sabato 26 ottobre 2019

Le origini economiche e demografiche dell’insediamento degli arbëreshe in Italia. Dal medioevo alla prima età moderna


di Ardian Muhaj
Centre of Albanological Studies
Insitute of History -Tirana.
Universidade de Lisboa

I tempi e i modi che caratterizzarono la migrazione albanese in Italia sono stati oggetto di riflessione da parte di numerosi studiosi italo-albanesi. La circolazione di merci, idee e uomini tra le due sponde dell’Adriatico ebbe inizio fin dal momento in cui gli abitanti delle due sponde poterono costruire le prime primitive imbarcazioni capaci di affrontare la traversata di quello spazio talassico. Se dunque volessimo porre in termini più definiti la domanda su quando gli albanesi hanno cominciato a emigrare verso la sponda italica, dovremmo comunque fare i conti con un ventaglio di risposte alquanto ampio. Gli studiosi, infatti, non sono riusciti a determinare un preciso inizio cronologico per la prima presenza albanese in Italia meridionale2. Dunque, è necessario distinguere la migrazione degli albanesi dalla migrazione dall’Albania. Essi fanno capolino per la prima volta in documenti storici soltanto alla fine dell’XI secolo, mentre per quanto concerne la geografia dei loro domini «le prime notizie storiche sull’Albania medievale riguardano il tronco centrale dei paesi albanesi compreso grosso modo fra i corsi del Drini e di Shkumbini»3. I contatti commerciali stabiliti con l’Albania non comportarono necessariamente il contatto con gli albanesi: nel XIII secolo la popolazione di porti quali Durazzo, Valona o Alessio rimaneva in gran parte di origine greco-romana, e quando in essa troviamo tracce di residenti albanesi esse riguardano prevalentemente soggetti di appartenenza aristocratica, categoria che non rientrava tra quelle più orientate a emigrare. Nonostante ciò, possiamo comunque ipotizzare che la migrazione dall’Albania sia molto più antica. Per esempio, una delle ipotesi oggetto di studio storiografico vuole che gli Armeni documentati sin dall’IX secolo nel sud della penisola possano in realtà essere “Arbeni” (Αρβανοί, Arbanenses), ossia albanesi4. Quindi, se si considera il prodursi delle condizioni materiali (nonché politiche) affinché quel tipo di emigrazione potesse aver luogo, appare plausibile l’ipotesi secondo cui gli albanesi cominciarono a emigrare nel Mezzogiorno durante il ripristino del potere bizantino in Calabria. Dopo tale evento, e fino alla fine del secolo XV, non si produssero più le condizioni per dare inizio a una migrazione di massa verso l’Italia. Infatti nel corso del secolo XII Bisanzio si distanzia dal sud della penisola italica, per poi cadere sotto dominio occidentale nel corso del Duecento. Le missioni angioine nell’Albania centrale tra 1270 e 1370 non vanno però oltre una dimensione di estemporaneità. Gli ostaggi politici albanesi (in numero esiguo) che gli angioini trasportarono sulle sponde italiane non si possono ascrivere in qualsivoglia storia di migrazione5. La medesima situazione permane fino alla fine del secolo XV. Dopo la caduta dello Stato di Dushan, i baroni locali albanesi non furono in grado di solcare il mare, mentre l’Adriatico si transformava in un “lago” veneziano (secoli XIV e XV). Per lo più a partire dalla fine del XIV secolo e durante tutto il XV, Venezia si impadronì anche del litorale albanese. Questo punto è molto importante per capire quanto leggera (quando non veritiera) sia l’argomentazione che vuole far partire la migrazione albanese già nel XV secolo. Perché è proprio in questa centuria che gli albanesi non hanno accesso non solo al mare Adriatico, ma nemmeno al litorale della odierna Albania. Anche se gruppi di albanesi si sono diretti in Italia nel corso del Cento e del Duecento – quando i poteri normanno e angioino cercarono di mantenere le sponde dell’Adriatico sotto il loro dominio – questa migrazione non assunse le proporzioni che ebbe a partire dalla metà del secolo XIV. È necessario evidenziare, infatti, come il maggior spostamento migratorio nella storia antica del popolo albanese avvenga proprio nel corso del Trecento. La causa principale di questa grande ondata migratoria – così grande da aver indotto molti storici a sostenere, erroneamente, che gli albanesi nel Medioevo fossero un popolo nomade – fu la peste nera. Le maggiori conseguenze della pestilenza si verificarono nei porti e nelle aree urbane, spazi interconnessi dai movimenti migratori. Nel corso dei secoli, gli albanesi si sono distribuiti su un’area di continuità geografica che va dalle Alpi albanesi fino a Corfù. Ma mentre nelle aree interne e montagnose di questa zona erano padroni indiscussi, nelle zone costiere (che vanno da Dulcigno e Scutari a Durazzo e Valona) viveva una popolazione romanizzata o ellenizzata. Il terremoto del 1273 e la peste nera del 1348 crearono un tale calo demografico nelle città costiere dell’Albania e della Grecia nord-occidentale da indurre gli albanesi residenti nell’interno montagnoso ad aggiungere la loro presenza e il loro peso demografico in quei luoghi, determinando così una “apertura dell’Albania”6. Ed è sulla base di queste migrazioni interne che quelle precedenti verso l’Italia non vanno ascritte agli albanesi, bensì alla popolazione costiera che, come abbiamo detto, era di diversa origine. Dunque, è solamente a partire dalla seconda metà del XIII secolo – cioè quando gli albanesi cominciano a scendere dalle montagne verso le coste adriatiche