martedì 3 dicembre 2019

Derku- L'uccisione del maiale

 ( di Pietro Napoletano Arberesh di Firmo)


L’uccisione del maiale era un avvenimento che si svolgeva con un rituale sempre identico, perpetuatosi nei secoli, e che aveva assunto un aspetto quasi liturgico.
Il motivo è da ricercarsi nel ruolo che la carne di maiale assumeva nell’alimentazione familiare del passato. “ Paç sapur si ka kripa e m’e dhenshe nje tel nga dita”, diceva la padrona di casa, buttando un pizzico di sale sul maiale ucciso e spaccato,ma prima che venisse sfasciato. Era una espressione augurale: “ che tu possa avere il sapore del sale e mi possa assicurare un tocco al giorno”.
Perché il maiale riempiva la tavola per quasi tutto l’anno: carne fresca, salsiccia, soppressata, capicollo, prosciutto, guanciale, lardo, ciccioli, cotiche, gelatina, animelle ,strutto, braciole conservate nella sugna.La fase preparatoria aveva inizio i primi di novembre, allorchè si procedeva all’ingrasso dei maiali, con una super alimentazione a base di ghiande, castagne, sfarinati di granturco e orzo. Allora non si conoscevano mangimi, né i trigliceridi! E ognuno sperava in cuor suo di possedere la bestia più grossa e grassa, tanto da costituire motivo di invidia da parte dei vicini.
La macellazione aveva inizio generalmente verso il 13 dicembre, a Santa Lucia, e proseguiva fin dopo l’Epifania. I più abbienti ne macellavano uno all’inizio della campagna ed uno a fine gennaio. Il rituale, però, incominciava fin dai primi di dicembre. Le donne facevano il bucato, pestavano il sale e il pepe, procuravano lo spago e, qualche giorno prima, facevano il pane, mentre gli uomini procuravano la legna secca ed affilavano i coltelli.
Stabilito il giorno, si prendevano accordi con il macellaio che, per lo più, non era macellaio di professione, ma uno che si improvvisava tale per l’occasione e che, nella maggioranza dei casi, apparteneva alla famiglia. Si invitava anche qualche amico perché aiutasse.
Dallo scrigno dei miei ricordi, emerge la figura del prozio Raffaele che arrivava puntualmente alle prime luci dell’alba, allorchè nella grossa caldaia di rame l’acqua stava già per arrivare all’ebollizione.
Entrando in cucina, egli tossiva rumorosamente, sputava con destrezza sulla brace, si sedeva quasi per compiacenza, sorbiva con sveltezza la tazza di caffè che gli veniva offerta, si arricciava con gesto meccanico i grigi mustacchi, ed invitava energicamente a mettersi al lavoro.
Gli uomini entravano nel porcile; qualcuno buttava per terra un pugno di fave e di granturco e, mentre il maiale, digiuno dal giorno avanti, incominciava a mangiare, lo legavano con un nodo scorsoio ad una gamba. Poi lo facevano uscire e, mentre una persona, facendo tintinnare un secchio, lo invitava a seguirla, le altre lo aizzavano e, occorrendo, lo spingevano. La bestia, impaurita, spesso si fermava o tentava la fuga per una via traversa, e allora due uomini lo afferravano per le orecchie e lo tiravano, mentre gli altri lo spingevano. Strilli acutissimi laceravano la quiete mattutina, poi la bestia si calmava e riprendeva il cammino, ansimando faticosamente per l’eccesso di adipe. Raggiunto il cortile, veniva afferrato, legato, sdraiato su un robusto e basso scanno, e immobilizzato dagli aiutanti.
Intanto, il prozio Raffaele completava il rituale lasciandosi allacciare il grembiule e sflilando delicatamente dal fodero bisunto il lungo ed affilatissimo coltello, poi si faceva buttare dell’acqua per bagnare la gola della bestia, quindi, con mossa fulminea,immergeva la lama, facendo sì che il fiotto gorgogliante di sangue vermiglio cadesse esclusivamente dentro il paiolo. Era quello il momento culminante e più emozionante.
Il suino, sgambettando disperatamente, lanciava il suo acuto grido di morte e lo scannatore, dopo un auto elogio alla raffinata tecnica che aveva consentito la fuoriuscita di tutto il sangue, vibrava finalmente il colpo mortale. Un sordo grugnito, poi un rantolo sempre più fioco, e la bestia rimaneva immobile.
Mentre la donna continuava a rimescolare il sangue affinchè non si raggrumasse, il corpo inerte del maiale veniva rovesciato in una grossa madia di legno. Iniziava quindi la fase della pelatura. Un degli uomini portava un pentolino d’acqua bollente e lo versava per prima nelle orecchie, ne versava poi un’altra sul dorso, mentre tutti gli aiutanti, alla svelta, ponevano mano agli affilatissimi coltelli, avendo cura di non far raffreddare la cotenna. Ai piedi veniva riservato un trattamento particolare: venivano immersi nel pentolino affinchè il pelo si ammorbidisse meglio.
Finita la pelatura, il roseo porco veniva appeso ad una trave per le zampe posteriori e lo scannatre procedeva alla sua spaccatura ed all’estrazione del fegato, dei polmoni, e delle interiora contenute nella cavità toracica e addominale.
Cure particolari erano riservate al lavaggio dell’intestino che doveva essere sfilato quando era ancora caldo. Finalmente, troncata la testa, che veniva esposta trionfalmente sul davanzale di una finestra con un’arancia in bocca, il corpo spaccato in due veniva lasciato a colare e a rassodarsi.
A mezzogiorno si riunivano tutti nell’ampia cucina per onorare il copioso banchetto a base di maccheroni, soffritto e fegato arrosto, il tutto abbondantemente innaffiato da ottimo vino,mentre l’aria era satura di un’acuta fragranza di vivande che stuzzicava l’appetito, se ce ne fosse stato bisogno.
Erano altri tempi, allora. La gente aveva altri problemi, ma sapeva trovare momenti di intima e sincera giovialità. La tavola metteva allegria. Non si aveva paura del cibo. Non sapeva cosa fosse il mal di fegato e nessuno mai parlava di pressione sanguigna, di colesterolo o di triglicerdi. La convulsione che attanaglia la nostra esistenza e la frenesia del nostro tempo erano sconosciute ai nostri padri. E un lauto pranzo costituiva un momento di esaltazione e di godimento quasi spirituale.
Nei giorni che seguivano, continuava il lavoro per la preparazione degli insaccati, della gelatina, del sanguinaccio, dei ciccioli, dello strutto e per la salatura di lardo, guanciale, prosciutto, capicolli e cotiche che costituivano il companatico più sano e genuino per tutto l’anno. E le lunghe pertiche da cui pendeva festosamente l’appetitoso salume, erano l’orgoglio della famiglia e, insieme con il pane, la soluzione del suo problema alimentare.

