lunedì 7 ottobre 2019

Error communis facit ius. Intorno all'esaltazione del mito dei coronei.


(di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)

La Storia è una scienza il cui fine ultimo è il raggiungimento e la produzione della verità. Quindi, prima di essere “magistra vitae” è “ancilla veritatis”e, come tale, non può essere ostaggio di soggettive presunzioni, esse siano guelfe o ghibelline, esse siano tese all’esaltazione dell’ego. L’uomo, per natura, ha sempre abusato del potere, affidatogli o conquistatosi, per trarne vantaggi personali, attraverso il proprio status, la politica, la mendàcia e il necessario bisogno di emergere nella società del suo tempo. In tutti gli scritti e pubblicazioni, gli adepti e intellettuali Arbëresh,  prima di svolgere il proprio tema, hanno sempre considerato, come formula introduttiva, se non addirittura fondamentale, l’esaltazione del mito e in questo caso Skanderbeg,  Reres, Tommaso Assanis Paleologo ed altri. Essi, pur essendo coscienti di appartenere al ceppo della doppia diaspora hanno sempre cercato un mito su cui far esaltare se stessi. “Skanderbeg e la storia degli Arberesh sono due elementi che, se ben studiati, si contrappongono; l’Assanis Palelologo, non era un coroneo ma un corinzio, burocrate e in seguito diplomatico al servizio di re Federico (egli ebbe notevoli proventi sugli usufrutti sulla miniera salifera di Lungro)1, mentre l’esistenza stessa del Reres viene messa in discussione da storici di sicura valenza, come lo Zangari prima e il Mandalà, il Giunta, il Petta ed altri successivamente. In tutto lo svolgersi del XVIII secolo, con la nascita nei piccoli villaggi della piccola e media borghesia, (primavera della èlite Arbëresh, che in verità fu la prima come società, con quella greco-napoletana, ad assorbire le nuove concezioni filosofiche d’oltralpe dell’Illuminismo), florida fu la collana di una narrativa storica italo albanese mistificatrice e tendente, all’unisono, all’auto esaltazione. In quella occasione la Storia degli Arberesh fu umiliata. Disaffezionata, porse le sue guance ad inverosimili romanzi epici ed eroici coronati da gesta atte ad imborghesire ulteriormente e quindi rendere “zappator chic”, quelle frange, seppur più colte degli schiavoni, di greco albanesi. In ogni dove dell’Arberia tutti reclamarono d’essere Coronei, cugini dello Skanderbeg, nipoti del Reres e pronipoti dei suoi prodi armigeri, ma nessuno dei “richiedenti” sapeva che Corone si trova in Peloponneso, Skanderbeg signoreggiasse in Albania, che Tommaso Assanis Paleologos fosse corinzio e non coroneo  e che il mito di Reres e il suo diploma non sono altro che frutto, ormai marcio, di abili falsificatori del tempo. Quella tendenza è da condannare, così come è da rivedere la questione dei Coronei e tutta la infondata e mitizzata dinamica storica costruita intorno alle migrazioni albanesi nell’Italia meridionale.

 Secondo una tradizione tramandata dal Rodotà e ampiamente diffusa, scrive Matteo Mandalà, i profughi coronei sarebbero stati di nobile lignaggio e avrebbero ottenuto da Carlo V particolari privilegi ed esenzioni. È verosimile che Rodotà, desideroso come molti altri suoi correligionari di «concedere ai suoi progenitori una patente di nobiltà»2  

Perché il diploma di “Cavalieri Coronei “, riguardo i Rodotà è venuto alla ribalta solo il 1739 ossia due anni dopo che Felice Samuele Rodotà è stato nominato Arcivescovo di Berea e primo Vescovo Presidente Greco ordinante del Collegio Corsini di San Benedetto Ullano?3