e ioniche – che si può parlare di inizio dell’emigrazione albanese in Italia. A partire dai primi anni del XIV secolo, la popolazione albanese delle città andò incontro a una crescita costante7. È in quel periodo storico che la Tessaglia diviene la prima provincia greca a essere toccata dalla migrazione albanese. A essa seguirono la Morea, la Beozia e l’Attica. Documenti risalenti alla metà di quel secolo fanno invece riferimento a un flusso continuo di migranti verso l’Italia, alimentato dalla necessità economica delle città italiane di forza lavoro dall’Adriatico orientale, molto meno colpito dalle epidemie che imperversavano in quell’epoca nello spazio europeo. Molti di quegli albanesi erano di ceto servile, oppure schiavi (aspetto maggiormente riscontrabile nella seconda metà del secolo XIV). Le dispute tra città italiane, come quella tra Ancona e Venezia alla fine del Trecento – quando una nave che trasportava un centinaio di albanesi diretti a Venezia fu costretta a scaricarli a Pesaro – e le successive petizioni delle autorità veneziane, mostrano la portata del fenomeno8. Ma questi casi specifici, così come questa tipologia migratoria, riveste scarsa importanza per il tema oggetto di studio in questo articolo, perché questi migranti (spesso schiavi) assimilavano rapidamente gli usi e costumi delle società di accoglienza, senza lasciare tracce importanti e durevoli nella società della cultura di cui erano portatori. Quando Venezia si impadronì del litorale settentrionale albanese cercò di porre fine alla tratta degli schiavi, prendendo misure costanti utili al contrasto dell’impoverimento generale e, in particolare, dell’abbandono dei terreni agricoli9. Non aveva dunque interesse a incoraggiare l’emigrazione verso le coste italiane. In Eubea, gli albanesi giunti dal Ducato di Atene10 non ebbero un atteggiamento conflittuale nei confronti di Venezia. Ma il loro insediamento nella Morea non fu certo facile. Dall’inizio del XV secolo, infatti, rappresentavano un pericolo per Corone e Modone11, tanto che a partire dal 1423 l’ingresso degli albanesi in questi porti strategici per il controllo marittimo veneziano è limitato a gruppi che non superassero le dieci unità12. Per i veneziani rappresentavano dunque una componente avversa, e tali rimarranno anche in seguito, come si apprende dai testi che il Senato formula contro di loro ancora una volta nel 1489 13. Inoltre (e contrariamente a quanto si potrebbe pensare) Venezia non manifestò mai interesse a reclutare soldati albanesi, in una fase successiva a quella a cui abbiamo fatto riferimento. Questa posizione ostile da parte della Serenissima era destinata a mutare – specialmente in Morea – al momento dell’invasione turca, quando gli accadimenti dimostrano una riconciliazione tra le comunità albanesi e il potere veneziano. Un testo del 1466 mostra però come, nonostante il cambio di orientamento, il reclutamento di soldati albanesi e greci continuasse a costituire una extrema ratio, come nel caso del governatore di Lepanto, che a essi ricorse solo a fronte delle numerose perdite tra le truppe veneziane14. In sintesi, la politica di Venezia nei confronti degli albanesi si adattava a quelle che erano le specifiche situazioni territoriali, non esitando a vietare a Corfù quello che, per esempio, incoraggiava in Morea15. Quello che è certo è che essa non ebbe mai intenzione, prima della fine del XV secolo, di utilizzarli ai fini di una colonizzazione militare. Come ha evidenziato Matteo Mandalà, la narrativa storiografica antica sugli insediamenti albanesi nel Mezzogiorno italiano e nella Sicilia rimane poco affidabile, in quanto in quella tradizione vi era una forte tendenza alla falsificazione. Il sospetto che la tradizione storiografica arbëreshe fosse compromessa da falsificazioni era abbastanza diffuso, ma è soltanto negli ultimi anni che esso si è trasformato in certezza16. Questo si deve soprattutto al contributo di studiosi di grande merito scientifico come il sopracitato Mandalà, Francesco Giunta e Paolo Petta. Il primo dato certo sulla presenza di insediamenti albanesi in Italia è quello del 1482, anno che segna l’approvazione dei più antichi capitoli di una colonia greco albanese, quella di Palazzo Adriano. Dopodiché l’altro unico documento attestante con certezza un insediamento albanese in Italia meridionale nel XV è rappresentato da quello del capitolo di Biancavilla del 1488 17. Quindi è evidente come tutta la tradizione storiografica che collocava l’origine dei primi insediamenti prima del 1482 (data della fondazione di Palazzo Adriano) sia risultata falsa, in quanto basata su documenti non coevi, ma prodotti solamente nel XVII secolo. In particolare, si deve a Francesco Giunta la conclusione secondo la quale i due documenti che facevano risalire le origini di alcune famiglie italo-albanesi al 1467 (da consanguinei di Giorgio Castriota Skanderbeg) risultavano contraffatti. Dopo aver cercato – senza esito – nell’archivio della Corona d’Aragona due documenti datati a Barcellona nel 1467, e già pubblicati da Giuseppe Schirò18, Giunta ha avuto modo di affermare che, in realtà, in quel fondo quei documenti non esistevano. Questo perché, secondo la sua opinione, quegli atti erano sì stati fabbricati in Sicilia, ma il falsificatore non aveva tenuto conto delle burrascose vicende che caratterizzarono il regno di Giovanni II d’Aragona, dal momento che egli entrò in quella città solamente dopo il 1472 19.
