giovedì 19 marzo 2020

Brindisi di Montagna tra Storia e memoria collettiva






Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro



Lo storico nelle sue ricerche si avvale prevalentemente delle fonti, materiale di lavoro e condizione fondamentale per le indagini. Non esistono, a mio avviso, profonde affinità tra storia e tradizione o memoria individuale e collettiva quantunque la storiografia si fonda sulla testimonianza e sulla memoria, ma non si identifica mai con essa. Tuttavia molte volte la tradizione o memoria può costituire un elemento necessario e suggeritore per lo svolgimento della ricerca alla quale concorre una edificante esegesi, quest’ultima molto più importante delle fonti stesse. La tradizione a questo punto può essere considerata e relativamente giustificata dal presupposto che nessuna fonte è muta, nessuna presenta lucidità, nessuna è sicura e nessuna riveste poco rilievo. La complessità delle memorie tramandate non si combina con la storia, per quanto essa è oggetto del lavoro storiografico.

La pubblicazione di Andrea Pisani riguardo la comunità di Brindisi di Montagna è un esempio di storiografia elaborata attraverso la memoria collettiva o la tradizione. Non vi sono indicate fonti, ma nella narrazione, i dettagli sono riportati con interessante lucidità. Le date e i luoghi sono descritti con scrupolosità direi quasi maniacale, così come anche i nomi delle persone e le attività da loro esercitate. In questa sorta di monografia, però, inconcepibilmente, non vengono citati gli avvenimenti che hanno determinato in maniera decisiva la storia di questa località. Come si potrà leggere avanti il Pisani non cita il terremoto del 1694 che distrusse centinaia di paesi e casali provocando la morte di migliaia di persone in Basilicata e nel Principato sia Citra che Ultra1 e neppure la immigrazione di albanesi dalla Chimara del 17742 citata da molti scrittori e sulla quale sto cercando di acquisire maggiori notizie attraverso gli archivi regionali, diocesani e napoletani. Ritengo sia importante riproporre una parte della pubblicazione, poiché, fondamentalmente, gli indizi riportati meritano attenta valutazione.

Riguardo la migrazione del 1532-1534, coronea o peloponnesiaca, Andrea Pisani, nel suo libro Dall’Albania a Brindisi di Montagna, ci racconta:

Tra il 1532 e il 1534, trenta famiglie, originarie di Corone, sbarcate a Napoli, furono accolte dal Principe di Bisignano Pietrantonio feudatario di Brindisi di Montagna e mescolate ai pochi indigeni superstiti per ripopolare il feudo che era rimasto fra i ripetuti terremoti e per sessantanove anni quasi deserto. I Coronei, dopo molti giorni di cammino e di disagi per luoghi sconosciuti ed aspri, senza mai perdersi di animo, giunsero affamati ed estenuati alla Torre della Serra del Ponte. Quivi ebbero la prima indicazione del luogo che, in prossimità del fortilizio, doveva essere loro perenne dimora; ma, secondo tradizione, appena traversato il Basento, si trovarono in così folta boscaglia, smarriti all’inizio dell’ascesa, da dover una prima ed una seconda volta retrocedere per riprendere esatta visione, migliore orientamento e precisare la meta.

Dallo sbocco del Vallone Monaco, risalendo nella valle per il Tufo, ove ora son l’orto di Antinori e la vigna di Spera, raggiunsero con molta fatica la sommità del monte.

Le trenta famiglie  albanesi prime giunte furono quelle di Barbati, Basta, Bellezza, Beccia, Bello, Bianco, Biluscio, Bodino, Bubbich, Busicchio, Canadeo, Cappariello, Caporale, Colossi, Como, Creasi, Cresio, Greco, Lech, Licumati, Manes, Mattes, Molicchio, Musciacchio, Plescia, Prete, Pulmett, Rennisi, Scura, e Truppa.

Molti di questi cognomi come si può notare furono sicuramente oggetto di rotacismo perpetuato dagli amanuensi ecclesiastici e dagli impiegati del feudatario.

Gli Albanesi, dopo le escursioni fatte nel territorio e tra le ruine dell’antico Brindisi, scelsero come luogo di dimora, com’è naturale, la parte più sicura presso il castello, cioè sul blocco roccioso e inespugnabile. Le prime loro abitazioni, in tanta fittezza di alberi annosi, furono capanne di legno, e, invero, ricordiamo noi stessi umili casette con muri a loto, coperte non di embrici o tegole,ma di scannule (tavolette a spacco, lunghe circa cm. 75 e larghe cm. 25, in media): copertura che ancora si osserva su qualche casetta di campagna.