Perché nei vari archivi veneziani e napoletani non appaiono i nomi delle famiglie diplomate coronee come quella dei Rodotà, dei Camodeca e degli Jeno; di loro non si hanno tracce negli elenchi degli stradioti, né in quelli dei notabili di Corone prima della diaspora e tantomeno in quelli dei greci di Napoli, dove attraverso il Vecchio Archivio della Comunità Greca, possediamo un nutrito elenco?4  Perché i cosidetti coronei di Barile dovevano pagare anche l’affitto per l’utilizzo delle grotte al signore Caracciolo del Sole?5  Perché i Coronei di San Demetrio, 1603, erano obbligati ad “annettare le stalle dell’Abbadial Corte del Monastero di San Adriano ogni anno avanti la festa di San Adriano”?6

 Qualcuno potrà obiettare riguardo la mia critica sui “Caballeros” di Carlo V e rimproverarmi che, riguardo tale tematica, esistono dei diplomi e dei privilegi documentati e reperibili negli archivi della Regia Camera della Sommaria a Napoli e in quelli del Grande Archivio Storico di Simancas a Madrid e su questo sono concorde. Tuttavia, credo, è necessario che queste fonti, per una maggiore chiarezza, vengano confrontate e quindi combinate con altre, anch’esse autorevoli, giacenti nell’Archivio generale della Curia Arcivescovile di Napoli, nella Biblioteca Nazionale Napoletana e nel Vecchio Archivio della Comunità greca di Napoli (per quanto riguarda i Coronei di Napoli), nell’Archivio di Stato di Palermo (insediamenti in Lipari e Messina), di Venezia, nell’Archivio Segreto Vaticano e in quello della S. Congregazione della Propaganda Fide. Queste ultime due molto importanti in quanto la diaspora “coronea” non fu solo politica, ma anche economica- religiosa e giustamente, osserva Artemis Leontis, nella letteratura neogreca il topos dell’immigrazione ortodossa è rimasto sempre inestricabilmente legato a quello dell’emporion, ovvero del commercio7.

Dopo la ricerca, combinata nei vari archivi e nella bibliografia specializzata, subentra un’altra fase molto importante: quella esegetica, vale a dire la corretta lettura interpretativa dei documenti atta a fornire elementi plausibili che la critica storica può ritenere validi. L’atto con cui Carlo V concesse i privilegi al primo e più grande gruppo di immigrati del “Peloponneso” venne introdotta con la lettera che l’imperatore inviò al Vicerè di Napoli Don Pedro di Toledo, scritta a Barcellona il 13 luglio del 1533 e non come riportato da Angelo Masci da Genova l’8 aprile del 1533. Si prega di leggere elargendo alla mente la facoltà di valutare lo scritto correttamente:

El Rey- Ill. Marques primo nostro Virey y Lugateniente y Capitan General, como vereis por una nuestra Carta nos hemos accordado, de embiar. A esse Reyno ciertos Cavalleros, que an avenido de Coron, y Patras y de quellas comarcas, para que, non else entretengan, hasta pue se ofresca, en que puodan servir ordenandos, che les Sennaleis algunas Caserias, y Tierras en Pulla, o Calabria, o en otra parte de esse Reyno, donde os pareciere, que meior podran vivir, y sosenerse, y proveiar, que sean por aora asta, que ordenomos, otra cosa, libres de pagamiento fiscales, y de otras qualesquieres derechos, porque mejor se puodan entrentener, como mas largamente se contiene en la dicha nuestra Carta. Etc. etc…

Dalla lettura del documento emerge che nel Regno di Napoli non sono giunti solo profughi originari da Corone, ma anche da Patrasso e altri posti del Peloponneso. A d’uopo è limitato dissertare sull’argomento vaneggiando esclusivamente sul mito dei Coronei. A sostegno di questa tesi, oltre ad un documento ritrovato nell’Archivio General de Simancas8. importante, ritengo, sia quella del Professor Gennaro Varriale dell’Università di Genova, il quale asserisce con determinazione che: “Sebbene a Napoli fossero denominati coronei, i rifugiati greco albanesi provenivano da varie regioni dell’area ellenica, appartenuta in passato all’Impero di Bisanzio. Gli esiliati erano originari della Morea, dell’Acaia, dell’Eubea, dell’impervia Beozia e delle isole Cicladi.”9 In molti considerano, tutt’oggi, Tommaso Assanis Paleologo come un prode coroneo, ma pochi sanno che lui giunse in Napoli dalla corinzia servendo re Federico nei servizi diplomatici10. Altri ancora annoverano tra le fila dei coronei anche il capitano di cavalli Nicolò Masi ignorando che egli era originario di Nauplia o Napoli di Romania11.

