giovedì 18 aprile 2013

La Rivoluzione Francese e la Repubblica Partenopea

                                                                                                 ( di Vincenzino D. A. Vaccaro)
La Rivoluzione Francese è stato uno degli eventi più importanti della storia dell’uomo che maggiormente hanno costituito oggetto di disquisizioni. Fuor di dubbio, essa s’incubò e vide luce soprattutto per le nuovi correnti filosofiche dell’illuminismo liberale e anticlericale e come tutte le rivoluzioni, essa non fu popolare ma borghese e, con ecumenicità, anche del giacobinismo ecclesiastico. Ma poiché si tratta di un avvenimento particolarmente predisposto a coinvolgere giudizi di carattere politico, è stata per lo più delle volte terreno fertile di divulgazione ideologica piuttosto che di indagini strettamente scientifiche. Indefinite sono state le interpretazioni date alla Rivoluzione francese, ma essa, viene delineata, dalla maggior parte degli intellettuali di oggi, come un fenomeno che assimila attuali problematiche esistenziali. Con  meditante concentrazione si rifletta, ad esempio, sui principi fondamentali della democrazia, sulla questione dell’uso legittimo o illegittimo della violenza e dei soprusi, sulle forme di organizzazione della società e delle conquiste politiche, sul ruolo degli intellettuali o dei dirigenti politici, sulla questione del partito unico o della repressione, sulla articolata problematica intrinseca al rapporto fra stati e religioni, su tematiche demagogiche e strumentali della divulgazione ideologica o ancor di più la creazione di miti e di simboli: in sostanza una lunga serie di valori o disvalori, nei quali, da duecento anni, intere generazioni, hanno formato e formano la propria coscienza politica.

In Francia, la situazione politica e sociale nel XVIII secolo, si delineava, negativamente, più marcata, rispetto alle altre realtà d’Europa: l’imposto divario delle classi sociali esacerbava in maniera inquietante le masse, costituite prevalentemente dal ceto contadino, che tassato all’inverosimile, per il sostentamento delle spese sostenute dall’aristocrazia, si alleò nella contestazione con la piccola e media borghesia. Il sovrano, Luigi XVI, goffo e ignorante, conscio della sua incapacità di governare saggiamente, non diede importanza al fenomenale stato di disagio in cui, con efferata ed implacabile disperazione, il Terzo stato e il ceto medio fossero costretti a condurre vita, producendo  dispendioso  disprezzo per gli spropositi dell’aristocrazia, in quel periodo, infatti le entrate nel regno,  venivano impiegate in maggior misura, più per l’aiuto devoluto ai bisogni della rivoluzione americana, che lottava per l’indipendenza dall’Inghilterra,  e alle sfarzose feste di corte, che per una configurazione dell’economia rientrante nei parametri della normalità. Il 95% delle entrate fiscali, provenivano dalla produzione agricola, la quale essendo sottoposta ad incredibili tassazioni e  angosciata dalla carestia del 1787, agonizzante, smise di essere forza motrice, per la sopravvivenza, dell’economia nazionale francese. In quello stesso anno, Jacques Neker, assume la direzione delle Finanze, e venendo a conoscenza del grave dissesto finanziario e delle concomitanti cause, arditamente, l’anno successivo pubblica il “Compte Rendu”, dove rivela la drammaticità della situazione economica, le spese folli e gli  inammissibili sprechi della corte: per  questa onesta divulgazione, venne destituito dall’incarico. Dalla sua bilanciata e analitica ricerca dedusse che: dei 503 milioni di lire in entrata allo Stato, ben 629 costituivano la spesa, includendo nella stessa 38 milioni per feste e pensioni ai cortigiani. La situazione divenne insostenibile e nessuno, ad esclusione del Neker esonerato, pare abbia avuto la volontà di porre rimedio alla dilatazione della abissale voragine volontariamente provocata. Come prima assunto, le cause originanti la Rivoluzione Francese, debbono,oltre che, da attribuirsi al malcontento del Terzo Stato, in buona porzione, anche alle esigenze di comodo della media borghesia e ai nascenti concetti di       Razionalismo, Contrattualismo ed Egualitarismo dell’autoctono illuminismo.