Il primo periodo di attività dovette essere di scorrerie nella contrada, ove molte comodità mancavano e la disperazione cresceva pel triste governo del vice reame spagnuolo, che spingeva gli abitanti di tutto il napoletano, anche quelli della campagna, ad abbracciare come ultima risorsa, il mestiere di bandito in ischiere, che venivano poi capitanate da signori di nobilissime famiglie. E non pochi tra i nuovi venuti si diedero alla caccia e al servizio militare mercenario nelle case dei principi e nei regi tribunali: con un passato tutto di guerre non potevano non essere esperti ed inclinati alle armi. Il lavoro, sempre tenuto in dispregio dagli uomini era serbato alle donne.

Alcuni dapprima, e in seguito quasi tutti, si dedicarono alla pastorizia e all’agricoltura: la pastorizia è sempre stata ed è l’occupazione prediletta degli Albanesi. Poi piantarono vigne, le popolarono di alberi da frutto e migliorarono le loro abitazioni. Per la loro vita spirituale e per seguire le loro supreme e ferme aspirazioni avrebbero voluto conservare e praticare il culto cattolico orientale che, insieme alla loro lingua, ai costumi, alle loro tradizioni formava la caratteristica spiccata della loro razza; non avevano, però, sacerdoti connazionali e furono dagli arcivescovi della diocesi di Acerenza accumunati nel rito latino ai prossimi Vagliesi: non agli abitanti di Trivigno che era un casalotto di Anzi, e non a quelli di Albano che era nella diocesi di Tricarico. A Vaglio, dunque, si recavano i nostri per tutte le pratiche religiose, ma con loro disagio, maggiore durante le intemperie e nei casi urgenti.

Il 20 giugno 1595 in pubblico comizio, v’intervennero il sindaco Giobbe Barbati, il capo eletto Bolimetti, il governatore Molfese, tutti i capi di famiglia, decisero e giurarono di edificare, sui ruderi di altra cappella la chiesa di San Nicola, ora chiesa madre, mediante oblazione in grano e in denaro, e contrassero obbligo per la manutenzione dell’edifizio e pel mantenimento del parroco.

Lo stesso Barbati si rese promotore d’una colletta per riedificare la cappella di S. Maria Mater Msericordiae: come ho detto altrove.

Ma sino al 1628 non riuscirono ad avere sul luogo preti e cure di anime. Soggiunsero allora altre famiglie croiesi di Lillo, di Aripopoli, di Dorisi (poi detta Dores), di Bizza. In vero, anche queste avevano per un certo tempo dimorato in Italia: gli Aripopoli, colti e nobili, vennero dalla regione leccese; i Dorisi e i Bizza, poi detti Bellezza vennero dalle Calabrie; i Lillo da Barile. Si erano staccate da altre colonie albanesi e furono accolte dai loro connazionali, come di contemporanea provenienza, ed ammesse a godere i loro stessi privilegi. Nacque dalla fusione e dalla concordia una piacevole gara per procurarsi col lavoro assiduo le comodità di vita comune e per nobilitarsi con le lettere, le scienze e le virtù civili.

Con queste ultime famiglie si ebbero i due primi sacerdoti greci: Don Francesco Avianò e Don Demetrio Sannazzari, i quali, con regolare contratto rogato il 21 dicembre di quello stesso anno (1628), accettarono il disimpegno degli ufficii religiosi. I due preti, come consentiva il loro rito, ebbero moglie e discendenti e tra questi non pochi preti, come Don Basilio Bellezza. L’arciprete Avianò e il fratello Alessandro, suocero di Demetrio Bellezza, fecero ricostruire sulle prische rovine la cappella di San Giacomo Apostolo, della quale non rimangono che qualche arco e due basi prismatiche di colonne. La cappella di San Giacomo ebbe una dote di tre case, 50 tomoli di terreno (circa 20,5 ettari), di una vigna in contrada Cornale, di 400 pecore e capre e di due bellissime campane. La cappella con tali benefizi passò nel 1657 al prete Don Basilio Bellezza, avanti ricordato, e poi ad altri discendenti, preti colti e stimati.

La famiglia Bellezza è stata la più numerosa, la più intelligente e la più attiva, quella che più si è diffusa diramata fuori del nostro comune. Abbiamo il dovere di ricordare Andrea Bellezza, che fra le altre opere buone fondò la Congregazione del Rosario e le elargì quanto possedeva: istituì la Lavanda dei Piedi e la Cena del Giovedì Santo, con la distribuzione, a sue spese, di pane benedetto ai poveri, secondo l’uso di case principesche.

Don Vincenzo Capparelli, fratello dell’arciprete Domenicantonio, avvelenato in Vignola ora Pignola per volere di un duca, fu parroco di San Paolo di Roma.

