mercoledì 18 marzo 2020

Drangoleja




(A cura di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)



Nelle ricerche etnografiche del Papas Antonio Bellusci sugli gli Albanesi d’Italia, in questo caso particolare su quelli dell’Arberia Calabrese, grande rilievo assume quella delle culture analfabete. Tradizioni e credenze che tutt’ora si riscontrano in Epiro e nelle comunità albanofone della Grecia. Esistono entità defunte individuate e non individuate che prendono sembianze animali. Nelle nostre comunità si è molto ossequienti alla figura del colubro “ Drangoleja”.
<< Si crede che nel colubro (Drangoleja), abiti uno spirito di qualche antenato defunto. Non bisogna, quindi, assolutamente ucciderlo. L’antenato ritorna sotto le sembianze di un animale nella propria abitazione. E i vivi lo rispettano e lo chiamano “Djor”, che può significare spirito derelitto, ramingo ed in cerca di pace. Molto diffusa fra gli Arberesh è la credenza che nei serpenti alberghi lo spirito di qualche trapassato. Da qui nasce il culto e la proibizione “tabù” di ucciderlo.
Ritenendo che lo spirito dei defunti possa emigrare nel colubro ( Drangoleja), esso viene ritenuto “Urja e shepise”,cioè la benedizione, l’augurio, il protettore della casa. “ Nje her ish nje burr e kish dhent e kish kalivjen ne malt. E nga her çe hapnej stjavukun se kish haj, ka qaramidhet i kallarej nje drangulè. Ki burr kish nje bir. Nje dit i la dhent te birit e vate ne katund e mbet di o tri dit. Ki guanjuni, kur erdh miezdita, mua e e tundi se kish kallarej drangoleja te hajen bashk, psè i jati i kish then keshtù. Drangoleja u kallar. Kur drangoleja u kallar ki trim muar toprin e i preu krjet. Kur erdh dita çe u ngjt i jati ne malet i tha: Moj biri im çe bere? Foka non shoh drangolen. Ku e dergove? Tha i biri: i preva krjet se neng mund te shinja te hanej pres neve. I jati: Uuuuu bir çe bere? Psè kish te vrisie? Ajò ish Urja ke sai kalivje. Naten drangoleja i del nde grumi guanjunit e i thot: psè me vrave? U isha tatmadhi. Ti me vrave e e bere mir. Menatet kur u zgjua ja tha t’jatit enderrin e u vun e qajtin te dja. Çe ahjrna neng pan me te mir nde shepì.”
Traduzione:
“Una volta c’era un uomo e aveva le pecore e una capanna in montagna. Ogni qualvolta apriva la salvietta per mangiare, dalle tegole di essa discendeva un colubro. Quest’uomo aveva un figlio. Un giorno lasciò le pecore in custodia al figlio e andò in paese dove si soffermò per un paio di giorni. Il ragazzo, assente il padre, quando giunse mezzogiorno, prese il piatto e lo smosse perché doveva scendere il colubro per mangiare insieme, poiché il padre gli aveva detto così. Il colubro discese e il ragazzo prese l’ascia grossa e gli tagliò il capo. Quando giunse il giorno che il padre risalì in montagna disse: Figlio mio cosa hai fatto? Mi sembra di non vedere il colubro. Dove lo hai mandato? E il figlio: gli ho tagliato la testa, non sopportavo più vederlo mangiare accanto a me! E il padre: uuuu figlio mio che hai fatto? Perché dovevi ucciderlo? Quello era “Urja” la benedizione di questa capanna! In seguito, il colubro appare in sogno al ragazzo e gli dice: T figlio mio perché mi hai ucciso? Io ero tuo nonno. Tu mi hai ucciso e hai fatto bene. L’indomani il ragazzo raccontò il sogno fatto al padre ed insieme si misero a piangere. Da allora non videro più progresso in casa loro”.1
Fino a qualche decennio fa era radicata nelle popolazioni arberesh di Calabria la credenza nella trasmigrazione delle anime dei defunti negli animali e sicuramente questo mito ci riporta alla pre- religione dei nostri avi. Io sono scettico, ma ho per amico un colubro, che puntualmente ai primi di maggio, come se volesse salutarmi, si rifà vivo in un vecchio casolare che era di proprietà dei mie bisnonni. E’ un colubro di grosse dimensioni, avrà forse più di cento anni e quando solleva “il capo”, rivolgendomi lo sguardo, intravedo tenera dolcezza. All’inizio di questa estate l’ho visto avvolgersi ad una grossa pianta di noce… la pianta è seccata dopo alcuni giorni.


1 Estratto da Magia, Miti e Credenze Popolari ( ricerca Etnografica tra gli Albanesi d’Italia) di Antonio Bellusci. Biondi Editore Cosenza 1983.


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