Il 1789 è stato l’anno dei grandi sconvolgimenti sia per i francesi che per il resto della civiltà europea: il 14 luglio ci fu la presa della Bastiglia e un mese dopo con la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e dei Cittadini”, venivano aboliti i diritti feudali, le classi sociali, più tardi la schiavitù nelle colonie e tutto ciò che ostava i principi esistenziali dell’uomo. Prescindendo dai personaggi che, che da attori o comparse, si distinsero negli eventi, riguardo la Rivoluzione francese, è possibile dissertare di storiografia moderata, reazionaria, radicale, marxista, anarchica, senza la remora di confondere la politica con l’indagine scientifica, infatti, fra le plurilaterali asserzioni di carattere ideologico, su un punto concordante si è giunti nel ritenere che la Rivoluzione Francese, da sola o assieme ad altre rivoluzioni ad essa contemporanee, sia con i successi sia con la intrinseca negatività, abbia introdotto nuovi ed irreversibili elementi nella storia della civiltà europea occidentale. Oggetto di discussione, potrebbe prospettarsi, quella che, se le novità da essa introdotte, costituiscano una spaccatura con il passato dell’ancien régime oppure una accelerazione di processi avviati da tempo. Inconfutabile è che essa , con le sue produzioni, diede all’uomo, nella storia, la dignità  dovutagli.  Negli anni successivi , La Francia rivoluzionaria, acquistò la simpatia, in quasi tutta Europa, di molti intellettuali e di una considerevole frangia delle classi popolari e di tutti coloro che speravano nella solenne dichiarazione del 1792, dove la nazione d’oltralpe si rese patrocinante di tutti i popoli in lotta contro la tirannia. In Italia, questa sorta di deferenza per la Francia rivoluzionaria, si era diffusa soprattutto negli ambienti borghesi, nel clero meno bigotto e più erudito ed anche in una ristretta cerchia dell’aristocrazia e in alcune aree, anche se in maniera confusa, fra le masse contadine-popolari. Il motto rivoluzionario della libertà, della uguaglianza e della fraternità , attraverso circoli e organizzazioni, diede vita a quel fenomeno definito giacobinismo italiano.

