna nella lingua, negli usi, nei costumi, nelle tradizioni, a riprova proprio che non c'è stato alcun radicamento concreto. Che poi il territorio di S. Giorgio, per la sua particolare posizione geografica, ad una spanna dall'allora navigabile fiume Sinni, sia stato forse da sempre terra di passaggio non dovrebbe suscitare molte discussioni. Lo dimostrano, del resto, i reperti archeologici rinvenuti ai primi del secolo da cui si desume se non la fissa dimora almeno il passaggio dei greci. Ma, del resto, nel dialetto sangiorgese sono ancora presenti termini di origine greca tanto che Rainer Bigalke nel suo "Dizionario dialettale della Basilicata" stampato in Germania ad Heidelberg nel 1980, comprende il piccolo centro sarmentano nella zona con forte influsso di lingua greca e di lingua latina arcaica.


 Estratto da “Basilicata Regione – Notizie – Cultura/5 – Storia dei comuni lucani. https://consiglio.basilicata.it/archivio-news/files/docs/10/43/05/DOCUMENT_FILE_104305.pdf

Foto: intornomatera2019.com

giovedì 30 aprile 2020

L’Italia matrigna decide di usare i calabresi come cavie umane per sperimentare la Fase 2








L’Italia matrigna decide di usare i calabresi come cavie umane per sperimentare la Fase 2




Il governatore della Calabria, nottetempo, firma un decreto inaudito per la riapertura di molte attività. Il Meridione d’Italia ancora una volta nel mirino dei cosiddetti potenti ma flaccidi longobardi (Lombardo Veneti, Toscani e Piemontesi). Vani sono stati gli insulti di Feltri, Senaldi, Chirico ...nessun politico meridionale, presidente del consiglio e della repubblichetta e tanti sindaci e sindacalisti hanno mosso denuncia contro queste pubbliche azioni discriminatorie nei confronti del SUD. Oggi la banderuola governatrice, su ordine di qualche potente politico al soldo della finanza, addirittura vuole usare come cavia umana il popolo meridionale. Questa Italia Unita è matrigna, poiché una vera madre non desidera la morte dei suoi figli. Il popolo calabrese capirà? Molti sindaci della Calabria alle decisioni orgasmatiche della governatrice, hanno reagito con contro decreti…..speriamo sia giunto il momento che i meridionali scaccino da casa propria una matrigna indesiderata.. 
Poiché - esprime la Santelli - i calaberesi si sono dimostrati responsabili, è giusto che vengano riaperti bar e ristoranti in Calabria. Una battuta da persona che non detiene nessuna logica politica e sociale.


Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro

domenica 5 aprile 2020

La Grande Settimana Santa (Java e Madhe) Secondo il rito Greco Bizantino

La Grande Settimana Santa (Java e Madhe)



Degli antichi e complessi riti che si svolgevano nel corso della Settimana Santa (Java e Madhe) oggi, in molti paesi albanesi, permangono le processioni drammatiche, che costituiscono uno dei momenti più intensi e significativi della devozione popolare. Le funzioni solenni cominciano la mattina del Giovedì Santo quando il sacerdote, dopo aver letto i dodici brani dei Vangelo, procede alla lavanda dei piedi a dodici uomini della Comunità che rappresentano gli apostoli, seduti attorno ad un grande tavolo sul quale sono disposti altrettanti pani benedetti (kuleçët) che verranno poi tagliati e distribuiti ai fedeli. Altrettanto rispettata è la consuetudine di predisporre, fin dal Mercoledì delle Ceneri, chicchi di grano e legumi in genere, entro i piatti, sul cui fondo è stata stesa bambagia o lana imbevuta d'acqua. E un po' il rito pagano del giardino di Adone. Nei piatti, sistemati in luogo buio e caldo, prendono vita esili germogli giallognoli. Il Giovedì Santo, abbelliti con nastrini multicolori e con variopinti fiori di campo, vengono sistemati in tutte le chiese per addobbare le cappelle dove si allestisce il sepolcro di Cristo e vengono poi prelevati nella Domenica di Pasqua. Il Giovedì Santo, alle prime ore della sera, si svolge la processione, vivamente sentita dal popolo, che vi partecipa in massa, portando a spalla le diverse statue rappresentanti i vari momenti della via crucis ed eseguendo canti tradizionali albanesi, tramandati oralmente, simili ai canti funebri (vajtimet). La processione viene ripetuta in molte comunità arbëreshë anche il Venerdì Santo. A San Demetrio Corone, la sera del Venerdì Santo si svolge la Via Crucis con la partecipazione in massa di tutti i fedeli, mentre schiere di ragazzi girano per le vie del paese con le "trocke", tipici strumenti della musica popolare costruite in legno che, in sostituzione del suono delle campane, invitano la gente a partecipare alla processione del Cristo. Nella mattina del Sabato Santo si cantano il Vespro e la Liturgia di S. Basilio e, dopo la lettura dell'Epistola, viene dato in chiesa il preludio della resurrezione di Cristo, simbolicamente sollecitato dal sacerdote a risorgere, mediante il lancio di fiori. In quel momento le campane suonano a gloria, mentre il sacerdote compie il sacro rito alla fine del quale i fedeli si recano nelle fontane a prendere l'acqua benedetta. Dopo la mezzanotte, comitive di giovani, si riversano nelle strade del paese cantando l'inno "Kristos Anesti" (Cristo è risorto) svegliando la gente che dorme. Una tradizione singolare di San Demetrio Corone è la consuetudine tra la notte del Sabato e della Domenica di Pasqua di recarsi, in assoluto silenzio, alla fontana dei monaci, presso il Collegio di Sant'Adriano, per eseguire il rito del "rubare l'acqua". Il rito riproduce il gesto della Madonna allorquando non potendo lavare il corpo di Gesù perché impedita dalle guardie, si recò, nel silenzio della notte, presso una fontana dove bagnò un panno e così riuscì di nascosto a pulire il corpo del Figlio. Al rito si partecipa a piccoli gruppi che si formano in corrispondenza delle varie "gjitonie", i vicinati, e che a tarda ora si incamminano verso la fontana. I gruppi procedono rispettando un rigoroso silenzio e resistendo ai molestatori che puntualmente si incontrano lungo la strada, infatti chi ha già bevuto alla fontana è libero dal vincolo del silenzio e si diverte cercando di far parlare chi non l'ha ancora fatto, per questo si vedono le più anziane del gruppo munite di "dokanigje", lunghi bastoni dall'estremità biforcuta, con l'intento di scoraggiare i tentatori.
Dopo aver bevuto l'acqua del paese si scambiano gli auguri e tra canti e danze si ritorna alla volta del paese. A conclusione del rito ci si ritrova tutti davanti al portone della Chiesa Madre, dove alcuni volontari nel corso della giornata hanno accatastato tronchi d'albero, tavole di legno e ogni genere di materiale e così a mezzanotte si procede all'accensione della "qerradonulla" (grande falò). Al momento dell'accensione si esegue il canto greco "Christos Anesti" (Cristo è Risorto). Una caratteristica funzione liturgica si svolge all'alba della Domenica di Pasqua. Sebbene l'ora insolita la partecipazione dei fedeli e numerosa: il sacerdote con la croce in mano, seguito da questi ultimi, si ferma all'esterno della chiesa, davanti alla porta principale, batte la croce per tre volte sulla porta, ripetendo la formula liturgica del rito bizantino-greco "Aprite le porte". All'interno della chiesa la forza del male, il demonio (djallthi) con voce cavernosa, chiede chi è che bussa alla porta; alla risposta che è il Signore risorto, le porte si spalancano al terzo colpo. E mentre il demonio scompare, tra scoppi di mortaretti e stridore di catene, il sacerdote seguito dai fedeli entra in chiesa dove ha inizio il ''Mattutino''. Questa cerimonia che simboleggia la Risurrezione della morte, segna la fine della Settimana.