( di Pietro Napoletano, arberesh di Firmo)

Foto di: francavillainforma.it

giovedì 7 novembre 2019

Farneta, paese Arbëresh in via di estinzione




Di Papas Antonio Trupo





Intra colline e piani
Ai piè del monte, cheta,
e dal frastuon lontana
    s’erge FARNETA.
Allietan le sue ore
Il canto degli uccelli,
le danno il bell’umore
    le bimbe belle
che nei dì di festa
danzan con frenesia
e con la banda in testa,
Con canti in albanese.
Ed ecco perch’è bello
    Il mio paese.
    (Domenico Licursi)

    dolce armonia.
Prima della attuale collocazione le prime famiglie farnetane, Licursi, Camodeca, Trupo, Petta e i Pappadà, hanno girovagato in diverse parti; infine si sono fermati nel marchesato di Oriolo. Non abbiamo dati sicuri della loro venuta e della  fondazione di Farneta e delle sue contrade. La prima volta si stabilizzarono a fondo valle, “Katundisht” (era il paese), abbandonato per la quantità di serpenti, poi verso l’attuale bivio di Oriolo, “Katund i vjeter”, così ancora denominata la località. Anche questo abbandonato verso il 1560 per la peste, portata da un certo Licursi Costantino da Caserta, uomo di fiducia del marchese, vicino vi era una chiesetta dedicata a San Giorgio Martire, la cui statua si trova nella chiesa di Oriolo, come raccontano gli anziani. Il paese, nel suo sito odierno, è posto ai piedi della montagna Rotondella (1016 m.) con attorno quattro piccole sorgenti, Kroj Marsit, Kroj Priftit, Kroj Tufit e Kroj Posht. E’ diviso in due rioni, chiamati entrambi “Ka Mbatana”, collegati con una strada “Nzillikata”. A metà strada della parte alta si ergeva un gigantesco e maestoso OLMO, orgoglio del paese, con una circonferenza di circa quattro metri ed alto circa trenta, piantato nel 1799, in occasione della Repubblica Partenopea, come albero della LIBERTA’, simbolo e manifestazione dell’esultanza e caduta dei regimi assolutistici. Il paese sperduto e povero, eppure l’idea di cambiamento è arrivata fino a Farneta. Certamente la classe intellettuale di Oriolo ha influito, ma gli alunni del Collegio Corsini e di Sant’Adriano hanno fatto anche essi la loro parte.
    Si continuò a rivivere, incoscientemente, il mito dell’olmo. Sotto le sue ampie e possenti fronde, gli anziani del popolo si riunivano per discutere e dirimere le questioni della comunità ed amministrare la giustizia. Quest’olmo, in due secoli ha racchiuso la storia dei farnetani e diverse vicissitudini, gioie, sofferente, sogni e speranze. Nella mitologia greca e latina lo ascoltavano come oracolo degli dèì. La gente, vedendo i suoi rami un po’ alla volta seccarsi, colpito da un virus letale, lo compiangevano, “MURGU”, sventurato, come era bello e comodo. Di giorno era luogo di incontro e pettegolezzi delle donne, di sera specie d’estate degli uomini, accalorati, che pensavano di risolvere i problemi locali, nazionali e mondiali. Ancora oggi dicono “MURGU”, i sogni svaniti e fallaci. Sembrava eterno, ma è morto, con nostro grande rimpianto.
    Da Farneta si gode un incantevole e stupendo panorama: si ammirano le ampie vallate del fiume Ferro, il Mar Ionio fino a Taranto, le montagne della Basilicata, il Monte Sparviere. Nelle passeggiate estive, spaziando lo sguardo verso un infinito idilliaco, con il cielo azzurro, in mezzo alla fitta vegetazione delle farnie, provi un riposo rilassante e una pace interiore.
    In un manoscritto di Giorgio Toscano di Oriolo del 1600, pubblicato nel 1978, è scritto: “…il casale di Farneta riuscì ben popolato, con persone comode e facoltose di possessione, bestiami e industrie”, ma la fortuna delle volte cambia strada. Anche perché il paese è posto in una zona franosa e con scarse sorgenti.
    Nel primo censimento del 1542 non risulta né Farneta né Castroregio ma un paese scomparso, San Procopio. Nel 1551 vi erano circa 400 persone; nel 1669, 250 persone; nel 1750, 100 persone; nel 1841, 100 persone; nel 1806, 250 persone; nel 1816, 484 persone; nel 1857, circa 450; nel 1901, 489; nel 1921, circa 500; nel 1950, 508; nel 1985, 250; oggi, 65. Quale sarà il suo futuro?
La maggior parte delle notizie sono ricavate da visite apostoliche, da Antonio Scura, da Domenico Zangari, da Patrizia Resta, dal Rodotà, dal Mussabini e dal Korolevski, da Padre Moratti e dai dati Istat, e dagli scritti di Domenico Licursi, poeta, giornalista, fondatore di “Rinascita Sud”, collaboratore di diversi quotidiani locali, appassionato alle problematiche politiche e sociali e del mondo arbereshe e storico.
MatrimonioFarnetaCaduto il feudalesimo ai tempi di Gioacchino Murat, 1806, Farneta rimane con Oriolo, distante circa 8 km, per passare nel 1819 con Castroregio, da cui dista 32 km e tre ore a piedi.  Il passaggio è avvenuto per motivi etnici e religiosi. Apparteneva, insieme a San Costantino Albanese, San Paolo Albanese e Castroregio, alla diocesi di Anglona-Tursi: nel 1919, con la erezione dell’Eparchia di Lungro, entra a far parte con gli altri paesi citati della nuova diocesi. Queste quattro comunità hanno mantenuto nel corso dei secoli la tradizione bizantina, guidati dai loro papàs, in modo particolare dall’Archimandrita Pietro Camodeca dei Coronei, Arciprete di Castroregio, propugnatore della nuova diocesi italo-albanese.