Di quelle scritture mendaci si è occupato anche Matteo Mandalà, il quale ha sottolineato come esse abbiano «un’importanza capitale perché hanno costituito alcuni dei capisaldi più incrollabili della storiografia arbëreshe»20. Quei falsi, nel tempo divenuti – al pari di altri documenti – sacre reliquie della storiografia arbëreshe, «per ben due secoli sin dal primo storico arbëresh Pietro Pompilio Rodotà, che non a caso tra gli albanesi giunti in Italia ricordò quelli che vi “vennero l’anno 1467 in cui finì la vita il loro príncipe”21, furono continuamente menzionati a sostegno di un’impostazione storiografica che tentava di costruire un mito delle origini storiche delle comunità albanesi d’Italia. L’operazione, sarebbe superfluo precisarlo, ebbe successo»22. Altrettanto infondata è l’affermazione secondo cui nelle colonie italo-albanesi si sarebbero distribuiti i discendenti delle famiglie che avevano governato, prima della conquista turca, le varie regioni dell’Albania 23. Secondo questa tradizione storiografica costruita ad hoc, le prime massicce emigrazioni cominciarono verso il 1448, quando Alfonso d’Aragona chiamò in soccorso alcune colonie militari albanesi guidate da Demetrio Reres per far fronte agli angioini che tentavano di riconquistare il Regno24. Pochi anni dopo, altri vi furono condotti da Skanderbeg, a sostegno del successore di Alfonso, suo figlio Ferrante. Di conseguenza «è proprio verso la metà del XV secolo che può datarsi un vero e proprio stanziamento albanese in Italia meridionale»25. Secondo questa narrativa in quell’occasione un buon numero di soldati si stanziò in varie parti della Calabria, ripopolando così parecchi casali26. Ma la verità è che nessuno seppe mai dimostrare dove, di preciso, quel “buon numero di soldati” mise radici. La questione si palesa in tutta la sua complessità nel momento in cui ci si rende conto che questa narrazione si è basata su una serie di documenti non veritieri la cui autenticità, però, «da duecento anni costituisce quasi un atto di fede per gli italoalbanesi»27, costituendo una tradizione storiografica che ha di fatto contaminato non solo la storiografia arbëreshe, ma anche quella albanese, sia in Albania che in Kosovo. Vari infatti sono i casi speculari a quelli della storiografia arbëreshe 28, dove un numero corposo di studiosi ha rilanciato nei propri lavori determinate tesi, perpetuando in questo modo gli errori dei loro predecessori 29. La tendenza a costruire dei miti sull’Albania medievale condusse spesso gli storici a distorcerne geografia e demografia. Per esempio, si arrivò a utilizzare, indifferentemente e in maniera equivalente, il Peloponneso greco (ove si trova la citata regione della Morea) e l’Albania. Oppure a presentare quest’ultima come un territorio ampio e densamente popolato30, mentre in realtà l’Albania di Skanderbeg, nella sua estensione massima, non arrivò a superare di un quarto la nazione odierna (e senza contare il Kosovo e altri territori abitati da popolazione di origine albanese). Era difatti una regione priva di qualsiasi accesso sull’Adriatico, che non annoverava tra i suoi possedimenti città di primo piano quali, da un lato, Scutari, Dulcigno – oggi in Montenegro – Alessio, Durazzo (all’epoca sotto controllo veneziano) e dall’altro Valona, Argirocastro, Berat, Ohrid (sotto controllo ottomano). Rispetto a queste due “Albanie” coeve (quella veneziana e quella ottomana), l’Albania di Skanderbeg rappresentava sicuramente la parte economicamente più povera, meno popolata e più sterile sotto un punto di vista agricolo, dal momento che era prevalentemente montagnosa. Molto lontana dunque dalla parte veneta, più ricca e importante, che comprendeva i centri urbani più dinamici e le maggiori superfici adibite a coltura. Infine, dopo la morte di Skanderbeg, Kruja (Croia), l’unico centro urbano di una relativa importanza, viene inglobato nell’Albania veneta31. Le distorsioni interpretative che abbiamo presentato fino a questo punto trasformarono il discorso storiografico in una narrazione più vicina al genere letterario, romanzesco (con grandi imprecisioni storiche), in cui l’autorità del reale – determinata da una corretta analisi delle fonti – veniva soppiantata dall’autorità dell’enunciato. A nostro parere, non vi è dubbio sul fatto che sia la campagna antiottomana intrapresa da Skanderbeg, sia la sua morte nel 1468 non ebbero alcuna influenza sulla migrazione albanese in Italia32. Si tratta di una narrativa “mitizzata” di una migrazione epico-eroica, di genti che resistevano all’invasione turca proteggendo l’Europa intera per poi giungere in aiuto dei sovrani aragonesi nella lotta contro i loro nemici, che fossero gli angioini o i baroni locali. La storia si trasforma così in favola, e con essa anche la geografia dei luoghi, fondati dai soldati del valoroso condottiero33. Dunque, il tema dell’emigrazione e dell’insediamento delle comunità arbëreshe in Italia è stato storiograficamente dipanato mediante il vecchio approccio che pone una forte enfasi su eventi drammatici della storia, proprio come se non ci fosse storia al di là di questi grandi eventi. Non è sufficiente vincolare le migrazioni degli albanesi ad avvenimenti ben noti e documentati come la caduta di Corone nel 1532 34 o la caduta di Scutari nel 1479. Infatti, dopo la caduta di quest’ultima città in mano ottomana la sua popolazione fu evacuata verso Venezia, secondo le disposizioni previste dall’accordo di pace tra la Serenissima e gli ottomani. Ma gli scutarini emigrati a Venezia si integrarono con una certa facilità nella società italiana, tanto che già nel XVI secolo ne erano stati pienamente assimilati. Tale processo fu favorito dalle condizioni di partenza di molti di loro, in quanto cattolici e latinofoni prima della loro migrazione verso la penisola italica. Al contrario, con la caduta di Corone e di altri luoghi del Peloponneso, si produssero condizioni diverse che aiutarono i greco-albanesi a mantenere l’identità per secoli, e che possiamo sintetizzare in una doppia dinamica: una di distinzione (religiosa) e un’altra di continuità (migratoria)35. Nel corso del XVI secolo, la presenza asburgica nell’Italia meridionale e gli interessi di quella corona nelle isole dello Ionio e del Peloponneso contribuirono a mantenere una corrente continua di comunicazione e scambio tra le due sponde di quel mare36. Venne dunque a prendere forma un vincolo permanente con l’antica patria che, per il suo carattere unidirezionale, contribuiva a rinforzare la comunità con nuovi elementi37.