Fonte
http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/pls/cci_dioc_new/v3_s2ew_consultazione.mostra_paginawap?id_pagina=6706

martedì 24 marzo 2020

Francesco Saverio Vaccaro (Severo)

di Giuseppe Carlo Siciliano
“La mia famiglia fu quella che più di tutte patì le conseguenze del post unitarismo”

(Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)

Nato a Lungro nel 1875, due anni dopo si trasferì a Buenos Aires, in Argentina, dove il padre inseguì l’antico sogno di una vita più agiata, lontano dalla miseria, voluta dalla politica unitaria.
Ancor giovinetto, in terra starniera, lavorò come venditore di giornali. Autodidatta, dopo aver imparato a leggere e scrivere , si apposionò allo studio e alla diffusione della letteratura.
Ancora giovanissimo, assieme al fratello Luigi ( Lligi), fondò la “Casa Vaccaro”, un negozietto dove vendeva libri, giornali e riviste. Ben presto l’azienda si allargò, giungendo a fungere da ufficio cambio per gli emigrati e casa editrice di alcune riviste locali, tra le quali ” Los Sucesos Ilustrados”, il primo periodico illustrato d’Argentina donando il proprio contributo per la nascita della “Revista de Derecho, Historia y Letras” diretta da E. Zeballos e della “Revista de Filosofia”, diretta da J.Ingeneros. A queste aggiunse due iniziative che riscossero notevole successo di pubblico, la stampa e la diffusione dell’opera ” La Cultura Argentina” in 135 volumi, curata da J. Ingegneros e distribuita a prezzi popolari, e il “Giornale d’Italia”, che aveva l’intento di mantenere inalterati i legami tra gli emigrati e la madrepatria. Egli, lentamente, divenne un punto di riferimento della stampa e della cultura argentina, anche perchè ben presto si collocò tra quegli intellettuali che si opponevano alla censura sulla stampa perpetrata dal governo.
Scrittore egli stesso di numerosi articoli di vario genere, raccolti in una pubblicazione postuma nel 1946 dal titolo “Pagina dispersas”, fu anche un filantropo della cultura, distribuendo fra i giovani argentini centomila copie  dell’opera di Smiles “El Caracter”, con l’intento di contrastare l’analfabetismo giovanile e diffondere la cultura. Attratto sempre da nuove esperienze, fu fra i fondatori dell’Aereo Club Argentino, dove per dieci anni ricoprì la carica di tesoriere. Nel 1946, ancora in piena efficienza, improvvisamente morì, lasciando un incolmabile vuoto nella cultura Argentina. In suo onore, il fratello Vincentino, fondatore del partito comunista Argentino, nel 1950 fondò il “Museo della Caricatura Severo Vaccaro” e la fondazione culturale ” Severo Vaccaro”, che ancora oggi ha lo scopo di premiare con una medaglia d’oro ed un contributo in denaro la migliore opera editoriale dell’anno e che, in Argentina, viene considerato un premio nazionale simile al Nobel. Tra i vincitori di questo premio basti citare Louis Federico Leloir ( premio Nobel). il pittore Raul Soldi, il medico Renè Favaloro e lo storico Felix Luna.
Un’altra grande anima della mia Arberia.

venerdì 20 marzo 2020

Sottoscritto a Civita il protocollo d’intesa per la costituzione dell’Aggregazione dei comuni Arbëreshe