    A Farneta vi erano tre chiese: la parrocchiale dedicata a San Nicola di Mira, prospiciente l’olmo e la piazzetta, chiesa che fu demolita negli anni ’50; San Rocco, ingrandita nel 1900 e rifatta nel 1968, oggi sede parrocchiale con una comoda casa canonica; S. Antonio di Padova, con una piazzetta, che viene festeggiato il 13 maggio ed il 13 giugno: in questa chiesetta vi è una statua del 1708 raffigurante la Madonna della Catena, festeggiata il 10 maggio dalla famiglia Trupo. In campagna vi è una cappella dedicata alla Madonna del Ceraso, così denominata dalla contrada in cui sorge, con una statua ricavata da un unico pezzo di pietra, che per il peso non si portava in processione, festeggiata il martedì dopo Pentecoste, secondo l’usanza italo-greca. Questa cappella possedeva un vasto podere, e espropriato dallo Stato Italiano nel 1860. Sotto l’ombra dell’olmo nelle due piazzette si svolgeva la vita sociale e comunitaria di Farneta, al suono delle zampogne e di altri strumenti si ballava e si cantava, momenti sempre vivi e presenti. Catturavano tempo e spazio per manifestare i sentimenti della propria vita: ecco la gjithonia (vicinato), locus della cultura tradizionale e della crescita umana e sociale.
Farneta2    Tutti possono contribuire a fare la storia del proprio paese, ma alcuni danno una mossa forte e incisiva. Il 7 marzo 1945 è stata una giornata eccezionale. Due sacerdoti, con un tubo in testa ed ampie vesti nere, al suon delle campane a festa entrano a Farneta, accolti dal Papàs Giovanni Battista Mollo. Era una giornata fredda. Uno dei due era il nuovo parroco, giovane, capelli lunghi, barba folta. Si è presentato: io sono Padre Alfredo, il nuovo parroco, vengo dalle Alpi del Trentino, non sono albanese però lo imparerò. L’altro era Zoti Vincenzo Matrangolo di Acquaformosa, che il giorno dopo per paura di essere bloccato dalla neve parte di buon ora, lasciando solo il giovane prete in un paese senza nessun servizio, con un idioma per lui “straniero”. Sembrava abbandonato. Però vista l’accoglienza festosa e la grande gioia dei farnetani, si fermò. La gente tra sé pensava: rimane, e per quanto tempo? Farà come gli altri? Rimase invece per trent’anni! Si era in tempo di guerra.” La povertà
galleggiava e ci si adattava con quanto si poteva trovare.
Molte cose mi mancavano ma un pezzo di pane no, mai visto tanta generosità.”
    Nel suo libretto “Ricordi di Farneta” scriveva: “Per Pasqua e nelle altre feste, San Donato, San Rocco, Madonna del Ceraso ed in altre circostanze, i giovani e le ragazze si organizzavano le per suggestive Vallje in cui si prendevano per mano alternati danzando e cantando secondo l’uso degli antichi Albanesi. Il primo e l’ultimo della catena sbandieravano un bel foulard a colori (Flamuri, bandiera). Si spostavano da una parte all’altra, per poter accerchiare qualcuno per farsi offrire da bere. La vittima più cercata ed adocchiata è il parroco. Era per me un piacere”.
    Ebbe quattro visite pastorali da parte di Mons. Giovanni Mele, che proveniva da Castroregio, tre ore a dorso di un mulo sellato, col suo segretario Padre Giovanni Caon, su di un asinello col basto. Si fermavano almeno due notti: era un problema serio ospitarli in quanto mancava tutto.  Solo nei primi anni del ’60 vennero i servizi primari, luce, strada, acquedotto, fognatura, telefono pubblico, dietro interessamento vivo e continuo del parroco e di Rago Giuseppe, delegato comunale a Farneta. Mons. Mele sorrideva benedicendo con tanta filosofia. Tanti altri episodi si raccontano in paese circa la permanenza del Vescovo.
pag alfredoMorattiPadre Alfredo era nato a Tuenno in Val di Non, il 4 gennaio 1920. A sedici anni entrò nel noviziato dei Conventuali a Padova. Compì gli studi filosofici e teologici a Padova e a Roma, in Collegio Greco. Ordinato sacerdote in rito bizantino con destinazione Albania  il 6 gennaio 1943. Ma chiusa l’Albania per eventi bellici, la Provvidenza lo porta in Calabria, a Farneta.
Nel suo 65° anniversario di sacerdozio a Rovereto, dove si era ritirato, così ricordava la permanenza a Farneta: “Nel marzo 1945 fui inviato a Farneta, piccolo villaggio di origine albanese con rito bizantino, sperduto sulle montagne della Calabria, località mai sognata nel corso della mia vita eppure rimasi per trent’anni, conformandomi interamente e di buon grado agli usi e costumi con quella gente, permeata di fede, condividendo gioie ed ansie, allegrie e tristezze, facendo per quanto possibile il medico delle anime e dei corpi”. E’ diventato fratello in mezzo ai fratelli, consigliere, maestro, sacerdote, integrando la vita pastorale con quella manuale. Aprì subito l’oratorio in una stanza dove cucinava e dormiva, l’ambulatorio, lo studio fotografico e il pronto soccorso. Mi ricordo ancora la lunga fila, di buon mattino, per le punture davanti alla sua casetta. Termina la sua vita terrena il 13 febbraio 2013 a San Pietro di Barbozza (Treviso). Nelle mie doverose visite, che aspettava con ansia e gioia, apriva i suoi album con le foto di Farneta, che indicava con emozione e grande gioia. Non aveva perso il contatto con i suoi vecchi parrocchiani. Cresciuto ed educato in un ambiente diverso, sposò la tradizione e la spiritualità della nuova comunità, imparò a parlare la lingua “straniera”, si immedesimò nel vivere e nel pensare con il popolo, chiesa vera e concreta. Sobrio ed essenziale nel suo agire, uomo di grande fede: tutti ancora lo ricordano con affetto a Farneta.