Per una dissertazione sulla “questione dei coronei” più armoniosa e quindi più facile da esporre, è necessario analizzare parte della storia della città di Corone, della sua amministrazione, delle sue istituzioni comunitarie e della sua natura militare, geografica ed economica, in sostanza volgere uno sguardo storico-critico alla città nel periodo precedente al 1532-34.

Parte di quello che Pietro Pompilio Rodotà afferma nel suo Rito Greco in Italia, nello specifico nel libro III, riguardo Corone e i Coronei non corrisponde ad alcuna verità storica. Egli scrive:

“…. Corone nobilissima città del Peloponneso, la quale fin dal 1204 datasi spontaneamente à Veneziani (anche questo elemento non veritiero va discusso, ma in altra circostanza), riposava tranquillamente sotto il loro placido e saggio governo. Qui vennero a cercare asilo ed a stabilire la loro mansione molte famiglie dell’Albania nella comune desolazione della provincia; amando di serbar colla la religione la vita, e persuase d’essere trattate da un principe cattolico cò sentimenti di tenerezza e di stima.”12

Sicuramente il Rodotà non era a conoscenza dei documenti che si trovano negli Archivi Veneti, nelle Biblioteche, esempio quella Marciana ed altro dove molti studiosi hanno messo in luce verità in antitesi con le false produzioni del XVIII secolo sopra citate. A Corone, prima della cosiddetta grande diaspora del 1532- 34, vi abitavano pochissimi albanesi e costoro venivano, da parte della Serenissima, completamente esclusi dalle attività cittadine, amministrative e produttive; quei pochi, non più di dieci unità, che vi risiedevano erano addetti alla muratura (calcinaria)13 ovvero alla manutenzione delle mura e dei sistemi difensivi. La massa degli albanesi invece viveva nei vari villaggi del distretto di Corone e distanti dalla città fortezza oltre 15 miglia, come ad Andrussia, Caribento, Gendari, Metropoliza, Calavrita Navarino.14

 Essi svolgevano attività di pastorizia ed agricoltura con le loro famiglie ed erano esclusi dalle quelle militari. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Venezia non manifestò mai interesse a reclutare soldati albanesi, in una fase successiva a quella a cui abbiamo fatto riferimento. Questa posizione ostile da parte della Serenissima era destinata a mutare specialmente in Morea al momento dell’invasione turca, quando gli accadimenti dimostrano una riconciliazione tra le comunità albanesi e il potere veneziano. Un testo del 1466 mostra però come, nonostante il cambio di orientamento, il reclutamento di soldati albanesi e greci continuasse a costituire una extrema ratio, come nel caso del governatore di Lepanto, che a essi ricorse solo a fronte delle numerose perdite tra le truppe veneziane.15

Primo documento riportato dal Sathas: 1401, 16 februarii Castellani accipiant XII equites Albanenses, vel alios pro quolibet pro bono ipsorum. Solo 12 cavalieri ( stradioti albanesi) con cavalli e con le loro famiglie potevano accedere nella città.16

Un altro documento risalente al 30 agosto del 1423 ci informa che non più di dieci albanesi potevano entrare in città: dall’inizio del  XV secolo, infatti, rappresentavano un pericolo per Corone e Modone, tanto che a partire dal 1423 l’ingresso degli albanesi in questi porti strategici per il controllo marittimo veneziano è limitato a gruppi che non superassero le dieci unità:  De non permittendo... dictos Albanenses intrare loca nostra Coroni et Mothoni cum personis ultra decem.17