Sottoscritto a Civita il protocollo d’intesa per la costituzione dell’Aggregazione dei comuni Arbëreshe, seguirà la nascita dell’associazione cooperativa che, si auspica, venga varata in tempi brevi anche dagli altri comuni che intenderanno aderire.
Si è svolto, Sabato 7 Marzo c.a. nella suggestiva cornice paesaggistica di Civita la riunione dei comuni Arbëreshe il cui territorio ricade nell’area del Parco Nazionale del Pollino nonché adiacente la medesima area. L’evento rivolto ai rispettivi comuni, è stato promosso dall’Associazione “Sempre Insieme”. A fare gli onori di casa il Sindaco di Civita Alessandro Tocci, il quale ha accolto con un caloroso saluto, sia, l’organizzatore che ha dato impulso all’iniziativa avv. Antonio Chiaromonte e, sia, le autorità intervenute: A. Catapano Sindaco di Frascineto, M. De Lia, Vice-Sindaco del comune di Firmo, giusta delega, Dott. A. M. Troiano Sindaco di San Paolo albanese e R. Iannibelli Sindaco di San Costantino albanese, assenti per giusta causa, i restanti sindaci dei comuni invitati nel rigoroso ordine alfabetico: ACQUAFORMOSA, CASTROREGIO, LUNGRO, PLATACI e SAN BASILE. Ad aprire i lavori il Presidente dell’Associazione “Sempre Insieme”, il quale dopo aver relazionato sui temi dei marcatori identitari delle comunità Arbёreshe e sulla pressante necessità di preservarne il ricco patrimonio spirituale, storico, culturale e ambientale alla luce delle problematiche sorte dall’omologazione contemporanea, auspica un risveglio identitario da operare anche attraverso la costituzione di organismi aggregati in grado di porsi come volano per l’attività di salvaguardia e promozione delle comunità Arbёreshe. Sui temi posti, viene avviata la discussione con l’intervento del Sindaco di Civita, il quale nel ribadire la necessità di formare aggregazioni snelle e dinamiche, esprime piena condivisione dell’impostazione della costituenda aggregazione di Comuni riconoscendo altresì nel carattere bi-regionale (calabro-lucano) un importante valore aggiunto. Segue l’intervento del Sindaco di San Paolo, il quale sottolinea alcune differenze di forme giuridiche associative, anche di tentativi esperiti nel passato, concordando pienamente con l’impostazione data alla presente iniziativa. Di seguito il Sindaco di Frascineto, il quale evidenzia l’opportunità di consentire l’ingresso nell’Aggregazione a tutti i Comuni Arbёreshё che volessero farne parte, indipendentemente dalla loro localizzazione territoriale, per fare massa critica e così portare le istanze delle comunità Arbёreshё ai più alti livelli istituzionali. A seguire il Sindaco di San Costantino, il quale esprime piena condivisione per l’iniziativa proponendo la sottoscrizione del Protocollo d’Intesa per, successivamente, allargare lo spettro anche agli altri Comuni interessati, previa loro richiesta di adesione; indi suggerisce di procedere, raccogliendo il consenso di tutti i partecipanti, all’individuazione, sia, del comune capofila e, sia, di chi fungerà da Presidente dell’Aggregazione dei Comuni. All’unanimità viene eletto comune capofila Frascineto e Presidente il Sindaco di San Paolo Albanese. I lavori si sono conclusi con la sottoscrizione del preliminare Protocollo d’Intesa.
avv. Antonio Chiaromonte

giovedì 19 marzo 2020

Brindisi di Montagna tra Storia e memoria collettiva






Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro



Lo storico nelle sue ricerche si avvale prevalentemente delle fonti, materiale di lavoro e condizione fondamentale per le indagini. Non esistono, a mio avviso, profonde affinità tra storia e tradizione o memoria individuale e collettiva quantunque la storiografia si fonda sulla testimonianza e sulla memoria, ma non si identifica mai con essa. Tuttavia molte volte la tradizione o memoria può costituire un elemento necessario e suggeritore per lo svolgimento della ricerca alla quale concorre una edificante esegesi, quest’ultima molto più importante delle fonti stesse. La tradizione a questo punto può essere considerata e relativamente giustificata dal presupposto che nessuna fonte è muta, nessuna presenta lucidità, nessuna è sicura e nessuna riveste poco rilievo. La complessità delle memorie tramandate non si combina con la storia, per quanto essa è oggetto del lavoro storiografico.

La pubblicazione di Andrea Pisani riguardo la comunità di Brindisi di Montagna è un esempio di storiografia elaborata attraverso la memoria collettiva o la tradizione. Non vi sono indicate fonti, ma nella narrazione, i dettagli sono riportati con interessante lucidità. Le date e i luoghi sono descritti con scrupolosità direi quasi maniacale, così come anche i nomi delle persone e le attività da loro esercitate. In questa sorta di monografia, però, inconcepibilmente, non vengono citati gli avvenimenti che hanno determinato in maniera decisiva la storia di questa località. Come si potrà leggere avanti il Pisani non cita il terremoto del 1694 che distrusse centinaia di paesi e casali provocando la morte di migliaia di persone in Basilicata e nel Principato sia Citra che Ultra1 e neppure la immigrazione di albanesi dalla Chimara del 17742 citata da molti scrittori e sulla quale sto cercando di acquisire maggiori notizie attraverso gli archivi regionali, diocesani e napoletani. Ritengo sia importante riproporre una parte della pubblicazione, poiché, fondamentalmente, gli indizi riportati meritano attenta valutazione.