    Un altro personaggio da ricordare è senz’altro l’Archimandrita Pietro Scarpelli. A pochi giorni dal trapasso era ricoverato presso l’ospedale di Policoro. Il personale ospedaliere mi diceva: “Muore un patriarca, orante e benedicente, come se si preparasse per andare a nozze”. Figura ieratica, Era nato a Farneta il 15 agosto 1887: il padre Giuseppe era insegnante di scuole elementari, proveniente dai casali della Presila, che aprì per la prima volta le scuole elementari a Farneta e sposò Troiano Margherita. Il giovane Pietro frequentò il liceo a Cosenza e a Tursi, sua diocesi, studiò filosofia e teologia al Collegio Greco, presso la Propaganda Fide, dove prese la licenza in entrambe le materie, ordinato sacerdote il 29 giugno 1912 a S. Atanasio (Roma). Venendo in Calabria, fu nominato parroco nel suo paese natìo (1914-1923) per poi passare a San Paolo Albanese, dove si era trasferita la sua famiglia. Dal 1922 al 1928 divenne Vicario generale di Mons. Mele, dal 1928 al 1946 si trasferì in Albania nella Missione cattolica di rito bizantino (Elbasan, Fieri ed altri luoghi). Con l’avvento del comunismo fu costretto forzatamente a tornare in Italia. Visse il resto della vita presso i suoi familiari a San Paolo Albanese e morì il 24 agosto 1973. Il Korolovski nella sua visita del 1921fu ospite a casa sua e così lo descrive: “Ottimo sacerdote, intelligente, istruito, zelante, gode di grande stima”. Mons. Stamati, nella sua omelia in occasione dell’Ufficio funebre disse: “Fu aperto ai fratelli ortodossi, rispettoso verso i musulmani, anticipatore dell’ecumenismo, amò la verità senza ostentazione”.
    La parrocchia di Farneta, povera ed isolata, non era per nulla ambita dal clero,, anzi il contrario, vista come luogo di punizione ed esilio, dove i sacerdoti dopo pochi anni se ne andavano via. I registri parrocchiali sono andati smarriti o consumati dai topi. Il primo risale al 1826. Però l’Archimandrita Pietro Camodeca nella sua monografia su Castroregio, manoscritto in possesso della sua famiglia, mai pubblicato, riporta: “Nel 1590 vi era il registro dei battesimi”. Nel 1841 si svolge la visita di Mons. Mussabini. Vi erano tre sacerdoti, tutti di Farneta, don Martino Camodeca, parroco, don Pietro Camodeca, professore, don Nicola Petta, professore. I sacerdoti Camodeca possedevano una ricca biblioteca, andata perduta. Il secondo registro risale 1908 con la firma di Oreste Polilas, di don Antonio Lavitola, don Brescia da San Costantino Albanese, don Pietro Scarpelli, don Antonio Gulemì da San Costantino Alb., don Girolamo De Nicco da Castroregio, don Costantino Tallarico da S. Demetrio Corone, don Giovanni Battista Mollo, infine dal 1945 Padre Alfredo Moratti. Si sono succeduti a padre Alfredo i sacerdoti Gennarino Ferrari da Vaccarizzo Alb., Nicola Vilotta da S. Benedetto Ullano, Saverio Pugliese da Lungro, Giovanni Tamburi ieromonaco basiliano da San Basile, Donato Giannotti da Lecce, Francesco Mele da Acquaformosa, Alduino Marcacci da Firmo ed oggi Zoti Vasil dall’Ukraina. Un vero via vai.
    Venendo in Italia gli albanesi alla fine del 1400 per motivi politici e religiosi, hanno continuato a fare i pastori e gli agricoltori sotto i feudatari, dissodando terreni con intelligenza, operosità, e si son fatti valere in diverse attività, tutti cercavano di avere un pezzo di terra, che garantisse di dare un minimo di sopravvivenza, hanno fatto enormi progressi in paese e fuori. Le varie contrade, Llazët, Fikarroni, Grizat, Cirazi, Llumbardi, Lugadhi, Pëtroza, Kroj Posht, Llazi Minkut, Katundisht, Pishkunjeti, Rrupaqjea, Kalbazaqi, Dhjeci, Krojzërvet, Rrutunda, Udha e Horës. Per cinque secoli duramente lavorate hanno nutrito intere generazioni.
    I tempi sono cambiati, Farneta si è fermata, la povertà ha avuto il sopravvento, la terra è diventata più avara e amara.  Conviene restare a Farneta o partire? Molti sono partiti per Roma, Milano, Torino, oppure oltre oceano.  La scuola è chiusa come anche l’ufficio postale. I farnetani sono costretti a partire senza far ritorno. Eppure chi ha avuto l’opportunità di salire “Ka Bregu Rutundës” o “Ka Bregu Llumbardhit” o passeggiare “Ka Rrahi Travet” in mezzo alla folta vegetazione ha ammirato i tramonti suggestivi. Il suo spirito si è riposato, contemplando il sacro silenzio, le meraviglie della natura. Ha trovato la pace interiore, la serenità, il sorriso, l’osmosi tra sé, natura e il Signore, ha vissuto momenti di felicità. Buone e utili anche oggi nel tran tran della vita quotidiana.   
La scrittrice ebrea Simone Veil diceva che l’uomo può raggiungere il cielo solo contemplandolo: il cielo scenderà, ci avvolgerà e ci abbraccerà. Eschilo, il grande autore di tragedie greche, scriveva: “Il Divino è senza sforzo, guardando gli spazi infiniti non è perdita di tempo, ma pienezza nello spirito”. Dice Gesù nel Vangelo: “Osservate come crescono i gigli del campo, non lavorano, non filano eppure vi dico che neanche Salomone con tutta la sua ricchezza vestiva come loro”. La storia della chiesa, ad opera dello Spirito santo vivificante, è piena di testimonianze di persone estatiche, uomini e donne, che hanno contemplato le meraviglie di Dio, suggellando la propria adesione con una crescente e attiva risposta:   AMIN, ASHTU KLOFT, COSI SIA”.Poi formano le “vallje”
Con canti in albanese.
Ed ecco perch’è bello
    Il mio paese.
    (Domenico Licursi)
Fonte www.jemi.it