Con le campagne napoleoniche, la Francia, intensifica, a livello internazionale, una politica di organizzazione delle repubbliche sorelle: nel 1796 nascono la Repubblica Cisalpina e  la Transpadana, nel 1797 la Elvetica e la Ligure e nel 1798  la Repubblica Romana. A Napoli, le sostanziali innovazioni apportate nella società dalla Rivoluzione Francese, non trovarono celere impatto fra le classi più illuminate e più preoccupati, rispetto quegli eventi,  si dimostrarono re Ferdinando e sua moglie Carolina (la sorella Maria Antonietta fu ghigliottinata) che ben presto cominciarono a condurre, nel Napoletano, opera di persecuzione fra i presunti giacobini o filo francesi. A tal proposito è opportuno sintetizzare il concetto di giacobinismo:esso nacque in Francia presso un monastero domenicano dedicato a San Giacomo ( Saint Jacobs ) nel 1789 sotto forma di associazione o club, i cui frequentatori, per la maggior parte  dotti illuministi, venivano denominati giacobini, che fieri del soprannome loro attribuito, nel 1791  decisero di costituirsi come Societé  des Jacobins amis de la liberté et de la legalité. Gli obiettivi da loro prefissati erano, in linea di massima, tre: dotare la Francia di una costituzione, corrispondere con altre società analoghe e illuminare il popolo e prevenire i loro errori. Fra i più importanti giacobini va, senz’altro ricordato Maximilien François Marie Isidore de Robespierre capo del club giacobino di Parigi, condannato a morte e giustiziato dai  Termidoriani ( soggetti del ceto borghese moderato ) nel 1794. Lo spirito anti francese e antigiacobino di Maria Carolina e del suo super protetto John Acton, divenuto, per disgrazia del casato dei Borbone, primo ministro, bandì nel regno ogni forma di organizzazione massonica, interrompendo, così, anche il  processo di riforme fortemente voluto da Carlo III, nella cui parziale attuazione, questa parte d’Italia rifulse luce propria in tutto il mondo civile. L’inconsulto tradimento di Maria Carolina fu dalle classi colte e dalla media borghesia considerato come un atto degno di viltà e di una ripresa della politica conservatrice, ormai riposta, con grande speranza dei dottrinari, nelle profondità dell’erebo. E’ naturale che il personalistico arricciamento della politica caroliniana  abbia determinato squilibri cortigiani e dilatanti attività reazionarie, sviluppanti preoccupanti ed irreversibili sovversivismi. In Sicilia nel 1794 una organizzazione progressista, si affannò a progettare una repubblica ispirata ai principi di eguaglianza, ma scoperto il disegno anti monarchico ed anti oligarchico, la risoluzione si definì in una dura reazione e ad una sana giustificazione del regime repressivo. Napoli fu la città dove le idee giacobine , mimetizzandosi nella massoneria, si incunearono con maggiore compattezza. L’abate calabrese Antonio Jerocades, diffondeva, in quel periodo, prima nelle Calabrie e poi nella Capitale, un “massonismo” giacobinista, sul quale sfondo, scenici apparivano gli attizzanti concetti del radicalismo rivoluzionario. Il Jerocades trovò, nella figura dell’abate Teodoro Monticelli, professore di Etica nella Regia Università di Napoli, un validissimo collaboratore, con il quale divenne assiduo frequentatore dell’Accademia della Chimica di Lauberg, la quale in seguito assumerà un aspetto decisamente politico. In  quelle circostanze, i due abati fondarono in Capodimonte, un’apparente loggia massonica, le cui sostanziali aspirazioni erano impregnate dal determinismo giacobino. Nella stessa organizzazione furono abolite tutte le formalità del cerimoniale massonico, e gli adepti, consacrandosi alla fratellanza patriottica antimonarchica, giuravano fedeltà alla rivoluzione e a tutte le forme in cui essa avrebbe trovato determinazione. Gli adepti, riconoscendosi fra loro come “patrioti giacobini”, prefissavano come obiettivo primario, l’abbattimento della monarchia e l’istituzione della repubblica. Nello stesso ambiente, per opera di Ignazio Ciaja, venne a formarsi il club giacobino “Sans comprimission” cioè a dire senza compromessi. Altri club o logge sorsero come la “Vittoria” e la “ Renaissance” frequentate dall’italo albanese, sofiota, Pasquale Baffi, allora professore di latino e greco presso la scuola militare della Nunziatella. Ma il giacobinismo napoletano trovò vera consistenza nelle idee e nello zelo di due giovani scienziati: Carlo Lauberg e Annibale Giordano, colleghi, alla Nunziatella, ed amici di Pasquale Baffi, che, pur provenienti da famiglie nobili e chiaramente filo monarchiche, convertendosi alle idee della Rivoluzione Francese, diedero una forte impronta, nell’accentuazione della finalità sobillatrice, al radicalismo politico napoletano. Furono essi che progettarono, all’interno delle varie logge e dell’Accademia della Chimica, la Repubblica Partenopea. Il Lauberg, dopo essere stato, nel 1792, uno degli interlocutori dell’ammiraglio francese Latouche Tréville, ancoratosi con la flotta inviata dal Direttorio francese come ammonitore presso i Borbone anti rivoluzionari, venne perseguitato da Maria Carolina fin quando non trovò ospitalità in Francia dove si arruolò in quell’esercito come farmacista.