Riguardo la migrazione del 1532-1534, coronea o peloponnesiaca, Andrea Pisani, nel suo libro Dall’Albania a Brindisi di Montagna, ci racconta:

Tra il 1532 e il 1534, trenta famiglie, originarie di Corone, sbarcate a Napoli, furono accolte dal Principe di Bisignano Pietrantonio feudatario di Brindisi di Montagna e mescolate ai pochi indigeni superstiti per ripopolare il feudo che era rimasto fra i ripetuti terremoti e per sessantanove anni quasi deserto. I Coronei, dopo molti giorni di cammino e di disagi per luoghi sconosciuti ed aspri, senza mai perdersi di animo, giunsero affamati ed estenuati alla Torre della Serra del Ponte. Quivi ebbero la prima indicazione del luogo che, in prossimità del fortilizio, doveva essere loro perenne dimora; ma, secondo tradizione, appena traversato il Basento, si trovarono in così folta boscaglia, smarriti all’inizio dell’ascesa, da dover una prima ed una seconda volta retrocedere per riprendere esatta visione, migliore orientamento e precisare la meta.

Dallo sbocco del Vallone Monaco, risalendo nella valle per il Tufo, ove ora son l’orto di Antinori e la vigna di Spera, raggiunsero con molta fatica la sommità del monte.

Le trenta famiglie  albanesi prime giunte furono quelle di Barbati, Basta, Bellezza, Beccia, Bello, Bianco, Biluscio, Bodino, Bubbich, Busicchio, Canadeo, Cappariello, Caporale, Colossi, Como, Creasi, Cresio, Greco, Lech, Licumati, Manes, Mattes, Molicchio, Musciacchio, Plescia, Prete, Pulmett, Rennisi, Scura, e Truppa.

Molti di questi cognomi come si può notare furono sicuramente oggetto di rotacismo perpetuato dagli amanuensi ecclesiastici e dagli impiegati del feudatario.

Gli Albanesi, dopo le escursioni fatte nel territorio e tra le ruine dell’antico Brindisi, scelsero come luogo di dimora, com’è naturale, la parte più sicura presso il castello, cioè sul blocco roccioso e inespugnabile. Le prime loro abitazioni, in tanta fittezza di alberi annosi, furono capanne di legno, e, invero, ricordiamo noi stessi umili casette con muri a loto, coperte non di embrici o tegole,ma di scannule (tavolette a spacco, lunghe circa cm. 75 e larghe cm. 25, in media): copertura che ancora si osserva su qualche casetta di campagna.

Il primo periodo di attività dovette essere di scorrerie nella contrada, ove molte comodità mancavano e la disperazione cresceva pel triste governo del vice reame spagnuolo, che spingeva gli abitanti di tutto il napoletano, anche quelli della campagna, ad abbracciare come ultima risorsa, il mestiere di bandito in ischiere, che venivano poi capitanate da signori di nobilissime famiglie. E non pochi tra i nuovi venuti si diedero alla caccia e al servizio militare mercenario nelle case dei principi e nei regi tribunali: con un passato tutto di guerre non potevano non essere esperti ed inclinati alle armi. Il lavoro, sempre tenuto in dispregio dagli uomini era serbato alle donne.

Alcuni dapprima, e in seguito quasi tutti, si dedicarono alla pastorizia e all’agricoltura: la pastorizia è sempre stata ed è l’occupazione prediletta degli Albanesi. Poi piantarono vigne, le popolarono di alberi da frutto e migliorarono le loro abitazioni. Per la loro vita spirituale e per seguire le loro supreme e ferme aspirazioni avrebbero voluto conservare e praticare il culto cattolico orientale che, insieme alla loro lingua, ai costumi, alle loro tradizioni formava la caratteristica spiccata della loro razza; non avevano, però, sacerdoti connazionali e furono dagli arcivescovi della diocesi di Acerenza accumunati nel rito latino ai prossimi Vagliesi: non agli abitanti di Trivigno che era un casalotto di Anzi, e non a quelli di Albano che era nella diocesi di Tricarico. A Vaglio, dunque, si recavano i nostri per tutte le pratiche religiose, ma con loro disagio, maggiore durante le intemperie e nei casi urgenti.

Il 20 giugno 1595 in pubblico comizio, v’intervennero il sindaco Giobbe Barbati, il capo eletto Bolimetti, il governatore Molfese, tutti i capi di famiglia, decisero e giurarono di edificare, sui ruderi di altra cappella la chiesa di San Nicola, ora chiesa madre, mediante oblazione in grano e in denaro, e contrassero obbligo per la manutenzione dell’edifizio e pel mantenimento del parroco.

Lo stesso Barbati si rese promotore d’una colletta per riedificare la cappella di S. Maria Mater Msericordiae: come ho detto altrove.

Ma sino al 1628 non riuscirono ad avere sul luogo preti e cure di anime. Soggiunsero allora altre famiglie croiesi di Lillo, di Aripopoli, di Dorisi (poi detta Dores), di Bizza. In vero, anche queste avevano per un certo tempo dimorato in Italia: gli Aripopoli, colti e nobili, vennero dalla regione leccese; i Dorisi e i Bizza, poi detti Bellezza vennero dalle Calabrie; i Lillo da Barile. Si erano staccate da altre colonie albanesi e furono accolte dai loro connazionali, come di contemporanea provenienza, ed ammesse a godere i loro stessi privilegi. Nacque dalla fusione e dalla concordia una piacevole gara per procurarsi col lavoro assiduo le comodità di vita comune e per nobilitarsi con le lettere, le scienze e le virtù civili.