domenica 3 novembre 2019

Idee e valori di Camillo Vaccaro, un Maestro lungrese vissuto ta Ottocento e Novecento

(di Antonio Sassone)

Questa raccolta di scritti di Camillo Vaccaro (1864-1955) curata da Silvio Martino e sollecitata da alcuni ex alunni, esponenti di quelle numerose generazioni che lo ebbero Maestro, vuole essere una testimonianza di affetto e di gratitudine verso l’educatore, ma è anche un documento storicamente interessante delle insospettabili diramazioni di una cultura positivista, presente, in tono minore, nella Calabria degli inizi del Novecento.
L’autore, nato e vissuto prevalentemente nella comunità etnica albanese di Lungro, in una regione, la Calabria, che alla fine del secolo XIX contava oltre il 90 per cento di analfabeti, ebbe il privilegio di essere avviato e assistito negli studi da uno zio prete. Ma, ben presto, resosi intellettualmente autonomo, abbracciò il positivismo e, immemore ( o forse proprio perché memore) dell’impronta religiosa data alla sua educazione, finì con il convincersi con Haeckel che Dio è un ” vertebrato allo stato gassoso ” (p. 36). La demolizione critica delle basi reazionarie della sua cultura ricevette impulso dalla scoperta dell’opera di A. Ardigò, il positivista italiano che aveva sconvolto le acque stagnanti della speculazione idealistica, mediando culturalmente la radicalizzazione laicistica avviata dall’avvento al potere della Sinistra storica di Agostino Depretis.
Vaccaro si attestava sulle posizioni di quegli intellettuali laici meridionali che s’inserivano nelle istituzioni culturali del Paese, integrandosi socialmente sotto la comune fede positivistica, dopo aver subito l’egemonia ideologico-politica dei ceti dominanti incontratisi nello spiritualismo e nell’idealismo della Destra storica, moderata o conservatrice. Tanto maggiore fu l’entusiasmo con cui Vaccaro si appropriò dei risultati del pensiero di Ardigò, tanto più esso gli apparve congeniale, quanto più estese erano le affinità tra la sua storia personale e quella del filosofo positivista. Ambedue avevano, infatti, coraggiosamente sfidato l ‘autorità e attirato su di sè l’ira e l’ostilità dell’ambiente confessionale d’origine, respingendo il proprio passato culturale teologico, per abbracciare una visione del mondo qualitativamente nuova, per il posto che in essa occupava l‘atteggiamento sperimentale. In ambedue, la divinizzazione della.scienza e del “fatto” positivo determina una trasposizione delle conclusioni assolutistiche del pensiero dalla sfera religiosa alla sfera scientifica. In tal modo i presupposti dogmatici, pur secolarizzandosi e laicizzandosi, continuano a sussistere nella nuova visione scientifica del mondo. Pertanto, la guarigione dal. “morbo sacro” della religione (p. 64) che Vaccaro, citando Eraclito, riteneva di aver raggiunto, convertendosi al positivismo, non risultava totale. Ciò nonostante, la conversione, pur con i suoi limiti, può essere considerata un’eccezionale salto qualitativo, soprattutto se la si colloca nella situazione di isolamento in cui essa veniva effettuata.
Nella Calabria della fine del secolo XIX, a condizioni socio-economiche pre-capitalistiche corrispondevano forme ideologiche
quasi esclusivamente orali. La cultura scritta, a sua volta, limitata a meno del 10 per cento della popolazione, raramente superava i confini della tradizione in cui la funzione pre-ponderante delle istituzioni ecclesiastiche imponeva i suoi modelli di comportamento e di pensiero. Quando la cultura scritta riusciva a sfuggire alla tutela oppressiva delle istituzioni tradizionali, si apriva, al massimo, agli influssi dell’idealismo che per la sua complicità sostanziale con le filosofie delle classi dominanti, non divergeva funzionalmente dalla cultura gestita dalle istituzioni ecclesiastiche.
Nel nord che, alla fine dell’Ottocento, avviava il suo processo di industrializzazione, con uno sfasamento storico di oltre cinquanta anni rispetto al resto dell’Europa già imperialistica, la stessa voce di Ardigò che pur cercava di intonare la nuova visione borghese del mondo, risuonava pressochè isolata, in mezzo all’ostilità generale.
Collocata in tale contesto, la conversione di Vaccaro alla filosofia della borghesia industriale d’Oltralpe appare un fatto tanto più eccentrico, quanto più essa era estranea alle esigenze socialmente diffuse di una Calabria semifeudale, in un sud pre-capitalistico.
Nel 1908, quando gli echi della polemica scatenata dalla pubblicazione delle opere di Ardigò si erano ormai spenti, Vaccaro, in una conferenza tenuta a Cassano allo Jonio, esaltava appassionatamente la figura del filosofo positivista, rivelando all’uditorio il “sacro tumulto di pensieri e di affetti vibranti ” (p. 78) che il nome di Ardigò suscitava in lui. L’oratore manifestava la sua gratitudine al pubblico per avergli offerto l’occasione di appagare il” desiderio potente di trasfondere nell’animo altrui il sentimento di stima e di venerazione grande che gli vibrava nel cervello e nel cuore per questo pensatore sovrano, per questa mirabile tempra di scienziato magnifico ” (p. 79).
Il colore marcatamente politico dato all’ingresso del positivismo nella cultura ufficiale, subito dopo l’ascesa al potere della Sinistra storica, si riverbera nel pensiero di Vaccaro con tonalità ancora più infuocate di quelle originarie e in un momento storico caratterizzato dal sopravvento del neo-egelismo e dello storicismo gentiliano e crociano. Pertanto, l ‘adesione appassionata di Vaccaro al positivismo, anche se storicamente e culturalmente in ritardo, proprio perché politicamente orientata, rappresentò un valido stimolo di ricerca sociologica nutrita di dati empirici e pervase la sua pratica educativa di finalità democratiche pressoché sconosciute ai maestri elementari della Calabria di quel tempo .
In questa prospettiva, egli, guardando con sospetto gli “onorevoli ben pasciuti che dopo aver osservato igienicamente da lontano ” (p. 138) le condizioni di miseria del Mezzogiorno, si ritennero in grado di trarre delle conclusioni che pretendevano di imporre come oggettive, esercitò il diritto di controllarle e criticarle, facendosi forte di una competenza scientifica che gli derivava dall’aver assimilato il metodo positivistico e dall’aver insegnato un quarto di secolo nel regno della miseria.