Nel caso degli italo-albanesi si assistette a un fenomeno particolare e complesso: una diaspora nella diaspora, ossia di albanesi emigrati prima in Morea e Grecia durante i secoli XIV-XV, e successivamente passati in Italia. L’origine degli arbëreshë è la Morea, il Peloponneso e non l’Albania; dunque gli italo-albanesi non possono essere altro che greco-albanesi38. La tesi secondo la quale essi sarebbero originari dell’Albania odierna è un’invenzione romantica che non trova conferma né nella memoria storica degli arbëreshë e nemmeno nella documentazione coeva39. Solo il dominio spagnolo-asburgico poteva creare le condizioni politiche per la migrazione e l’insediamento delle colonie albanesi. Come detto, la loro presenza e i loro interessi sia nel Sud Italia che nel Peloponneso disegnavano un’area di continuità dotata di importanza strategica. Non esiste esempio migliore per illustrare ciò del caso dell’evacuazione di Corone, una città veneziana i cui abitanti furono meglio accolti dagli spagnoli che dagli stessi veneziani. Il contingente demografico più importante nella storia degli insediamenti degli albanesi in Italia fu costituito dagli stradioti. All’epoca del dominio spagnolo Napoli reclutò numerosi stradioti nel tardo XV inizio XVI secolo, che furono innanzitutto impiegati dalla Spagna nella spedizione italiana di Gonzalo Fernández de Córdoba (“Gran Capitan”)40. La maggior parte di essi non proveniva dall’Albania, ma dai domini veneziani in Grecia meridionale e centrale, vale a dire la Malvasia (Monemvasia), Modone, Corone, Napoli di Romagna (Nauplion), Mani e Lepanto (Naupaktos)41. Alla fine del Quattrocento alcune compagnie di stradioti si trasferirono sulle isole ionie sotto controllo di Venezia (quali Corfù, Cefalonia e Zante)42. Successivamente, altri stradioti furono inviati sul confine veneto-ottomano, in Friuli, e nelle fortezze dalmate di Sebenico, Spalato, Zara e Bocche di Cattaro43. Un importante fattore nel diffuso impiego di stradioti da parte prima della Repubblica di Venezia, e poi di altri Stati (in particolare quelli sotto dominio asburgico), era quello economico. La retribuzione degli stradioti era infatti più bassa rispetto a quella di altri soldati reclutati44. Tra gli ultimi due decenni del XV secolo e l’inizio del XVI Venezia era la potenza che più necessitava dell’apporto militare degli stradioti. Ma dopo la caduta di Durazzo nel 1501 e l’accordo con gli ottomani, gli stradioti divennero non più utili per Venezia, vedendosi nella necessità di procurare “nuovo impiego” da altre parti. La scelta ricadde con una certa ovvietà sulla corona spagnola. Infatti, se da un lato è vero che fu Venezia a introdurre gli stradioti in Italia, dall’altro la Spagna imperiale rientrava facilmente nel loro orizzonte, per la vicinanza geografica e per le immense opportunità che il suo impero lasciava scorgere. Gli stradioti non erano mercenari in senso stretto, bensì rifugiati che mantenevano sé stessi e le loro famiglie in esilio mediante l’abilità nell’utilizzo delle armi. Erano soldati di ventura seguiti ovunque da mogli, bambini e preti, e durante le guerre di religione tentarono anche di emigrare verso le regioni del Nord, quali i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Francia. Si è stimato che il numero di stradioti albanesi e greci che si stabilì nei territori veneziani e in Italia raggiunse il numero di 4.500, che arriva a circa 15.500 se nel conteggio si includono i membri delle loro famiglie. Se si considerano anche quelli stabiliti in Italia meridionale e in Sicilia, la cifra si avvicina alle 25.000 unità45. Lo studio dei nomi non indica affatto che la maggior parte di loro giunse direttamente dall’Albania, come affermato da alcuni autori. Tra i francesi erano conosciuti come estradiots e Argoulets perché pare che un numero significativo di truppe al servizio dei francesi era originario di Nauplia, nei pressi dell’antica città greca di Argos46. Nel 1538, dopo che i veneziani ebbero abbandonato Corone, il governo spagnolo insediato a Napoli (vicereame) accolse molti rifugiati provenienti da quella città del Peloponneso e dalle sue vicinanze. La corona spagnola continuò a impiegare stradioti nel XVII secolo, soprattutto nella città partenopea47. Il reclutamento e il mantenimento di truppe stradiote proseguì, come accennato, fino agli inizi del secolo XVIII. Una forza balcanica di stradioti ha servito il Regno delle Due Sicilie tra 1735 e il 1820 48. Avviandoci verso le conclusioni, è importante ribadire come l’emigrazione dall’Albania verso l’Italia abbia avuto inizio secoli prima del tempo di Skanderbeg, la cui figura è servita per la costruzione di un’origine eroica, epica di tale migrazione, così come avvenuto per altre diaspore nel corso della storia. La migrazione arbëreshe non raggiunge il suo apice nel corso del Quattrocento, bensì nel XVI secolo.Già nel XVII secolo i primi intellettuali arbëreshë hanno potuto utilizzare il mito di Skanderbeg, in forma definita49. Esso è stato costruito durante il secolo precedente, secondo la narrativa di Barleti, della cui maestria letteraria non furono vittime i soli italo-albanesi50. Non furono certo essi a costruire il mito di Skanderbeg; semplicemente, vincolarono le loro origini alla narrazione più consistente e ben nota del loro tempo, seguendo la logica dell’epoca più che i fatti storici, linguistici o geografici. È