Con queste ultime famiglie si ebbero i due primi sacerdoti greci: Don Francesco Avianò e Don Demetrio Sannazzari, i quali, con regolare contratto rogato il 21 dicembre di quello stesso anno (1628), accettarono il disimpegno degli ufficii religiosi. I due preti, come consentiva il loro rito, ebbero moglie e discendenti e tra questi non pochi preti, come Don Basilio Bellezza. L’arciprete Avianò e il fratello Alessandro, suocero di Demetrio Bellezza, fecero ricostruire sulle prische rovine la cappella di San Giacomo Apostolo, della quale non rimangono che qualche arco e due basi prismatiche di colonne. La cappella di San Giacomo ebbe una dote di tre case, 50 tomoli di terreno (circa 20,5 ettari), di una vigna in contrada Cornale, di 400 pecore e capre e di due bellissime campane. La cappella con tali benefizi passò nel 1657 al prete Don Basilio Bellezza, avanti ricordato, e poi ad altri discendenti, preti colti e stimati.

La famiglia Bellezza è stata la più numerosa, la più intelligente e la più attiva, quella che più si è diffusa diramata fuori del nostro comune. Abbiamo il dovere di ricordare Andrea Bellezza, che fra le altre opere buone fondò la Congregazione del Rosario e le elargì quanto possedeva: istituì la Lavanda dei Piedi e la Cena del Giovedì Santo, con la distribuzione, a sue spese, di pane benedetto ai poveri, secondo l’uso di case principesche.

Don Vincenzo Capparelli, fratello dell’arciprete Domenicantonio, avvelenato in Vignola ora Pignola per volere di un duca, fu parroco di San Paolo di Roma.

Decoro e lustro al nostro paese diede la famiglia Basta, Croiese. Di essa si occupa lo Strada, autore del libro “De bello bellico” (libro V pag. 308). Andrea fu molto versato nelle lettere; Gerardo, benefico e religioso, fece costruire nella cappella della Madonna il nuovo coro e la cupola del campanile; Nicola fu ufficiale di cavalleria nell’esercito del re di Spagna e nel 1580 combattè nei Paesi Bassi, ove molto si segnalò; Giorgio nato a Rocca (Imperiale?), Conte e valoroso generale nella stessa armata di Spagna (1600), scrisse due trattati: “ Il maestro di campo generale, stampato a Venezia nel 1606 e “Il Governo della Cavalleria leggera”, stampato a Francoforte nel 1612.

Son pur degne di nota le famiglie originarie di Plescia, di Barbati, di Mattes poi Mazza, di Belli, di Manes, di Buscicchio, di Prete, di Pulmetti, di Dorisi o Dores, di Candeo, di Rennisi e di Beccia: perché diedero cittadini probi, colti e stimati, e i Barbati si prodigarono di più degli altri nelle cariche pubbliche. I Truppa, i Malicchio, i Caporale, i Greco, i Creasi, i Crescio, i Biluscio, i Bodino, i Colossi, i Lecca, i Rubico e i Licumati attesero umilmente e modestamente al lavoro dei campi, senza dimostrare mai alcuna tendenza a migliorarsi intellettualmente.

Nei primi tempi di adattamento e di assestamento che durarono più di un secolo e fino alla seconda metà del 1600, nel regime di vita domestica ed agricola la colonia si mantenne gelosa delle sue tradizioni e delle sue consuetudini elleniche originarie. Alle prime incertezze, alle oscillazioni tra il vecchio e il nuovo, tra le armi e la pastorizia, dileguatosi il ricordo delle feroci persecuzioni turche e delle torture, seguì tutto un fervore di attività casalinghe, campestri e chiesastiche, un vero raccoglimento di spiriti concordi, anelanti alla pace e alla quiete. Il raccoglimento, favorito dal silenzio silvestre e dalla inaccessibilità dei monti, aveva ancora una tinta di paura delle convulsioni sismiche e delle furie aeree; era desiderio intenso di placare le ire dei cattivi geni e di avvicinarsi e di avvicinarsi alla clemenza di un supremo regolatore, che una volta chiamavano Allah ed ora hanno imparato a chiamare giusto Iddio.

Lo prova il fatto, di cui il ricordo è preciso, che le famiglie di migliori intelligenze e di migliori sentimenti diedero cure devote e sostanze cospicue all’edificazione ed alla resaturazione di chiese e cappelle e allo studio di lettere latine, di teologia e di storia; mentre fino al 1595 non avevano un prete, e se l’ebbero poi saltuariamente fu un vagliese (di Vaglio), Don Gregorio Catalano.

 Superato tutto un periodo di difficoltà, le famiglie originarie si fecero conoscere dai popoli vicini e guadagnarono credito: contrassero matrimonii e amicizie, stabilirono commerci ed effettuarono scambi di prodotti.

Aumentato con la popolazione il benessere, per i cresciuti bisogni, oltre i primitivi inerenti all’agricoltura ed alla pastorizia, si verificò l’immigrazione di artigiani e di professionisti e di famiglie italiche. Dobbiamo, per la verità, far rilucere col buon nome acquistato dagli Albanesi la bontà del nostro clima, la salubrità dell’aria. L’abbondanza delle acque che sorgevano in molti punti del territorio, la estensione e l’ubertosità del territorio stesso, l’esuberanza dei pascoli e la folta ricchezza dei boschi. Allora facilmente si ottenevano terreni feudali con semplice istanza e col solo pagamento di decime in vettovaglie.3



1 Andrea Pisani, Dall'Albania a Brindisi Montagna all'Italia. Cronistoria dal 1262 al 1927, Palombara Sabina Roma 1927. Ristampa anastatica, Tip. IBMG Matera 1989.


2 R. Giura Longo,La Basilicata moderna e contemporanea, Napoli, Edizioni del Sole, 1992 p. 218. Riguardo il terremoto dell’8 settembre 1694 e Relatione del Terremoto accaduto a Napoli e parte del suo Regno il giorno 8 settembre 1694, dove si dà ragguaglio de li danni, che il medesimo ha cagionato in molte parti del Regno et in particolare nelle tre Provincie di Principato Citra, Ultra e Basilicata con il numero de’ morti che nella medesime sono rimasti sotto de le Pietre. In Napoli, 15 ottobre 1694- Per Dom. Ant. Parrino e Camillo Camallo.


