a cura di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro
Vincenzo Dorsa nacque a
Frascineto il 26 febbraio del 1823 da Francesco e Vittoria Bellusci, nipote del
Vescovo Domenico Bellusci. Nel novembre del 1834 fu mandato a studiare nel
Collegio di San Adriano. Nel 1841 fu
richiesto, assieme ad altri tre giovani chierici delle Colonie Albanesi per essere educato nel Collegio della Sacra
Congregazione Propaganda. Insofferente dell’ambiente di quello “ Stabilimento”
vi soggiornò solo per nove mesi; suo fratello Achille così ne fa cenno nel suo
manoscritto: “non vi si trattenne più di nove mesi, per aver trovato colà un
ambiente contrario alle sue aspirazioni, non che alla sua salute. In quella
breve dimora nella Ctttà dei sette colli ebbe l’agio di soddisfare il desiderio
che più volte avea manifestato, di visitare cioè i musei dell’antica Roma; onde
ne fu entusiasmato e al suo ritorno in patria scrisse le Lettere Romane, che
furono pubblicate nel giornale il Calabrese di Cosenza e poi raccolte in un
opuscolo, di cui si conservano alcune copie in famiglia1.
Nel 1843 studiò in Castrovillari
filosofia con Don Ciccio Bellizzi e matematica con Carlo L’Occaso, non
tralasciando lo studio delle belle lettere e il prediletto esercizio di
scrivere in prosa e in poesia. Ordinato sacerdote di rito greco non esercitò
quel minstero, preferendo insegnare Lingua e Letteratura Greca e Latina al
Liceo Classico Bernardino Telesio di Cosenza. Nel contempo, essendo conosciuto
nella Provincia, fu invitato ad aprire una scuola privata in Frascineto, dove
ebbe come allievi i figli delle più insigni famiglie dell’Arberia: Giovanni
Damis e Orazio Straticò di Lungro, Eduardo Pace di Frascineto, Vincenzo
Bellusci di Platacie e Giovanni Marini di Cesare da San Demetrio Corone.
Colpito da una forte attacco di bronco polmonite rese l’anima a Dio il 4
Dicembre del 1885.
Le opere: Sulla Poesia Albanese,
il Calabrese 1844; Le Nozze Albanesi, il Calabrese 1844; Gi Albanesi, Ricerche
e Pensier; Napoli Tip. Trani 1847; Studi etimologici sulla Lingua Albanese,
Cosenza tip. Migliaccio 1862; La tradizione greco Latina nei dialetti della
Calabria Citeriore, Cosenza tipografia Migliaccio 1876.
Fonti: Manoscritto di Achille
Dorsa in Lidhja n.33, pag. 1166 del 1995- Lidhja n. 40 pag.1385 del 1998.
SULLA POESIA ALBANESE
(Il Calabrese - 30 giugno 1844)
Si ricordi sempre quel che troppo
i suoi predecessori abbliarono,
cioè di avere una patria, e canti
continuamente le glorie e le
sventure del suo paese.
V. Hugo
Lo studio delle cose proprie da taluni si prende a
sprezzo. Io lo capisco - Eglino infetti da quel morbo che tanto avvilisce il
volgo degli uomini, per cui non vede oltre la spanna, ad un debil bagliore delle
cose straniere vengono subito affascinati, onde poi credono che ciò ch'è lontano
interessa sempreppiù di ciò che è vicino. Il buon Diogene che filosofava per
abito in ogni suo detto, dimandato quali fossero le cose migliori del mondo -
quelle che vengon da fuori, rispose. Che vale a me Calabrese il conoscer delle
cose di Roma, se son nuovo pellegrino nè fatti della Magna-Grecia che intorno
per ovunque mi parla nè suoi dispersi rottami? E che vale a me Albanese l'esser
addottrinato nelle Calabre antichità, se all'ansio viaggiatore che mi sente
parlare in mezzo Italia estraneo linguaggio e mi vede tra originali costumi, io
non saprò satisfare la dotta curiosità? -Ogni popolo ha le sue memorie e le sue
particolarità a raccontare e studiare. -Così persuadeva a me stesso quando tolsi
a scrivere qualche pensiero sulla nostra poesia Albanese. E fin d'allora mi
proposi investigare, 1° qual grado percorra nel suo corso la poesia Albanese, 2°
qual sia la sua natura e il suo spirito, 3° finalmente sotto quali distinzioni
convenga riguardarla.
E' il principio celebrato costantemente dalla
filosofia che la letteratura di un popolo cammina a pari passo col suo sviluppo
sociale. Fissata una tal verità, noi facendoci col pensiero ne' tempi primitivi
quando l'uomo uscì dalle mani del creatore, e poi percorrendo la curva de'
secoli fino al punto in cui lo vediamo decadere dall'apice della perfezione
intellettuale e far ritorno ai primi periodi della sua umanità, osserviamo tale
e sì regolare fenomeno, che senza tema d'inganno direm di un popolo in
particolare ciò che presenta l'uomo in generale.
L'uomo, giusta i profondi principi di Giambattista
Vico e di qualunque sana filosofia, ne' primi gradi della società non parla che
un linguaggio poverissimo. Nell'esprimersi quindi egli dev'essere per necessità
sublime, nel concepire grave, e acuto nel comprender molto in brevi parole.