 L’elemento albanese per i veneziani costituiva dunque una componente avversa, e tale rimarrà anche in seguito, come si apprende dai testi che il Senato formula contro di loro ancora una volta nel 1489: Committuntur quotidie per Stratiotas et Albanenses territorii Corense bannitos, indomitam et superbam nationem18

Importanti sono anche le fonti di carattere privato, gli atti vergati dai notai attivi nelle due località: il cartulario del notaio Pasquele Longo restituisce di Corone e Modone l'immagine di due città abitate da cittadini veneziani trasferitisi in seguito alla quarta crociata data la loro importanza mercantile e da greci autoctoni, nonché fornisce dati interessanti sulle attività commerciali che ivi si svolgevano. Nella città di Corone la maggior parte della popolazione aveva origini veneziane e greche, ma anche di varie parti d’Italia il Longo, attraverso i documenti da lui redatti nel 1293, ci fornisce un interessante panorama della popolazione ivi presente: genti dal Veneto, Vivianus di Bassano, Laurencius di Verona, dall’Emilia, Leonardus de Mantua habitator Corone, originario della Lombardia, Marcus de Pavia, Paxetus de Cremona, dalla Marca Anconetana, Gabriel de Firmo et nunc habitator di Corone, Francisccus Anconitanus, e dalla Puglia Madius de Monopoli e Pascalis de Lila de Berleto e ancora molta gente dell’Emilia19.

L’elemento veneziano deteneva il ruolo di custode del diritto e della sua applicazione, per il semplice ed ovvio motivo che lo esercitava; l’elemento greco e greco albanese fuori dalle mura, invece, risultava indispensabile per Venezia poiché numericamente forte, ma soprattutto fondamentale per il suo ruolo economico, essendo la produzione agricola dipendente unicamente dalla manodopera autoctona. L’ostacolo ad una coesione sociale non nasceva solamente dalla differenza etnica, dalle difformità linguistiche o di tradizioni, né dalla rigida estromissione dai quadri giuridici-amministrativi dei locali, ma risiedeva soprattutto nella tradizione religiosa: benché una delle caratteristiche principali della politica del Comune fosse quella di una grande tolleranza in materia religiosa, nondimeno aveva sottomesso i vescovi greci ortodossi all’autorità della chiesa romana; gli autoctoni, di qualunque condizione sociale fossero arconti, proprietari terrieri, o pariokoi, contadini dipendenti, erano umiliati e disturbati nelle loro pratiche religiose dall’istituzione del doppio culto simultaneo nelle chiese di Romània, sottomesse all’autorità veneta20.

Nonostante gli arconti greci ed albanesi eguagliassero sul piano sociale i feudatari veneziani, continuavano a rimanere dei soggetti esclusi dai consigli locali, dall’arruolamento nell’esercito, salvo casi eccezionali, e dalla pratica del commercio. Relegati, pertanto, nei loro possedimenti, costoro si ritrovavano estromessi dal settore più redditizio, quello appunto del traffico marittimo. La coesistenza delle due comunità era, dunque, messa a dura prova dalle disuguaglianze sociali, giuridiche, economiche e religiose. Venezia, orientando le sue preoccupazioni e attenzioni soprattutto verso lo sfruttamento agricolo e la gestione dei lavoranti nelle terre dei feudatari, affidava, lasciava nelle mani della classe possidente il disciplinamento di tutti quei problemi che apparivano di minor importanza21.

Ancora il notaio Pasquale Longo fornisce ulteriori dettagli sulla vita nel regimen Coroni et Mothoni, questa volta riguardanti i contadini servi: molti di loro erano πάριοκοι e cioè villani del Comune, discendenti dai contadini statali o, forse, anche da quelli appartenenti ad istituzioni ecclesiastiche o private e successivamente divenute proprietà dello stato veneziano; tra costoro figuravano anche persone straniere, albanesi, valachi  originariamente libere, che, trasferitesi in queste colonie veneziane, proprio per questo erano divenuti villani statali. I contadini possedevano dei patrimoni personali dei quali, però, non potevano disporre liberamente22.