3 A. Masci, Discorso sull’origine, costumi e stato attuale della nazione albanese, C. Marco ed. Lungro (CS) 1990 p. 102 – M. Scutari, Notizie historiche sull’origine e stabilimento degli Albanesi nel Regno delle Due Sicilie, Potenza 1825.





 Foto :  siviaggia.it








mercoledì 18 marzo 2020

Drangoleja




(A cura di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)



Nelle ricerche etnografiche del Papas Antonio Bellusci sugli gli Albanesi d’Italia, in questo caso particolare su quelli dell’Arberia Calabrese, grande rilievo assume quella delle culture analfabete. Tradizioni e credenze che tutt’ora si riscontrano in Epiro e nelle comunità albanofone della Grecia. Esistono entità defunte individuate e non individuate che prendono sembianze animali. Nelle nostre comunità si è molto ossequienti alla figura del colubro “ Drangoleja”.
<< Si crede che nel colubro (Drangoleja), abiti uno spirito di qualche antenato defunto. Non bisogna, quindi, assolutamente ucciderlo. L’antenato ritorna sotto le sembianze di un animale nella propria abitazione. E i vivi lo rispettano e lo chiamano “Djor”, che può significare spirito derelitto, ramingo ed in cerca di pace. Molto diffusa fra gli Arberesh è la credenza che nei serpenti alberghi lo spirito di qualche trapassato. Da qui nasce il culto e la proibizione “tabù” di ucciderlo.
Ritenendo che lo spirito dei defunti possa emigrare nel colubro ( Drangoleja), esso viene ritenuto “Urja e shepise”,cioè la benedizione, l’augurio, il protettore della casa. “ Nje her ish nje burr e kish dhent e kish kalivjen ne malt. E nga her çe hapnej stjavukun se kish haj, ka qaramidhet i kallarej nje drangulè. Ki burr kish nje bir. Nje dit i la dhent te birit e vate ne katund e mbet di o tri dit. Ki guanjuni, kur erdh miezdita, mua e e tundi se kish kallarej drangoleja te hajen bashk, psè i jati i kish then keshtù. Drangoleja u kallar. Kur drangoleja u kallar ki trim muar toprin e i preu krjet. Kur erdh dita çe u ngjt i jati ne malet i tha: Moj biri im çe bere? Foka non shoh drangolen. Ku e dergove? Tha i biri: i preva krjet se neng mund te shinja te hanej pres neve. I jati: Uuuuu bir çe bere? Psè kish te vrisie? Ajò ish Urja ke sai kalivje. Naten drangoleja i del nde grumi guanjunit e i thot: psè me vrave? U isha tatmadhi. Ti me vrave e e bere mir. Menatet kur u zgjua ja tha t’jatit enderrin e u vun e qajtin te dja. Çe ahjrna neng pan me te mir nde shepì.”
Traduzione:
“Una volta c’era un uomo e aveva le pecore e una capanna in montagna. Ogni qualvolta apriva la salvietta per mangiare, dalle tegole di essa discendeva un colubro. Quest’uomo aveva un figlio. Un giorno lasciò le pecore in custodia al figlio e andò in paese dove si soffermò per un paio di giorni. Il ragazzo, assente il padre, quando giunse mezzogiorno, prese il piatto e lo smosse perché doveva scendere il colubro per mangiare insieme, poiché il padre gli aveva detto così. Il colubro discese e il ragazzo prese l’ascia grossa e gli tagliò il capo. Quando giunse il giorno che il padre risalì in montagna disse: Figlio mio cosa hai fatto? Mi sembra di non vedere il colubro. Dove lo hai mandato? E il figlio: gli ho tagliato la testa, non sopportavo più vederlo mangiare accanto a me! E il padre: uuuu figlio mio che hai fatto? Perché dovevi ucciderlo? Quello era “Urja” la benedizione di questa capanna! In seguito, il colubro appare in sogno al ragazzo e gli dice: T figlio mio perché mi hai ucciso? Io ero tuo nonno. Tu mi hai ucciso e hai fatto bene. L’indomani il ragazzo raccontò il sogno fatto al padre ed insieme si misero a piangere. Da allora non videro più progresso in casa loro”.1
Fino a qualche decennio fa era radicata nelle popolazioni arberesh di Calabria la credenza nella trasmigrazione delle anime dei defunti negli animali e sicuramente questo mito ci riporta alla pre- religione dei nostri avi. Io sono scettico, ma ho per amico un colubro, che puntualmente ai primi di maggio, come se volesse salutarmi, si rifà vivo in un vecchio casolare che era di proprietà dei mie bisnonni. E’ un colubro di grosse dimensioni, avrà forse più di cento anni e quando solleva “il capo”, rivolgendomi lo sguardo, intravedo tenera dolcezza. All’inizio di questa estate l’ho visto avvolgersi ad una grossa pianta di noce… la pianta è seccata dopo alcuni giorni.


1 Estratto da Magia, Miti e Credenze Popolari ( ricerca Etnografica tra gli Albanesi d’Italia) di Antonio Bellusci. Biondi Editore Cosenza 1983.


lunedì 9 marzo 2020

L'Italia messa in vendita. La Germania si fa avanti per acquistare.

Mes, l’Europa tira avanti insensibile al Coronavirus.