In una relazione svolta al secondo Congresso scolastico calabrese tenutosi a Cosenza nel novembre del 1908 criticò, in particolare, i provvedimenti legislativi scaturiti dai risultati delle indagini svolte dagli “onorevoli ben pasciuti”, rilevando che era sommamente ingiusto ” trattare in modo uguale rapporti e condizioni di cose tra loro disuguali “. Per il Maestro lungrese era ingiusto applicare indiscriminatamente le stesse leggi sull’istruzione al Nord sviluppato e al Sud “depresso e diminuito da sciagurate vicende storiche, rovinato nell’agricoltura dalla corrente migratoria che ingrossa sempre più e privo di risorse industriali” (p. 141). La legge sull’istruzione obbligatoria si rivelava per Vaccaro un ‘”atroce burletta ” di conferenzieri settentrionali mandati nel Sud a recitare “forbite dissertazioni “, mentre le “catapecchie rimanevano più che mai catapecchie ” e l’analfabetismo vi trovava il terreno ideale per prosperare. La mozione finale del Congresso di Cosenza redatta da Vaccaro e approvata dagli altri congressisti individuava le cause dell’analfabetismo nell’ ‘”ingiuria di eventi tellurici e storici, nel sottosviluppo, nella miseria, nel malgoverno delle clientele amministrative, nell’assenza di ogni controllo da parte delle masse inconsapevoli e rassegnate ” (p. 152); scartando velleitarie proposte di rimedi radicali, chiedeva l’intervento dello Stato per l’istituzione di asili d’infanzia, per l’incremento dell’edilizia scolastica, per la concessione di sussidi in denaro ai genitori costretti dalla miseria a far lavorare i figli in età scolare, per l’attuazione di misure, come l’unificazione dei ruoli degli insegnanti elementari, che, offrendo prospettive di carriera “aperta e decorosa ..agli insegnanti stessi, bloccassero il loro esodo dalle scuole rurali.
La sensibilità politica democratica unita agli orientamenti scientifici ispirati al Positivismo, lo indusse a precorrere i tempi in diverse questioni. A questo riguardo, è esemplare la sua posizione sulla funzione delle “lingue morte “. Con argomentazioni di sorprendente modernità, già dal 1890 proponeva l’abolizione dell’insegnamento del latino nelle scuole medie, la sua sostituzione con lingue moderne di utilità pratica e il potenziamento di discipline scientifiche su base sperimentale. Ma, consapevole della scarsa simpatia che una simile proposta avrebbe incontrato tra i contemporanei, mentre non rinunciava a demolire le false argomentazioni adottate dai fautori dell’insegnamento delle “lingue morte” (servono a conoscere meglio l’italiano, sviluppano le capacità logiche, potenziano le capacità espressive ecc.), intitolava significativamente il saggio “Voci nel deserto per lo svecchiamento delle scuole classiche “.
Non meno avanzata era la sua concezione pedagogica. Egli, infatti, respingeva il significato restrittivo dell’educazione intesa come attività rivolta alla formazione della personalità del fanciullo e ne dilatava il raggio d’azione fino a comprendervi gli uomini di tutte le età. Da questi presupposti scaturì l’ideale massimo di tutta la sua vita che era quello. di contribuire a edificare, come egli stesso scrive, “una coscienza nuova nelle masse” fondata su un ” sistema economico egualitario che, soppiantando l’attuale “, avrebbe garantito ad ogni uomo il “diritto di raggiungere, mediante lo studio sperimentale, la conoscenza positiva del proprio essere e delle leggi cosmiche ” (p. 94). Collocato nel clima di eclettismo che caratterizzava gran parte del1a cultura dei positivisti democratici italiani, considerò il materialismo storico una “teoria magnifica che dà allo studioso una seconda vista per valutare i fenomeni sociali ” (p. 128).
La dilatazione della sfera sociale investita dall’attività educativa, la presenza di connotati politici democratici desunti dal marxismo introducono Vaccaro in una concezione, per quei tempi, pionieristica della teoria e pratica pedagogica. ln questa prospettiva, l’educazione acquistava ante litteram il significato attuale di educazione permanente. Anche se di una simile educazione il Lungrese non sviluppò un’ampia ed articolata analisi teorica – nè sarebbe lecito rimproverargli questo limite – ne diede, tuttavia, un esempio di pratica realizzazione, attraverso le esperienze educative svolte a beneficio degli operai della miniera di salgemma di Lungro. Partendo dal principio che è necessario bandire il formalismo ed imprimere all’educazione un indirizzo pratico che tenga conto delle motivazioni dell’educando e che assecondi i suoi bisogni individuali e sociali (cfr. p. 155), Vaccaro, mentre nel 1900 conduceva sul “Corriere di Napoli” un’attiva campagna per dimostrare l’infondatezza delle voci che prospettavano l’esaurimento dei giacimenti minerari della salina di ‘Lungro, nel medesimo tempo coinvolgeva in questa iniziativa scientifica e politica i 300 operai minacciati direttamente da una eventuale chiusura della miniera. Facendo ruotare l’attività didattica intorno all’esperienza produttiva degli operai, già suoi ex alunni, Vaccaro sollecitò il loro interesse scientifico verso i problemi del lavoro e verso le più generali ragioni economiche e politiche che avevano indotto le clientele locali e lo Stato ad agitare lo spauracchio della chiusura della miniera. Che si trattasse di uno spauracchio lo dimostrarono successivamente le polemiche ricorrenti sul medesimo argomento e le promesse alternate alle minacce avanzate regolarmente da tutti i governi dei regimi succedutisi in Italia dal lontano ‘900 ad oggi.
Nei suoi numerosi scritti di storia, filosofia, sociologia e pedagogia fu oggetto di citazioni e di lodi, anche tramite corrispondenze epistolari, da parte di A. Ardigò, F. Turati e C. Lombroso. Respinse ogni settarismo ed ogni autoritarismo, in pedagogia come in politica. Negli scritti e nella vita pratica manifestò un totale disprezzo verso il dirigismo culturale fascista che pretendeva di imporre agli educatori il principio per cui ” dal teorema di Pitagora occorre ricavare il corolla-rio di una ubbidienza cieca al du-ce ” (p. 162).
Quando nell’opinione pubblica italiana anche democratica, erano ampiamente diffusi i pregiudizi sulla razza maledetta cui veniva imputata la causa dell’arretratezza del Mezzogiorno, Vaccaro, in polemica con i Lombroso, i Niceioro, i Ferri, responsabili di aver consacrato con l’autorità della scienza, quei pregiudizi, condannava il ” perfido godimento di alcuni sociologi corrivi a spiegar tutto semplicisticamente col fattore etnico” (p. 123) e individuava, tra le cause dell’arretratezza, la principale nel ” più iniquo degli sfruttamenti” perpetrato ai danni delle masse meridionali ” mediante la complicità dello Stato “.
Quello che per Turati era un debito di civiltà dello Stato verso il Meridione, al positivista Vaccaro appariva, più realisticamente, come un debito vero e proprio contratto attraverso gli agenti delle imposte.
Proteso a combattere, in nome della scienza positiva, i pregiudizi e la retorica, non si faceva eccessive illusioni sulle prospettive di successo e, parafrasando un’espressione di Humboldt riferita alla Germania, manifestava la pessimistica convinzione che ” in Italia occorrono due secoli per distruggere una stupidità: uno, per capirla e uno, per liberarsene” (p. 144). Un simile pessimismo non fu d’ostacolo alla sua opera educativa alla cui efficacia fu dovuta, in gran parte, la diffusione nella sua comunità nativa dei principi democratici che contribuirono a fare di Lungro una roccaforte del Partito socialista, prima dell’avvento del Fascismo, e dei partiti di-Sinistra, nella fase post-bellica, fino ai giorni nostri.