così che si è creata una “simbiosi di miti”, tra quello di Skanderbeg elaborato da Barleti e quello degli arbëreshë arrivati in Italia dall’Albania di Skanderbeg. La loro credibilità in quanto miti non discendeva direttamente dalla storia che essi narravano, quanto dal fatto che erano stati abilmente collegati alla figura e alla gesta di Giorgio Castriota Skanderbeg, vero e proprio elemento mitopoietico della storiografia arbëreshe, utile ad alimentare una migrazione immaginaria della provenienza degli italo-albanesi che nega di fatto il legame (reale) con la regione della Morea51. Della zona di dominio di Skanderbeg non si documenta alcun movimento migratorio. I territori di Skanderbeg compresero le aree montagnose di Kruja (Croia), Mati, Dibra e Çermenika. L’unica parte dove Skanderbeg poteva accedere al litorale Adriatico era il capo Rodoni e forse lo sbocco di Ishmi, punti litorali senza importanza e non atti a sviluppare qualsiasi infrastruttura portuale. Al contrario aree quali le città veneziane (Scutari, Durazzo, Alessio e Dulcigno) fornirono il più importante contingente di emigrati albanesi, specialmente dopo la caduta di Scutari e Alessio sotto dominio ottomano. Essi però si recarono nel Veneto e non nel Mezzogiorno. A metà del XV secolo gli albanesi a Venezia erano organizzati in associazioni o confraternite al pari delle altre comunità residenti nella città lagunare, finendo però per assimilarsi ben presto alla popolazione veneta52. Anche la conservazione del rito greco è utilissima a definire la loro provenienza geografica. Gli arbëreshë rimasero sotto il Patriarcato di Ocrida fino alla metà del XVI secolo, allorquando, con la Controriforma, furono sottoposti alla giurisdizione delle diocesi latine. Quando si afferma che le colonie italo-albanesi dell’Italia meridionale si formarono dopo il 1468 (anno della morte di Giorgio Castriota Skanderbeg), a seguito della migrazione di popolazione dalla parte meridionale del territorio albanese per sfuggire all’avanzata ottomana, non si deve dimenticare che la distribuzione geografica delle comunità arbëreshe mostra come la maggior parte degli insediamenti siano diffusi nell’Italia ionica, soprattutto in Sicilia, Calabria e Basilicata. Come abbiamo più volte sottolineato, l’origine di questi insediamenti non è l’Albania, ma la Morea o la Grecia ionica. Questa “diaspora della diaspora” conservò l’identità albanese per secoli, molto meglio degli albanesi che migrarono in Italia dalle sponde adriatiche dell’Albania. La documentazione dei secoli XIV e XV spiega questo sviluppo differente. Gli albanesi dell’Adriatico migrarono come forza lavoro, in molti casi servile, in età relativamente giovane, liberi o senza le loro famiglie, dunque più suscettibili all’assimilazione da parte della società italiana. Gli albanesi giunti dall’Albania ionica e dalla Grecia, migrando verso le sponde ioniche dell’Italia meridionale, poterono mantenere molto più facilmente i legami con la loro terra d’origine, mentre con altrettanta facilità si insediavano sui territori con i loro gruppi o le loro famiglie. Gli indicatori più immediati dell’identità culturale arbëreshe sono l’uso della parlata albanese e, come detto, la permanenza del rito greco53. L’illustrazione della specificità linguistica e culturale albanese affiora già nel Tesoro di notizie su de’ macedoni (1777) di Niccolò Chetta. Tale specificità è poi preminente nelle opere di altri autori, quali (e soprattutto) Girolamo De Rada. Le varietà italo-albanesi (arbëresh) sono parlate in circa 50 località, distribuite in Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia54. Gruppi albanofoni emigrati da queste comunità sono presenti in diverse città italiane, oltre che negli Stati Uniti, in Argentina e in Brasile. Nella geografia della lingua albanese si distinguono le varietà gheghe, parlate nell’Albania settentrionale, nel Kosovo e nella Macedonia, e le varietà tosche, parlate nelle zone meridionali; a queste si aggiungono le varietà albanesi parlate in Grecia e nell’Italia meridionale55. La base comune delle parlate italo-albanesi presenta somiglianze linguistiche tra il dialetto arbëresh d’Italia e quella degli Arvaniti della Grecia. Ambedue sono, sotto molteplici aspetti, affini al dialetto tosco dell’Albania meridionale56. La chiesa ortodossa ha aiutato le comunità arbëreshe a preservare la propria identità all’interno del cattolico Mezzogiorno italiano, evitando la loro italianizzazione. Lo stesso non è però successo nell’Italia settentrionale e nella Dalmazia. Gli stradioti hanno avuto un ruolo fondamentale nella fondazione di chiese greche, uniati od ortodosse a Venezia e a Napoli, così come in Dalmazia. In varie fonti storiche, gli stradioti furono chiamati “greci”. Questo perché continuava il processo di ellenizzazione degli stradioti albanesi, che ebbe luogo ancor prima della loro emigrazione in Italia57. Dunque, un elemento che ha reso possibile che all’interno di quella diaspora si preservasse la loro identità fu proprio il servizio militare reso sia in Italia sia in altri paesi europei, in quanto esso ha rallentato – e in alcuni casi invertito – quel processo di ellenizzazione. Per questo, anche se solo una piccola parte di albanesi della Grecia emigrarono in Italia, hanno mantenuto la loro identità più facilmente degli arvaniti rimasti in Grecia. A essi diamo il nome di arbëreshë.

