martedì 15 ottobre 2019

PERCHE' IL GRECO

Nando Elmo con Padre Emiliano Fabbricatore
Ho discusso tante volte con padre Nilo e padre Emiliano delle cose di cui scrivo qui sotto. Erano d'accordo con me. Dedico lo scritto alla loro memoria.
PERCHE’ IL GRECO.
Di Nando Elmo i Kaluqravet
"Le chitarre nei canti e i preti stonati
hanno fatto il resto, decretando l’eclissi del sacro".
(Paolo Rumiz: Il filo Infinito. Feltrinelli 2019)
Certo, le cose imparate da bambino, da ragazzo, non te le levi più di mente. Non mi resta in mente il tedesco che sembra attaccato con lo sputo nella mia memoria per quanto vi torni e vi ritorni anche con pervicacia da “calabrese”, da testa dura. Gli è che ho incominciato troppo tardi a studiarlo. Leggo qualcosa di Mann (Tonio Kröger) con testo a fronte, ma parlare – non se ne parla proprio. E quando a Friburgo in Bisgrovia mi sono perso, col telefono che non prendeva, disperato ho cercato informazioni dai passanti in inglese che nessuno capiva – e pure si dice che i tedeschi sanno tutto loro. Certo, non era come a Salisburgo dove ho conversato in inglese con i baristi, i passanti e il parroco della Cattedrale che mi ragguagliava sulle porte di Manzù – ma anche quello, l’inglese, lo puoi leggere quanto vuoi ma se non lo parli ogni giorno, finisci, alla bisogna, di fare la figura del globish impantanato, con la lingua legata, nei balbettii più imbarazzanti, come i nostri politici all’estero.
Il greco no; è lì fermo nella memoria, più del latino, più della “Vergine cuccia”, più dell’ “Addio ai monti”, più di “A Zacinto”, di “In morte del fratello Giovanni”, dei “Sepolcri”, delle “Fonti del Clitummo”, e “Miramare”, e “la Cavallina storna”,e "Undulna" e canti e canti della Commedia e dell’Iliade e dell’Odissea (Monti e Pindemonte), e tante poesie in spagnolo, ecc …, ecc.., ecc… - care memorie.
Ma il greco no. Il greco non è memoria, è carne, è sangue, memoria atavica, memoria cellulare, perché è li da quando non sapevo non solo leggere ma neanche parlare in italiano. È il greco dell’infanzia, della Benedizione, delle novene, dei vesperi delle messe mattutine e festive con Çitri e Ngjosha che la cantavano come non ho mai sentito da nessuna parte nei nostri paesi - e allora da dove vengono quelli di Acquaformosa, dove hanno imparato quei motivi? Βασιλεῦ οὐράνιε, Παράκλητε ...; Θεὸς Κύριος καὶ ἐπέφανεν ἡμῖν …; Όσοι εις Χριστόν εβαπτίσθητε ...; Χριστός ανέστη ...; che tornano e ritornano, con quei toni, appena faccio silenzio e chiudo gli occhi; come mi torna tutto il resto delle pericopi delle Lettere di Paolo di cui ero cantore, anche in Cattedrale a Lungro ai tempi di Mele e Stamati: 'Αδελφοί, χαίρετε ἐν Κυρίω πάντοτε πάλιν έρῶ, χαίρετε… - come suonava dolce.
E mi ritornano tutti i tropari delle funzioni di Grottaferrata, gli apolitikia anastasima in particolare, di quando si andava in basilica con i monaci, con i bui precoci dell’inverno, a cantare i vesperi; e c’erano quelle tenui luci gialle delle poche lampadine a incandescenza da pochi watt, quasi lumi di candele, a non disturbare, con la violenza delle luci a giorno di oggi, il raccoglimento; e ti sentivi come quel “piccolo numero” di cui parlano le scritture, un “piccolo numero” estraneo, per quel greco, al mondo di fuori; come Dante nel suo “vasel”: “Guido, i’ vorrei …/ e ragionar d’amore …”.
E noi di che ragionavamo? Non lo ricordo, come non si ricordano tante cose date per scontate. Giacciono esse nell’inconscio Erano quelli i nostri discorsi, non potevano essere che quelli, di una chiesa quasi catacombale, per il “piccolo numero”.
Ma a Grottaferrata sapevo già di greco.
Quando vi giunsi, erano già tre anni che lo studiavo, dalla prima media – impagabile (col senno di poi) privilegio di noi arbëreshë, l’oro di famiglia che non si può svendere – per nessuna lingua materna.
E da allora, ancora bambino, si può dire, s’erano aperte, come fiori bagnati dalla rugiada della grazia del loro significato, quelle parole che da sempre sapevo a memoria, io chierichetto esemplare: Ἡ παρθένος σήμερον ..., Ὁ῎Αγγελος ἐβόα τῇ Κεχαριτωμένῃ ..., Ἐν Ιορδάνη βαπτιζομένου σου Κύριε ... e tutto il resto. Nella pronuncia nostra bizantina; che poi, quando al liceo statale sentii l’altra pronuncia, quel greco mi sembrò barbarico – balbettante. Dovetti imparare un “altro” greco, quello con cui oggi leggo Platone e che manda in bestia Zef Skirò di Maggio quando l’applico – quella pronuncia barbarica, dura – alla lettura del Nuovo Testamento.