Decoro e lustro al nostro paese diede la famiglia Basta, Croiese. Di essa si occupa lo Strada, autore del libro “De bello bellico” (libro V pag. 308). Andrea fu molto versato nelle lettere; Gerardo, benefico e religioso, fece costruire nella cappella della Madonna il nuovo coro e la cupola del campanile; Nicola fu ufficiale di cavalleria nell’esercito del re di Spagna e nel 1580 combattè nei Paesi Bassi, ove molto si segnalò; Giorgio nato a Rocca (Imperiale?), Conte e valoroso generale nella stessa armata di Spagna (1600), scrisse due trattati: “ Il maestro di campo generale, stampato a Venezia nel 1606 e “Il Governo della Cavalleria leggera”, stampato a Francoforte nel 1612.

Son pur degne di nota le famiglie originarie di Plescia, di Barbati, di Mattes poi Mazza, di Belli, di Manes, di Buscicchio, di Prete, di Pulmetti, di Dorisi o Dores, di Candeo, di Rennisi e di Beccia: perché diedero cittadini probi, colti e stimati, e i Barbati si prodigarono di più degli altri nelle cariche pubbliche. I Truppa, i Malicchio, i Caporale, i Greco, i Creasi, i Crescio, i Biluscio, i Bodino, i Colossi, i Lecca, i Rubico e i Licumati attesero umilmente e modestamente al lavoro dei campi, senza dimostrare mai alcuna tendenza a migliorarsi intellettualmente.

Nei primi tempi di adattamento e di assestamento che durarono più di un secolo e fino alla seconda metà del 1600, nel regime di vita domestica ed agricola la colonia si mantenne gelosa delle sue tradizioni e delle sue consuetudini elleniche originarie. Alle prime incertezze, alle oscillazioni tra il vecchio e il nuovo, tra le armi e la pastorizia, dileguatosi il ricordo delle feroci persecuzioni turche e delle torture, seguì tutto un fervore di attività casalinghe, campestri e chiesastiche, un vero raccoglimento di spiriti concordi, anelanti alla pace e alla quiete. Il raccoglimento, favorito dal silenzio silvestre e dalla inaccessibilità dei monti, aveva ancora una tinta di paura delle convulsioni sismiche e delle furie aeree; era desiderio intenso di placare le ire dei cattivi geni e di avvicinarsi e di avvicinarsi alla clemenza di un supremo regolatore, che una volta chiamavano Allah ed ora hanno imparato a chiamare giusto Iddio.

Lo prova il fatto, di cui il ricordo è preciso, che le famiglie di migliori intelligenze e di migliori sentimenti diedero cure devote e sostanze cospicue all’edificazione ed alla resaturazione di chiese e cappelle e allo studio di lettere latine, di teologia e di storia; mentre fino al 1595 non avevano un prete, e se l’ebbero poi saltuariamente fu un vagliese (di Vaglio), Don Gregorio Catalano.

 Superato tutto un periodo di difficoltà, le famiglie originarie si fecero conoscere dai popoli vicini e guadagnarono credito: contrassero matrimonii e amicizie, stabilirono commerci ed effettuarono scambi di prodotti.

Aumentato con la popolazione il benessere, per i cresciuti bisogni, oltre i primitivi inerenti all’agricoltura ed alla pastorizia, si verificò l’immigrazione di artigiani e di professionisti e di famiglie italiche. Dobbiamo, per la verità, far rilucere col buon nome acquistato dagli Albanesi la bontà del nostro clima, la salubrità dell’aria. L’abbondanza delle acque che sorgevano in molti punti del territorio, la estensione e l’ubertosità del territorio stesso, l’esuberanza dei pascoli e la folta ricchezza dei boschi. Allora facilmente si ottenevano terreni feudali con semplice istanza e col solo pagamento di decime in vettovaglie.3



1 Andrea Pisani, Dall'Albania a Brindisi Montagna all'Italia. Cronistoria dal 1262 al 1927, Palombara Sabina Roma 1927. Ristampa anastatica, Tip. IBMG Matera 1989.


2 R. Giura Longo,La Basilicata moderna e contemporanea, Napoli, Edizioni del Sole, 1992 p. 218. Riguardo il terremoto dell’8 settembre 1694 e Relatione del Terremoto accaduto a Napoli e parte del suo Regno il giorno 8 settembre 1694, dove si dà ragguaglio de li danni, che il medesimo ha cagionato in molte parti del Regno et in particolare nelle tre Provincie di Principato Citra, Ultra e Basilicata con il numero de’ morti che nella medesime sono rimasti sotto de le Pietre. In Napoli, 15 ottobre 1694- Per Dom. Ant. Parrino e Camillo Camallo.


3 A. Masci, Discorso sull’origine, costumi e stato attuale della nazione albanese, C. Marco ed. Lungro (CS) 1990 p. 102 – M. Scutari, Notizie historiche sull’origine e stabilimento degli Albanesi nel Regno delle Due Sicilie, Potenza 1825.





 Foto :  siviaggia.it








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