2 F. Giunta, Albanesi in Sicilia, cur. M. Mandalà, Palermo 2003, p. 11. 3 P. Xhufi, Romanità e bizantinismo nell’Arbanon medievale. Giorgio Castriota Skanderbeg e l’identità nazionale albanese, Atti del Convegno internazionale di Studi Albanologici (Palermo-Santa Cristina Gela, 9-10 febbraio 2006), cur. M. Mandalà, Palermo 2009, pp. 283-284. Gran parte degli studiosi albanesi è convinta che l’attuale habitat degli albanesi sia il risultato di un continuo processo di contrazione, anziché di espansione. A. Buda, Problemes de l’histoire de l’Albanie, Actes du II Congres international des Etudes du sud-est europeen (Athens, 1972), t. I, pp. 90-92; E. Çabej, Vendbanimi i hershëm i shqiptarëve, in «Buletin i Universitetit te Tiranës, seria e Shk. Shoqërore», I, 1962, pp. 219-226; A. Ducellier, L’Arbanon et les Albanis au XI siècle, in «Travaux et memoires», III, 1968, pp. 355-356. 4 I bulgari presenti a Rimini nei secoli X e XI, di cui parla Guillou, sono certamente originari dell’Albania centrale, perché a quei tempi la colonizzazione bulgara si estendeva sull’Albania orientale e centrale (cfr. A. Guillou, Migration et présence slaves en Italie du VIe au XIe siècle, in «Recueil des travaux de l’Institut d’Etudes byzantines», 1973, 14/15, p. 12). Ma quando si afferma che l’imperatore bizantino Niceforo Foca (X secolo) abbia tradotto nelle zone riconquistate della Calabria gruppi di popolazione armena, a nostro parere si tratta in realtà di “Arbeni” (come detto in precedenza: albanesi). 5 Il riferimento è agli ostaggi politici deportati in Italia dai re angioini come garanzia politica. A tal proposito, si veda L. Thallóczy, C. Jirečec et E. Šufflay, Acta et diplomata res Albaniae mediae aetatis illustrantia, I, Vienna 1913, nos. 279, 280, 289, 333, 342, 354, 387, 392, 454, 473, 808.

6 «La participation d’Albanais à la vie économique, et encore bien plus, politique de l’Empire byzantin, est plus que problématique avant le XIIIe siècle»; A. Ducellier, Les Albanais a Venise aux XIVe et XVe siècles, in «Travaux et Mémoires», II, 1967, p. 405. 7 Si possono riscontrare numerosi esempi in Thallóczy, Jirečec et Šufflay, Acta et diplomata res Albaniae cit.8 Archivio Segreto Vaticano (d’ora in avanti asv), Senato. Misti, XI, 1, fl. 138v; G. Valentini, Acta Albaniae Veneta saeculorum XIV e XV, II, nr. 469, f. 116-117, 22 maggio 1391, Palermo-Munchen 1967. 9 asv, Senato. Misti, XLIII, fol. 145-145v, 11 agosto 1396; Ducellier, Les Albanais a Venise cit., p. 408. 10 W. Miller, Essays on the Latin Orient, Oxford 1908, p. 129 (garantia di Pedro IV); F. Gregorovius, Geschichte der Stadt Athen im Mittelalter, II, Stuttgart 1889, pp. 229, 303. 11 «Da Coron e Modon chomo infiniti Albanexi eser vegnudi a daniziar per fina soto i casteli dele parte de Modon, e robado molte aneme e menadonde via» (Codice Morosini, pp. 127-128). 12 «De non permittendo... dictos Albanenses intrare loca nostra Coroni et Mothoni cum personis ultra decem»; C. Sathas, Documents inédits relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen Age, I, Paris 1880, n. 90, p. 151, 30 agosto 1423. 13 «Committuntur quotidie per Stratiotas et Albanenses territorii Corense bannitos, indomitam et superbam nationem»; Sathas, Documents inédits cit., VII, n. 96, p. 47, 31 ottobre 1489. 14 «Multi ex illis stipendiariis nostris mortui sunt, et eorum loco remissi fuerunt Greci et Albanenses»; Senato Mar.