Inoltre l’attivita primaria della città era il commercio e gli unici che potevano esercitare tale attività erano i cittadini veneziani. Dalle carte d del Longo risultavano essere tutti cittadini della madrepatria. Gli intestatari dei documenti del Longo sono tutti veneziani quali Pietro Lando di Santi Apostoli, Marco Marignoni di Santa Maria Formosa, Francesco Longo di San Tomà, Andrea Aurio di Santa Trinità, Donato Venier di San Giovanni, Bonaventura da Ponte di Santa Marina e Sebastiano Pizolano di Sant’Angelo. Compare solo un abitante di Corone, Francesco Foranno, che nel 1289 ricevette 1010 iperperi dal veneziano Tommaso Zulian della parrocchia di San Zulian.23

Il distretto di Corone comprendeva una quarantina di villaggi abitati da albanesi dislocati sulle adiacenti colline, ricche di piante di ulivo; ma tale abbondanza, secondo il rettore, rendeva la parte poco amena, «perché questi ingombrano tutto il distretto». Dalle parole del Donà, sembra che anche i distretti circondanti Corone, in precedenza interamente abitati dai Turchi, giacessero in stato di parziale abbandono; la loro terra invece era feconda e ubertosa: «nel territorio però quantunque quasi tutto montuoso abbondano le biade, i vini, le sete ed ogni altro bene che la produce la terra». Il provveditore, oltre a fornire un dettagliato resoconto delle località adiacenti a Corone e dei loro prodotti, correda la sua relazione di giudizi sulla popolazione locale: li descrive sostanzialmente come «gente dal pigrissimo istinto», poco operosi, poiché lasciano in stato di abbandono questi luoghi. Non risparmia aspri commenti nemmeno sulla loro fede: devotissimi nei confronti di monaci e sacerdoti, ma di una devozione che li spinge più «a proveder male, che bene»24.

In sostanza l’affermazione del Rodotà: “Qui vennero a cercare asilo ed a stabilire la loro mansione molte famiglie dell’Albania nella comune desolazione della provincia; amando di serbar colla la religione la vita, e persuase d’essere trattate da un principe cattolico cò sentimenti di tenerezza e di stima.”, rispetto alle fonti documentate sopracitate, non può ritenersi valida storicamente, ma solo rispecchiante la diffusione della produzione romanzesca del XVIII secolo.

Qualcuno, oltre al Masi ha voluto ritenere come cavaliere coroneo anche Lazzaro Mathes , non sapendo che il Mathes ebbe dei privilegi, da rivedere, solo 30 anni prima della diaspora coronea in Napoli e a Lipari. Tutt’oggi non sappiamo se costui fosse albanese o addirittura ebreo. Inoltre lo stesso Mathes non appare in nessuno degli elenchi degli stradioti riportati alla luce dal Sathas.

Todos caballeros? No! Tutti coronei invincibili ed eroici? No! I coronei non erano albanesi e non erano invincibili ed eroi, essi erano semplicemente commercianti ed artigiani provenienti da Venezia e da altre parti d’Italia.

Nel 1750 Celani scriveva riguardo i presunti coronei di Barile: “Gloriae fuit bene tolerata paupertas.”25

Essendo un forte assertore della Greco Albanesità degli Arberesh d’Italia, il cui idioma inconfondibile è l’Arberisht, ritengo sia necessario riporre nell’erebo le falsificazioni e tutto ciò che crea il mito. Siamo stati e lo siamo:  un Popolo colto, che giunto sui lidi italiani ha  destato inestimabile ammirazione.







Fonti

1.(I. K. Hassiotis, Sull’organizzazione, incorporazione sociale e ideologica politica dei Greci di Napoli pag.326.

2. Matteo MANDALÀ, Mundus vult decipi. Mirror 2007. p. 179.

3. P. P. Rodotà pag. 57 e Angelo Zavarroni, Il Collegio Corsini di San Benedetto Ullano ed. Brenner Cosenza 2001.

4.  I.K. Hassiotis o.c pag.424; Vecchio Archivio ff. 24r- 24v, 28r -28v, Principali documenti pp. 19, 28, 29.

5. Lo stato feudale dei Caracciolo di Torella. Poteri istituzionali e rapporti economico sociali nel Mezzogiorno d’Italia. Maria Pina Cancelliere, Università di Salerno 2010.