Recensione a Camillo Vaccaro, Scritti.

(a cura di Silvio Martino e del Comitato per le celebrazioni in Lungro) pp. 212, Castrovillari, 1974

(Da “La Parola socialista”, n. 2-3, febbraio-marzo 1975, pp. 69-72).

P. S. Anche Silvio Martino , animatore dell’iniziativa che ha portato alla pubblicazione degli scritti di Camillo Vaccaro. è stato un Maestro lungrese, colto, tollerante e gentile, socialmente impegnato, ricco di sensibilità pedagogica e democratica. Per queste sue virtù, egli avrebbe meritato di prendere in consegna e di tenere a lungo il testimone della grande dignità del docente-educatore lasciato da Camillo Vaccaro. Ma Silvio è stato strappato prematuramente alla vita da quella bagascia intracomunitaria che è la Morte.

Fonte: www.ungra.it

venerdì 1 novembre 2019

Le radici del socialismo anarcoide

( di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)



Il termine “ANARCHIA”, con i suoi derivati, inteso come ipotetica tesi sociale, nasce, sicuramente, con gli scritti del filosofo francese Pierre-Joseph Proudhon nella prima metà del XVIII secolo, penetrando profondamente nei concetti, proprii, dell'”Utopia” e dell’ “Illuminismo” , affluendo , in seguito, nella corrente della filosofia individualistica e nel socialismo rivoluzionario di Mikail Bakunin e dell’arbëresh Attanasio Dramis. Ma, esso trova, inconfutabilmente, le sue radici, nel complesso organismo sociale di alcune tribù montanare della Tessaglia, del basso Epiro, della Prevalitania e della Dardania, nel periodo in cui queste regioni , ormai, vennero costituite come province dell’Impero Bizantino (XI secolo d.C.).
Queste popolazioni, per la natura dei luoghi da loro abitati, si distinsero dalle nuove emergenti societe slave, conservando integra la loro tribale autoctonia. La figlia dell’Imperatore bizantino Alessio I Comneno, la colta e gnostica Anna Comneno (1083-1150), nella sua opera storica “Alessiade”, li denomina “Albanitoi” caratterizzandoli nella loro fiera tribalità ” abasileuti” cioè senza re (dal greco a privativo e basileus = re).
Nonostante la varie invasioni e occupazioni straniere, essi vivevano in gruppi tribali indipendenti, senza riconoscere forme di gerarchia statalizzata. Popolando le impervie regioni montagnose e organizzati in “fis” o tribù, loro proncipale attività di sostentamento era la pastorizia e l’agricoltura.
Coloro che abitavano i villaggi ( katund), difendevano con fiero orgoglio le loro costumanze tradizionali, non riconoscevano vincoli di vassallaggio e non si assoggettavano a pagamenti di imposta e a rendite feudali. Non era raro che le tribù montanare si ribellassero con le armi a qualsiasi costrizione fiscale, come quando, Niceforo, governatore bizantino, con incursioni vessatorie dei suoi agenti fiscali, tentò di assoggettare quelle popolazioni.
Si ebbe che le città di Berat, Kanina e Tomorizza furono interamente saccheggiate; dovette intervenire direttamente l’imperatore bizantino Andronico III per sedare quella incredibile rivolta. (1) Informazioni più dettagliate, riguardo le caratteristiche essenziali di queste popolazioni, le attingo da Giorgio Pachimere, scrittore bizantino vissuto a cavallo del XIII e XIV secolo e dal suo contemporaneo Giovanni Cantacuzeno, anch’egli bizantino, scrittore e cronista del tempo.
Il primo, nella sua opera storica ” Historia gestarum” di Michele Paleologo, fa menzione di alcune popolazioni montanare della Tessaglia che chiama ” Megalo Balchiti” e che Cantacuzeno individua come “Albani o Albanoi” ( da sottolineare che Pachimere, a volte denomina costoro Mega Balchiti e talune altre Illiri e Albanoi).
Historia gestarum di Pachimere Libro V: ” Alcuni Illiri, scossi dal giogo dell’Imperatore, fra i Locri, gli Acarnani e la Tessaglia si governano da sè.” ( Locri e Acarnani o Acrocerauni sono catene montuose che s elevano fra l’Epiro sud orientale e la Tessaglia). Cantacuzeno nel suo Libro 2 capitolo 24 di Cronaca così si esprime: ” Sirgianni nei tempi di Andronico II di Bisanzio, Basileus dei Romei dal 1282 al 1328, traversando i Locri e gli Acarnani, si rifugiò presso gli Albani, i quali abitano circa la Tessaglia, sono uomini agresti ed addetti alla pastorizia e vivono con le proprie leggi.”
Nel capitolo 28 lo stesso autore scrive: “gli Albani che vivono sulle montagne della Tessaglia sono in numero di 12 mila, chiamandosi Malacasi, Massaretti e Bovii (Bua) essi vivono senza Re per loro natura.”
In molti si chiederanno perchè popolazioni albanesi si trovavano ad abitare i territori tessali. I primi insediamenti di Illiri o Albanesi in Grecia avvennero in Tessaglia, tra la fine del 1200 e i primi anni del 1300 e furono, sicuramente, dovuti dalla triste situazione in cui veniva a trovarsi l’Epiro, costituito in gran parte da albanesi, per le continue lotte intestine, cagionate specialmente dall’infelice dominazione italiana degli Orsini, principi di Taranto.
Esplicito riferimento di questa prima migrazione si ritrova in una relazione del veneziano Marino Sanudo il Vecchio datata a Venezia nel 1325 e riportata da Rubio y Lluch nei ” Diplomatari dell’Orient Català a pagina 159.
Con il dominio ottomano, caduta ogni speranza per il riacquisto dell’indipendenza, queste popolazioni non vennero soggiogate del tutto dalla cultura e dalla nuova politica dell’oppressore e su questo di lume ci è Angelo Masci, arbereshe di Santa Sofia d’Epiro nonchè illustre giurista che nel 1806 scriveva:
” Gli Albanesi , che o vivono affatto indipendenti dalla Porta (Istanbul), oppure soggetti a questa di un piccolo tributo son liberi in tutto il dippiù. Non poca estensione di terreno occupano questi albanesi indipendenti; ed o sia che non mai sono stati sottoposti a dominio, o sia ( com’è più probabile ) che anche i Sovrani tra loro non altra autorità han esercitata, che quella di esser considerati come capi della nazione, eglino con i costumi barbarici hanno da tempo antichissimo ritenuta anche la libertà. Ciascuna città, terra, o villaggio – continua il Masci – vive per sè; nè fuori della causa comune è lecito d’impicciarsi negli affari dei convicini. La comune causa non è che la causa della libertà: spesso accade che i Bassà del Turco o per ambizione, o per avarizia cerchino di soggiogarli, ed allora tutti si uniscono per respingere il comune nemico.”
In effetti la dominazione turca sull’Albania e su quelle regioni da loro abitate, ebbe piuttosto caratteristiche di contrattualità, sviluppatesi in taciti consensi, che di reale posizione di supremazia.
Anche il preciso e, per quei tempi, sofisticato sistema fiscale ottomano, con quei montanari, trovò considerevole intralcio: talune tribù stanziali abitanti i ” Katun” pagavano agli esattori del Sultano un censo simbolico (tacito consenso) mentre tribù nomade o più predisposte alla rivolta venivano completamente esonerate ( cancellazione anagrafica; da ricordare che i turchi disponevano anche di un funzionante apparato burocratico).