VIII, c. 69; Ivi, VII, n. 7, p. 4, 28 aprile 1466. 15 Dal 1473 la Serenissima funse da intermediario tra un gruppo di 10.000 greci e albanesi in Morea e a Zante e il vescovo locale, per favorirne l’insediamento in luoghi disabitati e il relativo trattamento quali sudditi di Venezia; Sathas, Documents inédits cit., I, n. 183, pp. 269-271, 8 giugno 1473. 16 M. Mandalà, Mundus vult decipi. I miti della storiografia arbëreshe, Palermo 2007, pp. 17-18. 17 G. La Mantia, I capitoli delle colonie Greco-Albanesi di Sicilia dei secoli XV e XVI, Palermo 1904, pp. 33, 38, 45; Mezzojuso 1501 e Contessa 1520. 18 G. Schirò, Gli Albanesi e la questione balcanica, Roma 1904, pp. 216-218. 19 F. Giunta, Non solo Medioevo. Dal mondo antico al contemporaneo, I, Palermo 1991, pp. 206-20720 Mandalà, Mundus vult decipi cit., p. 19. 21 P.P. Rodotà, Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, Roma 1763, p. 52. 22 Mandalà, Mundus vult decipi cit., p. 21. 23 Questa tesi ha trovato conforto in un’abbondante produzione di documenti, la cui falsità è abbastanza palese, e in base alla quale una serie di famiglie italo-albanesi hanno cercato di retrodatare il loro status nobiliare (cfr. P. Petta, Despoti d’Epiro e principi di Macedonia. Esuli albanesi nell’Italia del Risorgimento, Lecce 2000, pp. 16-17). 24 Pare che con Demetrio Reres si continui. «Contessa fu la più antica colonia siculo-albanese ad essere fondata nel 1448, e i suoi capitoli videro la luce solo nel 1520». F. Di Miceli, Condizione contadina di un comune Arbresh all’interno della Sicilia nei secoli XVI-XVII, Atti del Convegno internazionale di Studi Albanologici (Palermo-Santa Cristina Gela, 9-10 febbraio 2006), cur. M. Mandalà, Palermo 2009, p. 102. 25 M. Bolognari, Introduzione: Emigrazione, etnicità, identità, in La diaspora della diaspora. Viaggio alla ricerca degli Arbëreshë, cur. M. Bolognari, Pisa 1989, p. 17. 26 E. Tagliente, Le comunità cristiane albanesi nel tarentino dal Concilio di Trento al 1622, Taranto 1982, pp. 16-17. La stessa interpretazione è data anche da molti altri autori, tra cui: Rodotà, Dell’origine, progresso e stato del rito greco in Italia, cit., III; E. Pontieri, La Calabria a metà del secolo XV e le rivolte di Antonio Contelles, Napoli 1963. 27 P. Petta, Stradioti. Soldati albanesi in Italia (sec. XV-XIX), Lecce 1996, pp. 14-17. 28 Come succede nel caso di Ignazio Parrino (Da Crispi a Sturzo nella storia di Palazzo Adriano, Palermo-Palazzo Adriano 1995) che «è riuscito a ingannare un illustre storico come Ch. Duggan, inducendolo a scrivere che Palazzo Adriano “era stata fondata sul finire del Quattrocento da albanesi in fuga dai turchi” e la sua funzione “di carattere militare: contribuire a proteggere l’isola contro l’invasione”» (C. Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Bari 2000, pp. 4-5; Mandalà, Mundus vult decipi cit., p. 145). 29 T.P. Jochalas, Nomi e cognomi greci nelle comunità greco-albanese d’Italia, Atti del Congresso di Studi Arbëreshë, (Manheim 1987), p. 151. 30 Vedi per esempio R. Cessi, Un falso diploma di Lotario (839) ed il delta di S. Ilario, Atti e memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova, XXXVII, 1921, pp. 133-147; Alessio Sopracasa sui falsi del monastero veneziano dei Ss. Ilario e Benedetto (secc. IX-XIV), in «Storia di Venezia - Rivista», II, 2004, p. 129. 31 Skanderbeg morì ad Alessio (dove oggi si trova il suo mausoleo), allora parte dell’Albania veneta, il 17 gennaio del 1468. Dopo la sua morte, Venezia si impadronì di Croia, che era la capitale del territorio controllato dal Castriota. 32 Paolo Petta spiega come i Castriota e gli altri nobili albanesi non si erano inseriti nella comunità albanese, bensì nella corte napoletana. P. Petta, L’esodo dei Coronei. Una pagina della storia degli Italo-Albanesi, in «Incontri meridionali. Rivista quadrimestrale di storia e cultura», 1996, 1/3, p. 53

33 Come ricorda Matteo Mandalà, i luoghi di colonizzazione albanese in Italia «non potevano non essere stati fondati dai valorosi e vittoriosi soldati di Castriota. L’effetto giustificava la causa e questa il suo effetto» (Mandalà, Mundus vult decipi cit., p. 75). 34 Giunta, Albanesi in Sicilia, cit., p. 11. 35 La maggior parte di essi veniva reclutata dalla Serenissima nel Levante. Esiste anche notizia di arrivi spontanei, di gruppi di stradioti che venuti a conoscenza di guerre in corso partivano dal Levante a proprie spese, così come sappiamo di capi stradioti che in determinate situazioni arruolarono e portarono uomini in Italia a loro spese. Cfr. Petta, Stradioti. Soldati albanesi in Italia cit., pp. 43-44. 36 La migrazione albanese dalla Morea al Mezzogiorno italiano è un fenomeno continuo durante i secoli XVI e XVII, e sporadicamente anche nel XVIII. Tra il 1570 e il 1589 il loro numero aumenta con ritmo straordinario (quasi 10% in sole due decadi). Questo aumento non si può ricondurre alla crescita demografica senza tenere conto del fenomeno migratorio. Secondo Francesco Giunta, la consistenza numerica delle comunità albanesi andava dalle originarie 7.500 unità (circa) alle 8.234 del 1570, fino alle 8.958 del 1589 (cfr. Giunta, Albanesi in Sicilia, cit., p. 15). 37 «Nel regno di Napoli capitò anche che bande di stradioti congedati si trasformassero in predoni, intenti a battere le zone di campagna: non risulta invece che nulla di simile sia mai accaduto in Veneto» (Petta, Stradioti. Soldati albanesi in Italia cit., p. 61).