Di Paolo Padoin

BRUXELLES – Mentre quasi tutti i Paesi d’Europa lottano contro il Coronavirus, che ha ormai assunto i caratteri della pandemia, l’Europa dei mercanti e dei finanzieri, dominata dagli interessi della Germania e delle lobbies della finanza, pensa ad altro, ad affamare i Paesi dove il debito è più alto, come ha fatto con la Grecia, e come si appresta a fare con l’Italia, con il consenso delle obbedienti sinistre al governo.
La riforma del Meccanismo europeo di stabilità torna sul tavolo dei ministri dell’economia e delle finanze della zona euro. Nella prossima riunione, il 16 marzo, l’Eurogruppo è chiamato a dare l’approvazione finale del testo su cui c’è già un accordo politico da diversi mesi, prima negato e poi ammesso da Conte e Gualtieri. Nelle scorse settimane, è proseguito il lavoro tecnico che deve chiudere tutte le questioni legali ancora aperte. L’Eurogruppo dovrà decidere, all’unanimità, se il lavoro è terminato oppure se rinviare ancora. Se i ministri daranno l’ok, saranno poi i rappresentanti dei Governi a firmare il nuovo Trattato in una riunione successiva, e poi potrà partire il processo di ratifica dei Parlamento nazionali che dovrebbe prendere circa un anno.

Fonte: www.firenzepost.it

giovedì 5 marzo 2020

Centenario della fondazione dell'Eparchia di Lungro su Rai 3 digitale

a cura dell'Eparchia degli Italo Albanesi dell'Italia Continentale Sabato 7 marzo 2020, dalle ore  07.30 alle ore 08.00, sul canale del Digitale Terrestre  RAI 3, trasmissione del Documentario realizzato sulla celebrazione del Primo Centenario dell’Eparchia di Lungro. Rai 3 con la collaborazione dell'Eparchia di Lungro

domenica 1 marzo 2020

D'Annunzio, l'esteta.


di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro



L’erudizione libresca è un male che viene iniettato per la produzione del falso ed affannata è la sua stessa esistenza. Essa ebbe un ruolo esplicativo di primaria importanza tra il XVI e il XVII, secolo soprattutto negli ambienti ecclesiastici e tra i membri degli ordini religiosi, che non poco influirono nelle distorsioni della cultura italiana. L’erudizione libresca imposta può essere paragonata, incontrovertibilmente, alla funzione che un regime statuale oggi, attraverso i media, ingiunge, sotto forma di angheria e con metodi truffaldini la propria stabilità. Tutto questo è da considerare come un peccato dogmatico, fondato su uno o più principii dati come veri e inconfutabili, indipendentemente dalla loro verifica nella realtà e nei fatti, determinanti una precaria comprensione della elementare concezione del termine “Democrazia.” Fin dalla tenera età fummo educati al mito di Garibaldi, dei Mille e del Re Galantuomo..guai a chi scriveva in minuscolo riferendosi a tali personaggi, in seguito qualcosa decisamente cambiò. Con l’irredentismo italico emerse un Vate, che per lunghi anni sbeffeggiò il “duce:” Gabriele D’Annunzio il pescarese, considerato, dopo Dante, il maggior poeta. Morì il primo marzo del 1938 e dopo sei mesi Mussolini a Trieste annunciò che avrebbe introdotto le leggi razziali...perchè dopo la sua morte? I partigiani se lo sono mai chiesto o la risposta fu data direttamente da Mosca? Come mori D’Annunzio? Gli intellettuali dal color ormai rosato sanno rispondere al quesito? NO! Perché quegli intellettuali rossi ed oggi rosati non sapevano dell’odio che nutriva il Vate per il razzismo, in quanto mai hanno letto le sue Opere d’Arte e perché mai hanno cercato di distinguere l’estetismo dal decadentismo e quest’ultimo dal positivismo razionale. Non aggiungo altro lasciando nel dubbio chi non legge e profana.


lunedì 24 febbraio 2020

L'incesto tra potere e popolo


 di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro




L’uomo è nato ignorante. Attraverso l’erudizione taluni hanno superato questa barriera congenita, altri o perché impediti o perché nati tuttologi, al presente risultano essere vittime di faccendieri burattinai. I rapporti tra i poteri dominanti e l’ignoranza sono strettamente collegati- scrive Elda Goldman- ed essi, sono un grande pericolo per la democrazia, la convivenza sociale, la libertà, i doveri e i diritti dell’uomo. Verissimo poiché il dualismo potere e ignoranza, determinano una alterazione negativa con conseguenze letali per la “demos kratos” ossia il potere popolare. Quindi è deducibile che l’ignoranza è una inseparabile alleata delle forze antidemocratiche, le quali utilizzano come metodo la manipolazione delle coscienze. Nel corso dei secoli le menti ignoranti sono state travolte e rese succubi da quelle dominanti per il consolidamento dei propri interessi politici, sociali, economici, religiosi ed etici. Agli inizi del XVII secolo le baronie ecclesiastiche, avvalendosi della “inscentia plebeii”, per il timor dovuto a Dio facevano adorare statue di santi che Mosè stesso avrebbe distrutto con le sue Tavole. Contemporaneamente, per tenere a bada gli affamati e rivoltosi contadini, imponevano lunghi ed estenuanti digiuni. I baroni laici, il fenomeno comunista e fascista, decisamente spartani, non avevano armi cui disporre se non la violenza. L’ignoranza, passiva, fu vittima anche del potentato che affermava: i comunisti mangiano i bambini e di quell’altro che riteneva, pubblicizzandolo, che la religione è oppio dei popoli.