Gli ottomani intuirono che l’inasprimento verso quelle genti, sulle cui terre, nè gli Imperatori bizantini, nè i normanni avevano potuto fissare le loro signorie ( la dipendenza dell’Albania da Costantinopoli e dalla Puglia era stata più nominale che reale), e che non avevano riconosciuto mai altra autorità, fuor di quella dei liberi capi, avrebbe potuto costituire motivo di serie conseguenze negative per la esistenza stessa del predominio territoriale e quindi strategico-militare.
Scrive Alessandro Cutolo nella biografia di Skanderbeg ( Istituto per gli Studi di Politica Internazionale- Milano 1940): ” Quando i serbi ( XIII secolo) avevano tentato di imporre agli Albanesi il loro pesante giogo, si erano trovati contro l’ostilità, larvata o palese, delle tribù; persino cambiando religione, e da scismatici divenendo cattolici, quei popoli avevano fatto comprendere a tutto l’Oriente come fosse difficile cosa ridurli in servitù.
Tutti gli Albanesi erano concordi a spezzare ed allontanare ogni giogo straniero, tuttavia, non tolleravano l’ingerenza, anche minima, di una tribù o di un principato confinante.
Quelli di Argirocastro lottavano con gli abitanti di Giannina; i Castriota ostentavano nei confronti dei Balcha atteggiamenti di malcelato antagonismo e lo stesso con gli Arianiti, pronti a ricambiare. Continue lotte intestine, queste, che indubbiamente esaurivano le necessarie forze, per una eventuale resistenza atta a fronteggiare attacchi dall’esterno.
Nonostante tutto, queste popolazioni apparentemente prive di una organizzazione sociale, all’interno delle loro tribù e famiglie , in maniera velata, disponevano di un insieme di norme informali accettate quali regole proprie di convivenza, disciplinate , in effetti, dal codice consuetudinario.
Su questa ultimo dato deduco e sviluppo la tesi che il sentimento di anarchia , più che endemico, era fortemente inerente e partecipe all’intima composizione ed organizzazione di quelle società.
Infatti, è importante notare, sfatando tramontate, inconsistenti e propagandate opinioni fondate su convinzioni soggettive e di correnti, che nessuna formulazione e sistemazione dei principi generali dell’anarchia, ha mai trascelto, nella teoria, l’inesistenza di norme e di interazioni sociali, anzi l’anarchismo è antitetico al caos, ossia alla grande confusione e alla mancanza di ordine, in quanto, in linee generali, si rende propositore di un nuovo modo di trasfigurare con il pensiero l’organizzazione sociale , intorno alla quale si sviluppa la cooperazione tra gli individui in maniera egualitaristica e dove le norme e i principi fondamentali, vengano condivisi e non imposti dal vertice dell’organismo statalizzante.
In Italia i primi profughi provenienti dall’Epiro e dalle comunità arvanitiche, condussero vita dura e miseranda. Relegati in territori angusti e selvosi, dovettero sottoporsi ai rigori del potere feudale, laico ed ecclesiastico che tanto gravame apportò alle popolazioni meridionali.
I principi, i baroni, gli abati, dimentichi delle raccomandazioni inoltrate dagli Aragonesi prima e da Carlo V poi, a favore dei sopraggiunti greco albanesi, mostrarono a costoro tutto il loro ineffabile astio, ma non riuscirono ad assoggettarli del tutto e maggiormente non riuscirono a ad imporre loro la cultura religiosa occidentale.
Questo ultimo aspetto io lo allogherei, come fatto storico, a quella corrente di pensiero definita “anarchismo cristiano”; infatti le popolazioni albanofone erano si sottoposte alla giurisdizione ecclesiastica dei vescovi latini, ma, senza il nulla osta di quest’ultimi, professavano il rito atavico dei loro padri: il Rito Greco Bizantino. Solo in alcuni paesi , come Spezzano Albanese, si passò al rito latino, ma per raggiungere tale scopo, gli ordinari latini e i così detti baroni, dovettero esercitare inaudita violenza.
” I Baroni e le Chiese – scrive nel 1807 Angelo Masci nel suo Discorso sugli Albanesi del Regno di Napoli – invece di proteggere gli Albanesi, che formavano la loro ricchezza, li hanno piuttosto gravati di tante soverchierie che fa orrore sentirle. Le angarie e le perangherie, le indebite prestazioni ed altro, non potevano non avvilire il coraggio dei coloni e far languire nella miseria la Nazione” (Gli Arbereshe).
Aggiunge ancora il Masci: “Dove l’intiera giurisdizione è stata de’ Baroni, ivi il dispotismo da una parte e la depressione dall’altra han reso squallido tutto il paese. Dove poi la giurisdizione è stata divisa, cioè la civile della Chiesa, la criminale del Barone secolare, ivi, la scostumatezza degli abitanti, l’impunità dei delitti e l’avidità degli Officiali, han tenuta sempre in disordine la popolazione. I Vescovi Latini, nelle Diocesi de’ quali erano siti gli Albanesi, invece di promuovere in questi gli studj, far crescere i lumi, proteggere le scienze e le arti, per una mal’intesa Religione, non hanno avuto altra cura che di abbattere il Rito Greco da loro adottato.”
Soltanto verso la metà del XVIII secolo, con la fondazione del Collegio Italo Greco, per opera dei Rodotà e di Papa ClementeXII (1732), le popolazioni Italo Albanesi cominciarono ad apprendere, con notevole profitto, i primi elementi di erudizione e quindi a crearsi una coscienza politica tale da inserirli attivamente e a pieno titolo nel complesso delle circostanze sociali del Regno di Napoli e dell’Europa.
Il Collegio Italo Greco Albanese, prima con sede a San Benedetto Ullano e poi a San Demetrio Corone, divenne celebre istituto d’istruzione in tutte le Provincie del Regno di Napoli, lì i giovani albanesi d’Italia espressero il meglio di sè:
Pasquale Baffi, Angelo Masci, Francesco Bugliari, i vari Damis, i Dramis, i De Rada, i Vaccaro, gli Elmo, i Mauro e moltri altri che in prima persona, fervidamente, contribuirono , fortemente pervasi dai concetti di libertà e di egualitarismo, ai moti risorgimentali. Molti furono esponenti dell’Illuminismo Napoletano, come il Bugliari, il Bellusci, entrambi vescovi di Rito Greco;
Pasquale Baffi noto grecista e Ministro della Repubblica Partenopea, Angelo Masci, ripartitore demaniale dopo l’eversione della fedaulità; Pasquale Scura, insigne giurista e Ministro di Grazia e Giustizia, nonchè compilatore del Proclama di annessione del 1860; Antonio Marchianò. Vincenzo Stratigò, Camillo Vaccaro, progressisti e positivisti;
Attanasio Dramis, amico fraterno di Bakunin; Agesilao Milano che attentò alla vita di Ferdinando II di Borbone ed altri ancora. Tutti rivoluzionari ed egualitaristi, insofferenti del pesante giogo gerarchico. Non bisogna andare lontano, tutt’oggi, un italo albanese, anche se iscritto o simpatizzante di un partito politico costituzionale, sente che non è libero del tutto.