giovedì 23 maggio 2013

Zef Serembe, il Poeta maledetto


(di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)
 

 


Avevamo veduto il Poeta da lontano per le vie, cappellato un Assalonne, giallo come un brasiliano, con dentro gli occhi una mobilità di luce strana e ce l’avevamo accennato come un sognatore di visioni, una specie di Poe o di Nerval calato qui dai vicini monti albanesi.
( Domenico Milelli)
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Uno dei massimi poeti della Letteratura Italo Albanese, dove con maggiore impulso viene prospettata l’espressione artistica del romanticismo e dell’intimismo malinconico, è sicuramente  Zef Serembe.

Nella sua poesia veleggia l’ombra e alita il soffio dell’arte drammaturgica, della malinconia, della disperata ricerca di Dio e dell’ amore perduto. Nella poesia, “Il mio ritratto” così si identifica:

della chioma castano io vado fiero

tristi mi ardono gli occhi, se li osservi” e ancora:

“Mi soggioga il dolore e sfiora il riso,

l’ira mi accende e subito si placa.

Un po’ nei crocchi e poi cerco il silenzio,

lascio che il tempo mi inganni coi sogni:”

 Giuseppe Schirò così lo descrive: Passionale, triste e solitario erra per il mondo; non ha pace e la pace stessa par che paventi. La bonaccia della sua anima e del suo cuore, scossa talvolta da rapide ire e illuminata da sprazzi di fatua gioia, non è che desolata tristezza pervasa dal ricordo di un perduto amore.”

Nacque nella comunità Arbereshe di San Cosmo Albanese ( Strigari), nel 1844 e, giovinetto, avviato agli studi  nel Collegio Italo Albanese San Adriano, venne temprato dai suoi professori, quali Gerolamo De Rada, agli alti studi classici.  Animo inquieto, viaggia così per l’Italia, risiedendo per poco tempo in diverse città. Spinto dall’amore per la propria gente, visita le colonie Albanesi di Sicilia, ma dal suo continuo andare torna sempre con più malinconia e  persistente stato di angoscia.

Conobbe e si innamorò perdutamente di una ragazza del suo paese, per la quale scrisse in versi, La più bella di Strigari “; la fanciulla dovette emigrare con la famiglia in Brasile, dove di lì a poco tempo vi morì. Quella improvvisa ed immatura morte stravolse la vita del poeta: ogni cosa per lui era inutile quanto infaustamente reale e decisamente affascinante.

Nel 1874 volle trasferirsi in Brasile, forse, per ritrovare almeno la tomba ove riposava il giovane amore; errabondo in quella lontana terra, su segnalazione della Principessa Elena Gjika ( Dora d’Istria), ottenne di entrare nelle grazie dell’imperatore Pedro II. La vita di corte non gli fu  confacente tanto che dopo qualche tempo decise di raggiungere il patrio suolo. Sbarcato a Marsiglia, nel 1875, venne derubato di tutto ciò che possedeva e mendicante raggiunse Livorno, dove ben accolto dal papàs Demetrio Camarda ritrovo un po’ di calore umano. Rinfrancato dal sacerdote siculo-albanese fu dallo stesso munito di biglietto ferroviario per raggiungere la Calabria. Il Nostro, in seguito, affermò che proprio durante il suo continuo peregrinare perse gran parte dei suoi scritti. In quel frangente, per evidenziare il suo pessimismo, così scrisse al Camarda:” Per terribili castighi avuti da Dio…abbandonai precipitosamente il Brasile per deviare il danno. Ora è troppo tardi…Arrivo ( a Livorno) da Nizza a piedi ed in uno stato che fa orrore. Vendei paletot e soprabito per vivere lungo la strada. Sono scalzo perfettamente e morente della fame… Arrossisco, ma la mia sventura non ha limiti. Finirò a scomparire come una meteora vendicandomi di tutti quelli che furono causa della mia rovina”.

Perseguitato dalle sventure e dagli uomini – scrive Vincenzo Belmonte, suo maggiore studioso e biografo – psicologicamente fragile, indifeso di fronte alla malvagità del mondo, innamorato dell’amore, disperatamente religioso, animato da ardente patriottismo nei confronti dell’Italia e dell’Albania, estatico contemplatore della natura, inguaribile sognatore spinto dall’inquietudine a un continuo vagare: tale ci appare il poeta dalle testimonianze sue e degli altri.” Alcuni suoi biografi asseriscono che, durante questo periodo di perdizione esistenziale, avesse composto dei drammi, un poema e avesse tradotto in albanese i Salmi di David. E’ da considerarsi introvabile anche l’immenso poema albanese “L’Uomo nella scena dell’universo al cospetto di Dio”. Il poema era costituito da 120 canti e circa 200.000 versi e in uno scritto a Gerolamo De Rada nel 1894 egli affermava di ricordarne a memoria ancora dai 30.000 ai 40.000 versi delle composizioni già andate perdute “ per la infamissima insidia della Chiesa Romana.” Tutto andò perduto –scrive Giuseppe Carlo Siciliano- lungo il suo interminabile peregrinare. Le opere del Poeta, ufficialmente a noi rimaste,  sono le Poesie italiane e Canti originali tradotti dall’albanese per Giuseppe Serembe, pubblicati a Cosenza per i tipi dell’Avanguardia nel 1883; la raccolta di 39 versi ( Vjershe) pubblicati dal nipote Cosma, presso la Società Italiana Grandi Edizioni, Milano nel 1926. In un manoscritto rinvenuto nella Biblioteca Nazionale di Copenaghen sono giunte a noi altre sue composizioni e queste, assieme ad altre poesie tramandate oralmente dalla viva voce dei suoi familiari e trascritte dal nipote Cosma, costituiscono una ricca raccolta di lettere autografe, una pubblicazione curata dal critico albanese Dhimitir S. Shuteriqi sulla rivista letteraria “Nentori” nel 1963. Seppur mutilata, la produzione delle opere del Serembe è giunta a noi  in maniera tale da farci comprendere l’eccellenza della sua arte, commista di di malinconia e di perduto amore. Annovero le sue poesie d’amore: “Alla più bella di Strigari; Dopo la vendemmia; Il cantore e l’usignolo; La serenata; Canto d’amore; Ricordo; Di notte; La tempesta; L’augurio. Poesie patriottiche: “ Per la libertà del Veneto; A Elena Gjica; Ad Alì Tepeleni. Poesie religiose: Alla Madonna; All’Immacolata; Ai Santi Cosma e Damiano e il poema inedito in venticinque canti “Kengat e Krujes ( I Canti di Croia).

In tutti i suoi canti, Zef Serembe, usa la lingua del suo popolo, facendo giungere, come gli antichi musici, notevoli ed inconfondibili, le note della profondità del suo animo. Girovago, inquieto nell’animo, nuovamente raggiunse le Americhe, dove in un mattino del 1901, il suo corpo senza più anima sofferente, fu ritrovato fra le vie di San Paolo.

 Bibliografia essenziale: Omaggio a Giuseppe Serembe, a cura di Vincenzo Belmonte, Cosenza 1988;

La diversità Arbereshe di Carlo Giuseppe Siciliano, Falco Editore, Cosenza 2009.

Foto: www.arberia.it

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