Esistono due tipi di ignoranza nell’uomo, una attiva ed una passiva. Quella attiva è pericolosissima perché l’individuo sceglie di non avvicinarsi al sapere considerandosi già sapiente divenendo così estremamente temibile per lo sviluppo della società. Quella passiva, invece, è legata a diverse cause che concorrono fra di esse, dannoso solo per il singolo soggetto senza contrastare irrimediabilmente l’organizzazione sociale. Ma il problema rimane il popolo, soggetto dinamico nelle sue aspirazioni e nei suoi decadimenti. Così descrive quello italiano Andrea Camilleri: “L’italiani non amano sintiri le voci libbire, le virità disturbano il loro ciriveddro in sonnolenza perenne, preferiscino le voci che non gli danno problemi, che li rassicurano sulla loro appartenenza al gregge.”

Goethe scrisse: “Nulla è più terribile di un’ignoranza attiva” e Emma Goldman: “L’elemento più violento della società è l’ignoranza.”

Nella diffusione rapida e capillare dell’ignoranza un posto di notevole importanza lo occupo lo Stato, in quanto questo male non si propaga per riproduzione endogena, ma per cause legate dall’abbandono della tematica. Lo Stato non esercita nel suo dovere una delle sue funzioni principali: l’educazione.

Pessimista? No realista! Oggi i poteri forti, attraverso il contributo dell’ignoranza passiva (i media) hanno trovato altro per distrarre e rendere innocui i pochi focolai insurrezionalisti: la mucca pazza, l’aviaria, la suina ed ultimamente il coronavirus, tralasciando vergognosamente i 5000 morti all’anno per tumore a Taranto, le vittime della terra dei fuochi e quelli dell’Eternit.

Solo un popolo ignorante può avere paura!


giovedì 13 febbraio 2020

Il regno delle Due Sicilie finisce13 febbraio 1861. Inizia il declino del sud


Il regno delle Due Sicilie finisce13 febbraio 1861. Inizia il declino del sud


Il regno delle due Sicilie cade il 13 febbraio 1861. Finisce il regno borbonico del Sud e comincia l’Italia unita e la colonizzazione del Sud.

Il 13 Febbraio 1861 la storia del regno delle Due Sicilie finisce: inizia la storia dell’Italia unita.
Francesco II accetta di firmare la capitolazione e di abbandonare il regno. Il 14 il re e la regina salgono sul piroscafo francese Mouette e lasciano Gaeta diretti a Terracina, nello Stato Pontificio.
Il 15 la brigata «Bergamo» prende in consegna la fortezza di Gaeta e la bandiera tricolore viene issata sulla Torre d’Orlando in sostituzione dello stemma borbonico.

Popoli delle Due Sicilie

Si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie. Quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore Napoletano batte indignato nel mio petto contro il trionfo della violenza e dell’astuzia. Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni le mie ambizioni. Ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento.
Ho creduto di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra. Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l’Amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti, in vece di libertà lo stato di assedio regna nelle province, la legge marziale, la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi che non s’inchinino alla bandiera di Sardegna.
E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permetta che cada sotto i colpi del nemico straniero, mi ritirerò con la coscienza sana, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per le felicità di questi Popoli che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia.

CHI SONO STATI DAVVERO I BORBONE, PER CINQUE GENERAZIONI RE DI NAPOLI E DI SICILIA?

Per centocinquant’anni, le vicende del Mezzogiorno borbonico sono state una «storia negata»: da quando Vittorio Emanuele II è stato proclamato primo re d’Italia, l’immagine ufficiale del Sud è stata quella di un territorio sino ad allora mal governato, con re inetti e reazionari, un’economia arretrata e asfittica, una società ignorante e semifeudale.
Le ragioni di questa impostazione sono evidenti: per rappresentare il Risorgimento sabaudo come unica via al progresso e alla libertà, occorreva demonizzarne gli avversari e costruire una memoria strumentale del passato, che condannasse i Borbone come figure antistoriche ed esaltasse i Savoia come i principi della patria liberale.
Il regno delle Due Sicilie finisce13 febbraio 1861. Inizia il declino del sud

REGNO DELLE DUE SICILE

Una rielaborazione mistificata si è sedimentata nella coscienza collettiva: secondo la «vulgata nazionale», in un regno delle Due Sicilie collassato, dove è stato sparso il sangue generoso delle camicie rosse di Garibaldi, e dei reggimenti di Vittorio Emanuele II, e insieme portano le libertà dello statuto albertino, aprono la strada dello sviluppo, eliminano oscurantismo e repressione.
Il «prima» viene azzerato e nessuno ricorda che ancora fra il 1830 e il 1840 una parte significativa del movimento liberale immaginava che alla guida del riscatto nazionale potesse esserci la Napoli di Ferdinando II assai più che la Torino di Carlo Alberto. Il «dopo» (la drammatica guerra civile che ha insanguinato le regioni del Sud sino al 1865) viene liquidato affrettatamente e con sprezzo come «lotta al brigantaggio meridionale».

SCOMPAIONO I BORBONE

I Borbone e il loro regno scompaiono dalla storia, vittime predestinate della damnatio memoriae imposta dai vincitori ai vinti.
Tuttavia, come ha scritto l’intellettuale inglese Aldous Huxley, «i fatti non cessano di esistere solo perché vengono ignorati».

FINISCE LA STORIA DEL SUD

 La storia del regno borbonico del Sud è stata colpevolmente e volutamente ignorata. I Borbone di Napoli e di Sicilia possono essere demonizzati o celebrati, ma non possono essere dimenticati. Essi sono stati parte significativa della storia d’Europa e parte importante della storia d’Italia.
Quale sarebbe potuta essere la storia del Sud senza l’unificazione nazionale? Ai Borbone all’onore della storia.
Hanno governato per cinque generazioni un regno che è stato grande e che ha dato all’Italia e all’Europa ingegni di assoluto valore.
Fonte: Napolipiu.com