6.  D. Cassiano. San Adriano- La Badia e il Collegio italo albanese Vol. II. pag. 94. Ed. Marco. Castrovillari 1997.

7. Artemis LEONTIS, «Mediterranean Topographies before Balkanization: On Greek Diaspora, Emporion, and Revolution», cit., p. 181.- Angela Falcetta, Ortodossi nel Mediterraneo cattolico: Comunità di rito greco nell’Italia del Settecento, Università degli Studi diPadovpag.224). –

8 I. K. Hassiotis, Sull’organizzazione, incorporazione sociale ed ideologia politica dei Greci a Napoli (dal XV alla metà del XIX secolo. Napoli 1981.

8.  Archivio General de Simancas, Estado, Napoles, Legajo 1024, f. 11 (II). Relazione per Carlo V, Naploi 1536.

9.  G. Varriale. Un covo di spie: il quartiere greco di Napoli in Identità e frontiere. Politica, economia e società nel Mediterraneo ( secc. XIV – XVIII), a cura di Lluis Guia Marìn, Maria Grazia Rosaria Mele, Gianfranco Tore. Regione Autonoma della Sardegna 2014.

10. (Hassiotis o.c. pag. 212).

11. Galeatorum vero equitum numerus , et pileatorum Epirotici generis levioris armaturae, qui erant peltati, quingentum summam implebat. His praeerat Nicolaus Masius è Nauplio Peloponnesiaco vir egregie fortis, cui Polledro Epirotica lingua cognomen fuit - Paolo Giovio Historia libro 19.

12.  Pietro Pompilio Rodotà, Dell’Origine progresso, e stato presente del Rito Greco in Italia. Libro III, Cap. III pag. 54. G. G. Salomoni Roma MDCCLXIII.

13. K. Sathas Documents inèdits relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen Age,  Vol. IV pag. 227.

14. Relazione del provveditore Filippo Donà del XVII secolo, conservata in Archivio di Stato di Venezia, Collegio, Relazioni di ambasciatori e altre cariche, b. 68.

15. ( Ardian Muhaj in Basilikos in Rivista di Studi Storici-Umanistici. Le origini economiche e demografiche degli Arberesh in Italia dal medioevo alla prima età moderna).

16.  ASV Reg°. 45, 1400 – 1401, c. 139 t°. e K. Sathas Documents inèdits relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen Age,  Vo.II pag. 96.

17. K. Sathas, Documents inédits relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen Age, Vol  I, Paris 1880, n. 90, p. 151, 30 agosto 1423.

18.  K. Sathas o.c. VII, n. 96, p. 47, 31 ottobre 1489.

19. A. Lombardo. Pasquale Longo, notaio in Corone 1289-1293. Deputazione di Storia Patria per le Venezie 1951 pag. 48 – Fonti notarili.

20. A.CARILE, Una lista toponomastica di Morea del 1469, in «Studi Veneziani», XIV (1972) pp. 385-404. Si vedano anche gli studi di G. ORTALLI, Venezia e Creta: atti del convegno internazionale di studi Iraklion-Chaniaà, Venezia 1998 e di S. BORSARI, Il dominio veneziano a Creta nel XII secolo, Napoli 1963.

21. Giulia Giamboni, L’amministrazione Veneziana di Corone e Modone ( secoli XIII e XV) Il regimen Coroni Methoni,  pag. 46. Università Cà Foscari Venezia 2012.

22. Lombardo, Longo o.c., pag, 306.

23. Lombardo, Pasquale Longo o.c., pag. 105.

24. Relazione del provveditore Filippo Donà del XVII secolo, conservata in ASVe, Collegio, Relazioni di ambasciatori e altre cariche, b. 86

25. G. Celani. Allegazione per i nobili Coronei di Barile contro l’Università di essa.Napoli 1750 pag. XLIX.
























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