Nella notte fra i 19 e 20 febbraio del 1799 comincia una delle pagine più straordinarie della storia del  mezzogiorno d’Italia: i repubblicani napoletani occuparono la fortezza di Sant’Elmo  proclamando la Repubblica Napoletana. Il 23 gennaio dello stesso anno , Carlo Lauberg al seguito delle truppe francesi comandate dal generale Championet, entrò in Napoli fra i sussulti di gioia dei repubblicani e lo stesso generale Francese riconoscendo la Repubblica consorella della Francia, nominò il Lauberg primo ministro che nel febbraio venne sostituito da Ignazio Ciaja. Venne costituito un governo provvisorio, provvisto di una costituzione, sulla quale, nelle linee più moderne, è stata stillata la attuale italiana, la bandiera azzurra gialla e rossa rappresentava i colori e l’oro di Napoli, la lingua ufficiale era quella italiana e la religione di stato quella cattolica. I ministeri furono affidati in gran parte a i dottrinari del tempo:Pagano, Ciaja, Laubert, Albanese, Pignatelli, Doria, Cestaro, Bruno,Albamonti, Baffi ed altri. Il 29 gennaio venne varata, su proposta di Giuseppe Leonardo Albanese, membro del Comitato Esecutivo, la legge sull’abolizione dei “fedecommessi e della primogenitura” e il 25 aprile si approvò la legge sulla “abolizione della feudalità”, quest’ultima non trovò applicazione per la repentina caduta della Repubblica avvenuta il 13 giugno dello stesso anno. In tutti i paesi di origine albanese vennero innalzati gli alberi della libertà e in molti di questi non mancarono gli incidenti: si ricordino i fatti di San Demetrio, per fare un esempio, molto ben illustrati dal professore Innocenzo Mazziotti. I reali, Ferdinando e Maria Carolina, con il primo ministro Acton, già dalla fine del mese di Dicembre del 1798, imbarcatisi sul vascello inglese VANGUARD, messo a disposizione per l’evenienza dall’Ammiraglio britannico Orazio Nelson, raggiunsero Palermo e qui su insistenza di Maria Carolina e del suo primo ministro ebbe inizio, il 7 febbraio, la controrivoluzione. L’ardua impresa della riconquista regno fu affidato al cardinale Fabrizio Ruffo, Vicario reale e intendente della reggia di Caserta, che molto quotato nelle Calabrie, si pensò come unico e migliore elemento per la sollevazione delle sue popolazioni. Il ruffo partì da Palermo con solo tre mila ducati donatigli dal re e quando giunse a Palmi, alla testa di ventimila uomini, tutti insigniti di una croce bianca sul capello, così si rivolse alla sua gente e alla sua armata chiamata SANTAFEDE:”Un’orda di cospiratori settari, dopo aver rovesciato in Francia il Trono e l’Altare; dopo aver portato la confusione e il disordine in tutta Italia; dopo avere, con un comportamento sacrilego,fatto prigioniero e condotto in Francia il nostro Santo Pontefice Pio VI; dopo aver disperso il nostro esercito con la slealtà e il tradimento, invasa e fatta insorgere la nostra capitale e le province, ore fa ogni sforzo per sottrarci il più prezioso dono del Cielo, la nostra Santa Religione, allo scopo di distruggere la Divina Morale del Vangelo, di saccheggiare i nostri beni, di minacciare la virtù delle nostre donne… Buoni e coraggiosi calabresi! Vi sottometterete a tali insulti? Prodi soldati di un esercito tradito, volete lasciare impunita la perfidia che, offuscando la vostra gloria, ha usurpato il Trono al nostro legittimo sovrano? No! Unitevi dunque sotto lo stendardo della Santa Croce e del nostro amato Sovrano… Lo stendardo della Santa Croce ci assicura la completa vittoria.”* Da questo proclama si evincono i motivi del fallimento repubblicano per opera del successo sanfedista: i repubblicani erano poco conoscitori e molto dottrinari rispetto ai problemi delle province, il cardinale, invece, essendo a conoscenza dell’ignoranza e di più della superstizione incuneatasi nelle masse, giocò la sua carta vincente su questi basilari elementi. Intanto, gli inglesi, mentre le truppe del Ruffo risalivano lentamente le Calabrie, liberavano dalle carceri delle principali città, tutti i detenuti costringendoli ad arruolarsi nell’armata dei sanfedisti, quindi si può presumere con facilità, con quale categoria di persone andavano a scontrarsi i giacobini: briganti, delinquenti comuni , ladri stupratori e la peggior plebaglia del regno. Durante la marcia su Napoli, le truppe del cardinale lasciarono sulla loro scia efferati omicidi e incredibili furti con violenze. Sulla base di questi accadimenti, l’alto prelato, non potendo tenere a bada quella massa violenta, e dovendo rendere conto all’opinione