Epperò il suo linguaggio va tutto composto di metafore, immagini,
circolocuzioni, simiglianza, paragoni, che va raccapezzando in quella scarsezza
di voci per vestire al miglio modo possibile le sue idee e presentarle. Le sue
idee non sono che particolari. A giungere il grado umano quando per profonda
riflessione e lunga familiarità colle arti del pensare e del parlare lo spirito
acquista la forza sintetica per cui si eleva da su l'individualità e
generalizza, l'uomo dee percorrere prima assolutamente i secoli dell'infanzia e
della giovinezza, dee passare successivamente e per lunghi intervalli dai tre
grandi stati di caccia, pastorizia, agricoltura a quello del commercio. Che anzi
nell'epoca di cui tenghiam parola, egli non solo tutto individualizza, ma il
mondo delle sue idee si restringe nel cielo orizzontale della propria
terra.
Dietro la scorta di tali ineluttabili verità,
tornando al nostro argomento, diamo uno sguardo al popolo Albanese, e
analizziamo la sua poesia. -Già è a premettersi che quel popolo nè ha avuto nè
ha scrittura alcuna. Confuso negli antichi tempi co' Greci, e poscia co'
Musulmani, rifulse nella gloria de' primi, e si oscurò nelle tenebre de'
secondi. Tra questi in barbara regione e sotto una legge che nemica taglia il
corso dell'umano progresso, continuò i suoi giorni stazionario, fino a che la
mano del destino facendolo lumeggiare per momenti nella propria gloria, lo
divise poscia da' suoi fratelli, e lo sospinse in questa regione più fortunata.
Qui da allora sentì più mite la vita; ma non pertanto perché ristretto a poche
migliaia d'individui e vivente in mezzo ad una cultura straniera, non potè
riscuotersi come ancora non può da quella necessaria inoperosità. Ed ecco per
cui di presente se vi scorgi in esso degli avanzi d'Albania, lo confondi poi
nella civiltà Italiana.
Non avendo avuto dunque una scrittura gli Albanesi,
scrissero nella mente le loro memorie e le tramandarono a noi per tramandarle
anche ai nostri figli. Quindi i canti e le poesie della loro età eroica sotto il
famoso Scanderbek formano appunto una parte interessante della odierna poesia
Albanese. E ciò di fermo, perciocchè quelle canzoni tradizionali sono i canti
comuni delle feste e de' banchetti. -Ma quale è mai la loro natura, il loro
carattere, il loro spirito? Noi abbiam premesso che il popolo Albanese quando le
dettò era ancor giovine e si versava in mezzo le attualità di un tempo eroico,
quindi scarso il suo linguaggio, particolari le sue idee, enfatiche e sublimi le
sue espressioni, abbondanti le sue metafore, le sue immagini, i suoi paragoni.
Sotto queste qualità ci si presentano le canzoni tradizionali di esso. Si
ravvisa di fatti in generale un aria figurata all'eccesso, la quale mentre fa
scorgere la povertà del linguaggio annunzia parimenti una immaginazione ardente
sì ma senza legge. E per quest'ultimo riflesso vi si osserva ancora una
sconnessione di parti, uno stile sempre veemente e conciso, ed una ripetizione
di versi interi, sentenze, immagini, caratteristica già della poesia Omerica.
-La pittura della terra d'Albania, de' costumi di quel popolo delle sue
credenze, del circolo delle sue idee traspare evidentemente. Quella terra è
seminata di montagne, e in quelle montagne vi abbondano gli sparvieri, le
pernici, le colombe, vi biancheggia eterna la neve, vi si mostra la luna nella
sua serena luce, il sole nel suo acutissimo splendore. Quindi le similitudini
del labbro rosso al becco o al piede della pernice, dello sposo allo sparviere
che scende dalle montagne in mezzo le colombe a scerne una bella e rapirla per
sposa; quindi una bella è bianca come la neve, è splendente come la luna di
Gennaio, e un vaghissimo giovine guerriero abbaglia sì come il sole quando
sorge. Le donne Albanesi fan uso di grandi spille per appuntare nella chioma il
velo nuziale, ne' canti epitalamici quindi la sposa vien detta spilla d'argento,
capo di spilla. -Ma le strane credenze alle magie e agl'incantesimi delle fate,
residuo della mitologia dell'antico Nord e della Persia, danno alle canzoni un
aria veramente bizzarra orientale. si veggono personificati alla rinfusa gli
oggetti inanimati e le bestie fornite di ragione e linguaggio umano. La polvere
di una tomba diventa un uomo, il coperchio di quella un cavallo, e i cavalli
fatati parlano, e se il oro cavaliere fu ucciso in battaglia, essi vanno alla
sua Signora per annunziarli la morte gloriosa di lui. -Vi campeggia d'altronde
il sentimento religioso cristiano. si va a battaglia e s'invoca l'infula di Dio
e de' santi, si riesce vincitore e si ringrazia Iddio. E' la religione Cristiana
che dà lo spirito religioso e non la Gentile, dappoichè le canzoni come
osservammo furono composte ai tempi di Scanderbeck, ed in allora il
Cristianesimo s'era già intromesso nell'Albania.
Quell'epoca è per gli Albanesi come è pe' Greci quella
che ha preceduto Solone, pe' Romani il periodo avanti la Greca imitazione, per
gli Arabi i tempi anteriori a Maometto, e pe' Caledoni l'età dell'Ossian.
Infatti la poesia di questi popoli tutti che risale ai diversi tempi qui notati
non consisteva che in liriche canzoni eroiche e in canti narrativi che
celebravano le imprese guerresche e il sentimento dell'amore. Non altrimenti le
canzoni Albanesi -cantano Scanderbek, Ducagino, Costantino, ecc., la gloria
delle famiglie di costoro, lo sdegno e l'odio guerriero contro il Musulmano, le
avventure tutte di quegli Eroi, i loro amori, e tutte dallo spirito potente che
le detta paiono destinati ad incoraggiare alla guerra e a far risaltare il
valore e le glorie nazionali.
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