Ma perché il greco? Perché abbiamo la possibilità di leggere Liturgia e Testamenti nella lingua in cui sono stati scritti – e non è poco, se è il caso di comprendere quel che si recita, quell’oltre senso che nessuna traduzione afferra – mettete il caso di ἀλήθεια come ἄλη/θεία, che non è la “Verità”, l’imperium del dogma, ma la “divina erranza”/ “vagatio seu erratio divina”, come traduce La Mothe Le Vayer.
Nessun arabo si sognerebbe di leggere il Corano, la lingua del Profeta, in traduzione.
E se i Nostri ci hanno consegnato tutto nella lingua originaria, una ragione ci sarà. Me la dà Gianni Vattimo, non ricordo più in quale sua opera. Dice il filosofo calabro piemontese: bisogna che la messa sia detta in latino (noi “in greco”) per stabilire una differenza, una distanza, tra la lingua del sacro e la lingua di tutti i giorni – considerando poi che la lingua di tutti i giorni (“la falsa verità del vissuto immediato”- cito a memoria) è anche quella dei politici che vanno a straparlare nei talkshow, aggiungo io.
La lingua greca, dunque, per noi, sia la lingua del “Sacro”.
Lo so, siam fatti tutti illuministi e, dunque, in tempi di totale secolarizzazione, sembra ridicolo parlare di “sacro” (il “Das Heilige” che invoca Heidegger ).
Avessimo, però, salvato il “sacro” (abstine manus) forse avremmo salvato la terra dall’attuale minaccia ambientale; ma sentite l’intuizione del poeta, che ho citato troppe volte: Stat vetus incaedua silva per annos/ credibile est illi numen inesse loco - Ovidio: Amori, III, 1,1,2)
Il greco, dunque, come lingua del sacro, per noi (attenzione: qui il “sacro” è solo una “parola”, un “als ob”, un “come se” – l’anello d’oro, che mi hanno rubato l’altra sera, in sé non ha nessun valore, per me sì, perché era un anello di famiglia. Non vorrei caricare di fardelli nessuno – il greco è una questione privata mia; per voi sia un “facciamo finta che”, se credete che funzioni, tenetelo, se no, buttatelo via). Se poi volete tradurre, io dico: fate pure. Sarebbe più opportuno, però, che si riunisse una commissione liturgica e riscrivesse una nuova liturgia, come hanno fatto i latini. Una messa adatta ai turisti e a qualche passaggio in televisione perché la preoccupazione pare solo questa: come prendere visibilità, come mutare tutto in folklore per riempire la cattedrale di Lungro con tanti turisti. Ma lasciamo la liturgia di Crisostomo così come ce l’hanno consegnata, e il Nuovo Testamento; e l’Antico che, siccome dicono è ispirato come l’ebraico, io lo leggo in greco.
E gli altri che non sanno il greco? Ho l’impressione che non abbiano nessuna necessità di leggere in quella lingua i testi liturgici e i Testamenti che non leggono neanche in italiano.
Torniamo alle chiese catacombali, da grotte ferrate (non sto mettendo “limina”, barriere, ma “confinia” (cum fines), dove dall’altra parte non c’è lo straniero ma l’Altro ) per piccolo numero: il resto del mondo è redento, noi siamo i malati – noi che preghiamo in greco il mattino col Δόξα σοι τῷ δείξαντι τὸ φῶς ... e la sera col φῶς ἱλαρόν e il Nῦν ἀπολύεις τὸν δοῦλόν σου, δέσποτα – quest’ultimo cantico potrebbe, nella sera dell’Arberia, suonare anche come una richiesta di liberatoria, del lasciarci andare in pace dopo che per cinquecento anni i nostri antichi, fino alla devastante era Lupinacci, hanno fatto il loro dovere. Noi eredi meritiamo questi qua.
Ho messo in esergo Rumiz, scrittore e giornalista infaticabile giramondo per tutte le dorsali d’Europa (è per questo - Attenzione – buonista), perché con lui mi piace terminare, completando il suo pensiero.
”Forse gli ortodossi riescono ancora a sedurre con i loro bordoni maschili e il celeste controcanto delle donne. Li ho uditi in Serbia, in Turchia, in Siria, in Iraq, i nobilissimi cristiani d’oriente”.(…) “I canti di fede più potenti non li ho sentiti in Occidente, ma ad Aleppo subito prima della guerra. Oggi Aleppo e la Siria non esistono più”.
Non esiste più, aggiungo io, neanche l’Arberia, perché ha gettato alle ortiche il tratto distintivo più prezioso, il greco – per una nuova, falsa e ridicola identità etnica. C’è chi sostiene che gli arbëreshë sono appena gli shqipetari o i kosovari che sono emigrati dopo la morte di Skanderbeg oltre Adriatico: Shqiperia gadishullore, l’”Albania peninsulare”, insomma. Padrone di farlo: l’altra storia , forse più adeguata di questa, non conta
Mi rendo conto che tante assunzioni mie andrebbero ulteriormente sviluppate e discusse ma, per un post di FB, questo testo è già abbastanza lungo di suo, e non vorrei affaticare l’eventuale lettore.

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