pubblica e maggiormente al mondo cattolico del suo operato, si trovò in una situazione molto imbarazzante. Si trattò di imbarazzo di carattere diplomatico o di carattere religioso? Rimarrà, tutto ciò, un enigma della storia. Tuttavia, dall’archivio della famiglia Ruffo di Calabria, sono venuti alla luce, riguardanti quegli avvenimenti, documenti degni  di lettura e di studio approfondito, come la missiva inviata dal cardinale al primo ministro John Acton dalla Real Casina al Ponte della Maddalena presso Napoli il 21 giugno del 1799: “Eccellenza, sono al Ponte della Maddalena, sono vicini, a quello che pare a rendersi ai Moscoviti, e al cav. Micheroux i Castelli dell’Uovo, e Nuovo, sono così affollato e distrutto, che non vedo come poter reggere in vita, se seguirà  un tale stato per altri tre giorni. Il dover governare, o per meglio comprimere un Popolo immenso, avvezzo all’anarchia la più decisa; il dover governare una ventina di Capi ineducati, ed insubordinati di truppe leggiere, tutte applicate  a seguitare i saccheggi, le stragi e la violenza, è così terribile cosa e complicata, che trapassa le mie forze assolutamente. Mi hanno portati 1300 Giacobini, che non so dove tenere sicuri, e tengo ai Granari del Ponte, ne avranno strascinati, o fucilati almeno 50, in mia presenza senza poterlo impedire e feriti almeno 200, che pure nudi han qui trascinati.”3 La vittoria sui repubblicani si concluse con un trattato che fu firmato, su richiesta dei vinti, dal Vicario Generale Ruffo, dal capitano Foothe a nome del re d’Inghilterra, dal generale Basiilic comandante le truppe russe e per i repubblicani dal generale Massa e dal generale Aurora, rispettivamente comandanti di Castel dell’Ovo e Castel Nuovo con la controfirma del generale francese Mejean. Le condizioni di pace, imposte da cardinale Ruffo, furono onestissime:  ai congiurati veniva concessa la facoltà, senza la perdita di beni mobili ed immobili e senza che le loro famiglie venissero oltraggiate, di imbarcarsi per Tolone; che cedessero le fortezze alle truppe regie con l’onore delle armi e altre eque e sagge concessioni. Paradossalmente, all’arrivo dell’ ammiraglio Nelson, su esplicito ordine dell’Acton, tutte le condizioni firmate e controfirmate vennero annullate e addirittura il cardinale Ruffo rischiò di essere imprigionato per la eccesiva indulgenza concessa. Alla disfatta repubblicana, si diede inizio alla più efferata rappresaglia anti liberale che la civiltà  italica abbia mai avuto modo di conoscere: condanne a morte, arresti ingiustificati e persecuzioni, a carico della più nobile orda di intellettuali e patrioti del tempo. Ad intimo parere, date le certificazioni storiche, le orrende nefandezze commissionate,  escludendo il buon trasognato Ferdinando, da Maria Carolina , dalla Hamilton e da Acton, inserite come elemento probatorio, giustificarono, pregiudicando i Borbone, la altrettanto infausta Unità d’Italia. L’ecatombe  dei nobili congiurati dal giugno 1799 al settembre del 1800: Albanese Giuseppe, Astore Francesco Antonio, Eleonora Pimentel Fonseca (direttrice dell’organo repubblicano “il Monitore“), Carlo Muscari, Ignazio Ciaja, Cirillo Domenico, Pagano Mario, Conforti Francesco, Pignatelli Francesco, Sanfelice Luisa, Baffi Stefano Pasquale, Monsignor Giuseppe Andrea Serrao,  Gennaro Serra duca di Cassano, Monsignor Francesco Saverio Granata, Generale Federico Federici, Ascanio Filomarino duca della Torre, Monsignor Michele Natale. Fra i calabresi, oltre la grandiosa figura di Pasquale Baffi, furono giustiziati: Assisi Pasquale di Cosenza di anni 49, ufficiale di fanteria; Bisceglie Domenico di Donnici (CS) di anni53, avvocato; De Colaci Antonio di Parghelia (CZ) di anni53 magistrato; De Filippis Vincenzo di Tiriolo (CZ) di anni 56, Professore di Matematica all’Università di Bologna; Grimaldi Francesco Antonio Cavaliere Gerosolimitano di Seminara (RC) di anni 56, colonnello di fanteria; Mattei Gregorio di Montepaone (CZ) di anni 38, magistrato; Mazzitelli Andrea di Parghelia di anni57, capitano di fregata; Muscari Carlo di S. Eufemia di Aspromonte (RC) di anni 30, avvocato; Nicoletti Pietro di Rogliano di anni30 impiegato; Rossi Luigi diMontepaone (CZ) di anni26, avvocato; Spanò Agamennone di Reggio Calabria di anni34, Generale Comandante la Guardia Nazionale. A questo punto è d’uopo ricordare uno dei più importanti protagonisti della Repubblica Napoletana: Pasquale Stefano Baffi, venuto alla luce, italo albanese, in Santa Sofia d’Epiro, l’11 luglio del 1749, dalla