38 Jochalas, Nomi e cognomi greci cit., p. 152: «Che popolazioni albanesi, provenienti dalla Grecia e non dall’Albania si siano stabilite in Italia, ci è noto non solo dalla tradizione orale degli italo-albanesi o dalla presenza di molti toponimi greci nella loro poesia popolare [...] in cui il Peloponneso e non l’Albania viene ritenuta la loro vera patria». 39 Quando afferma che «ritengo che per Palazzo Adriano possa essere preso come termine post quem il 1468, l’anno della morte di Skanderbeg» (Giunti, Albanesi in Sicilia, cit., pp. 18-19), anche Giunta pare dimenticare che la morte di Skanderbeg non ebbe nessun impatto politico e demografico. Come ribadito in testo, la zona più importante dell’Albania sotto il profilo demografico non era affatto la zona controllata Skanderbeg, bensì quella dell’Albania veneziana. 40 In Calabria, Gonzalo Fernández poteva contare sull’apporto di duecento “estradiotes Griegos” (Historia del Rey Don Fernando el Catolico: De las empresas y ligas de Italia, libro V, p. 3; apud Petta, Stradioti. Soldati albanesi in Italia cit., p. 65). La Spagna, già nel 1496, arruolò ben 27 compagnie di stradioti. 41 N. Cheetham, Medieval Greece, New Haven 1981, pp. 195-207; M.E. Mallet, J.R. Hale, The Military organization of a Renaissance State, 2006, pp. 47, 50; cfr. anche P. Topping, Albanian Settlements in Medieval Greece: Some Venetian Testimonies, in Essays in Honor of Peter Charanis, cur. Angelike E. Laiou Thomadakis, New Brunswick, N.J. 1980, pp. 261-271. 42 K. Mpires, Oi Arvanites, oi Dorieis tou neoterou Hellenismou, Athens 1960, pp. 156-162; A. Vakalopoulos, Historia tou Neou Hellenismou, III, Thessalonike 1968, pp. 79-88. 43 Mallet, Hale, The Military organization of a Renaissance State, cit., p. 173. 44 Ivi, pp. 375-380, 447. A Venezia, un muratore guadagnava più di uno stradiota. Non a caso, gli stradioti «arrivavano dal Levante coi loro cavalli sulle navi veneziane, ma tornavano di solito appiedati, dopo aver venduto gli animali a ottimi prezzi ai cavalieri italiani» (Petta, Stradioti. Soldati albanesi in Italia cit., p. 61).
45 Mpires, Oi Arvanites cit., p. 172. 46 K. Sathas, Hellenes stratiotai en tei dysei kai he anagennesis tes hellenikes taktikes, Athens 1885, pp. 11-14. 47 I.K. Chasiotes, La comunità greca di Napoli e i moti insurrezionali nella penisola Balcanica meridionale durante la seconda metà del XVI secolo, in «Balkan Studies», 10, 1969, pp. 279-288; V. Giura, La Comunità Greca di Napoli (1534-1861), in Storie de Minoranze Ebrei, Greci, Albanesi nel Regno di Napoli, Napoli 1982, pp. 119-156. 48 R. Manselli, Il reggimento albanese Real Macedonia durante il Regno di Carlo di Borbone, in «Archivio Storico per le Provincie Napoletane», vol. 32 (1950-1951), pp. 143-145; N.C. Pappas, Balkan Foreign Legions in Eighteenth Century Italy: Reggimento Real Macedone and Its Successors, in Nation and Ideology: Essays in Honor of Wayne S. Vucinich, cur. I. Banac, J. C. Ackerman and R. Szporluk, Boulder, Colorado 1981, pp. 35-39.
49 Nel corso del primo quarto del Settecento le comunità albanesi in Italia non disponevano ancora di una loro tradizione storiografica (Mandalà, Mundus vult decipi cit., p. 22). 50 Marin Barleti (Scutari 1450-Roma 1513), scrittore e religioso albanese. Autore della biografia più nota di Skanderbeg, intitolata: Historia de vita et gestis Scanderbegi, Epirotarum principis, Roma 1508-10. 51 Matteo Mandalà fa riferimento al grave danno culturale subito dalla memoria storica della comunità albanese d’Italia. Cfr. M. Mandalà, Paolo Maria Parrino e le origini dell’ideologia albanista, in Aspetti della cultura bizantina ed Albanese in Sicilia, cur. P. Di Marco-A. Musco, Palermo 2005, pp. 32-34. 52 Matricola, cap. LXXXVII, aprile 1454; Ducellier, Les Albanais en Venise cit.

53 «Gli Albanesi avevano rinforzato la decadente tradizione religiosa degli Italo-Greci» (I. Parrino, L’autonomia amministrativa dei siculo-albanesi e gli sviluppi socio-politici conseguiti nei secoli XVIII-XIX, Atti del Congresso di Studi Arbëreshë, (Manheim 1987), p. 209). 54 M. Brunetti, “Presentazione”, La diaspora della diaspora. Viaggio alla ricerca degli Arbëreshë, cur. M. Bolognari, Pisa 1989, p. 7. 55 S. Demiraj, Gjuha shqipe dhe historia e saj, Tiranë 1988. 56 M. La Piana, I dialetti siculo-albanesi, in Giunta, Albanesi in Sicilia, cit., pp. 71-100. 57 Giura, La Comunità Greca di Napoli cit., pp. 121-127.

Articolo estratto da BASILISKOS Rivista specialistica annuale dell’ISSBAM Istituto di Studi Storici per la Basilicata Meridionale Via Carlo Alberto, 205 – 85044 Lauria (Pz) issbam@gmail.com.





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