cristiana ed amorevole unione di Giovanni Andrea e Serafina Baffi. Mandato a studiare nel rinomato Collegio Italo Greco di San Benedetto Ullano, dove con paterna benevolenza,  accolto, dal Vescovo sandemetrese, Giacinto Archiopoli, compì gli studi classici con esemplare profitto,  venendo sommamente ammaestrato nelle lettere greche , per le quali venne considerato, in seguito,  come  il più insigne studioso dell’affascinante periodo illuministico napoletano. Alla giovane età di vent’anni, emergendo fra altre eccelse menti, superando brillantemente un concorso, si meritò la cattedra di lingua e letteratura greca nella Regia Scuola di Salerno, elevata, proprio in quel periodo, a istituzione universitaria. Per diretto volere reale, il 17 ottobre del 1773 fu nominato professore di lingua latina e greca, presso la Regia Scuola Militare della Nunziatella in Napoli. Due anni dopo, aderendo, come sopra citato, alla loggia massonica la “Vittoria,”con Cirillo, Pagano e Tommasi (quest’ultimo futuro primo ministro dopo la restaurazione borbonica), con palese ingiustizia, subì il carcere per quaranta giorni. Prosciolto per insufficienza di prove, riguardo l’accusa di tentata eversione all’ordine costituito, nel 1779 venne prescelto come socio residente dell’Accademia delle Scienze e delle Belle Lettere di Napoli, divenendone, l’anno successivo, Primo Bibliotecario. Dotto grecista e autodidatta in filologia e paleografia,  trascrisse e tradusse, in quel periodo, 112 pergamene greche dell’XI° e XII° secolo rinvenute in Capua. Con regio decreto del 1787, fu inviato a Catanzaro ad assumere l’importante incarico di dirigente il Registro e l’Archivio della Cassa Sacra, con lo specifico incarico di tradurre antichi documenti inerenti gli ex beni ecclesiastici, ormai incamerati dal regio demanio. Nello stesso anno venne nominato socio dell’ Accademia Ercolanese e di essa Bibliotecario, interpretando e traducendo la maggior parte dei famosi “Papiri Ercolanesi”.Per la sua incommensurabile valenza negli studi di filologia greca, venne definito dai maggiori umanisti europei, come Cristoforo Harles,  il conte russo Orloff,  gli italiani Vincenzo Cuoco e Nicola Ignarra,  come il più grande ellenista del tempo. Nel 1796 contrasse matrimonio con la cattolicissima nobildonna napoletana Teresa Caldora, che offrì immenso sostegno spirituale al Nostro, durante la tribolazione del carcere cui seguì la deplorevole esecuzione patibolare. Da questa pia ed amorevole unione nacquero due figli, teneramente chiamati dal padre, “Ninno e Nenna.” Oltre a ricoprire quegli onorevoli incarichi, di cui prima abbiamo accennato, più onorifiche che compensatrici per la prestazione d’opera, svolse attività forense, con notevoli risultati. Nel 1799, necessitando la sua presenza, parteggiò, con i suoi migliori amici, Albanese, Cirillo e Pagano ed altri, per la nascente Repubblica Napoletana, dove portò la parte migliore di sé. Nel Governo Provvisorio fu  Presidente dell’Amministrazione Interna (attuale Ministro degli Interni), che coadiuvato dal Segretario Generale Giuseppe Gaja, in data 26 piovoso (febbraio) , evidenziando il suo forte attaccamento alla religione, sottoscrisse il seguente provvedimento ministeriale: “ Il Governo Provvisorio, considerando che un popolo, il quale, tratto dalla schiavitù alla libertà, non possa dirsi completamente rinato,  ad uno stato così felice se istruzioni uniformi di dura morale e di vero patriottismo, non formino egualmente in tutti gli individui, lo spirito e il costume pubblico, verso sostegno delle buone leggi; e venuto a disporre che questo Comitato dell’Interno, formi una commissione di sei ecclesiastici per costumi e per dottrina riputati, i quali dovranno dirigere le predicazioni ed intrusioni che debba fare il Clero secolare regolare; dovranno formare nel più breve termine un Catechismo di morale all’intelligenza di tutto il popolo, presentarlo a questo Comitato per l’approvazione, e quindi farlo insegnare in tutti i luoghi vigilando sulla condotta degli ecclesiastici per l’esatto adempimento di tali oggetti di pubblica istruzione e dell’intelligenza dell’Ordinario locale, il quale dovrà significare il voto della commissione e sospendere le persone poco abili all’esercizio di tali funzioni.” Con la caduta dell’effimera esistenza della Repubblica Napoletana, il 28 luglio del 1799 il Baffi fu tratto in arresto in una casa di campagna di Pianura, presso Napoli,con il proprietario di essa, Angelo Masci, anch’egli, sofiota e reo di stato.

Entrambi condotti nelle carceri della Vicaria furono dal giudice Speciale trattati come gli ultimi dei delinquenti. Più tenue furono le sofferenze del Masci, che a differenza di quelle del Baffi,  seppur cristianamente consolato dalla lettere della moglie, subì una carcerazione preludente la pena capitale, infatti l’otto novembre fu ufficialmente condannato a morte e per la gioia di Maria Carolina, tre giorni dopo “ afforcato” in piazza Mercato presso Santa Maria del Carmine in Napoli.

Dall’ultima ricerca svolta da Atanasio Pizzi, si è giunti: “ l’11 novembre, lunedì è stato afforcato il dotto Pasquale Baffi,  e in un manoscritto dell’epoca, dato alle stampe in questi giorni, si legge: “fu anche scannato per essere cattivamente afforcato.”

Alessandro Dumas, padre, nell’averlo profondamente conosciuto, scrisse di lui nella sua opera “ I Borbone di Napoli, Libro IV Capitolo VIII: “ Pascale, era pure uno di quei dolci e placidi scienziati che nascono nel momento di un sorriso della natura; egli si era dedicato allo studio della lingua greca ed era divenuto il più dotto ellenista dell’epoca: Quando scoppiò la rivoluzione, la voce della patria lo trasse dalle sue antichità ed egli rispondendo a quella voce, si lasciò nominare membro del governo provvisorio, nel quale contribuì a tutto quello che fece di utile e di buono.” Ancora, il Marinelli, cronista del tempo: “ Con la sua morte si è perso l’uomo dotto e l’affidabile amico. Era l’unico nella letteratura greca. Egli era un figlio della forte Calabria, un discendente dell’antica e nobile Razza Albanese.” Di lui scrisse il letterato ed amico Carlo Botta: “ Morì da uomo fortissimo. Quando gli fu comunicata la sentenza, una mano pietosa gli offrì dell’oppio, affinché con la morte volontaria fuggisse i dolori della morte violenta. Egli rifiutò il dono, affermando che l’uomo è posto in questo mondo come soldato in fazione, che l’abbandonare la vita è un delitto, come abbandonare il posto di guardia.” Confortato dalla avita fede cristiana, così filosofando, crudelmente morì da grande Figlio delle Aquile.

IL MONDO, E L’ITALIA SPECIALMENTE, SA I NOMI E L’EROISMO DI GRAN PARTE DI QUEGLI UOMINI, SENTE ANCOR OGGI L’ORRORE DI QUELLE STRAGI, CONOSCE DI QUANTO E DI QUALE SANGUE S’IMBEVVE ALLORA QUELLA PIAZZA DEL MERCATO, IN CUI AL GIOVINETTO CORRADINO FU MOZZO IL CAPO IL 29 OTTOBRE DEL 1268, E IL POVERO MASANIELLO TRADITO E CRIVELLATO DI PALLE  IL 16 LUGLIO DEL 1647; MA PUR TROPPO, IGNORA ANCORA TUTTI I NOMI D QUEI PRIMI MARTIRI DELLA LIBERTA’ NAPOLETANA.

                                                                                                                       ( Giustino Fortunato)

Un altro italo albanese di Calabria ricoprì importanti cariche in quella Repubblica: Nicola Basti di San Nicola dell’Alto (1767). Studioso di lettere nel 1791 in Calabria fece parte di una loggia massonica fondata con Antonio Jerocades. Nel 1795, essendo state bandite le logge massoniche, fu denunciato e imputato come reo di stato. Nella Repubblica Napoletana, da Lauberg, fu nominato Direttore Generale delle Finanze e dopo la breve parentesi del sogno repubblicano, cercò asilo in  Francia dove visse insegnando letteratura italiana. Esistono lettere a lui indirizzate da Ugoni, Carlo Botta Angeloni, Lambredi e Guglielmo Pepe. Morì a Parigi nel 1843.

 


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