Conferenza tenuta a Roma nella Sala Capizucchi da
Camillo Vaccaro il 19 giugno del 1938. Italo Albanese nacque a Lungro nel 1864,
pedagogista e filosofo, fu per oltre mezzo secolo il più autorevole protagonista e
testimone, assieme a Filippo Turati, Cesare Lombroso e Roberto Ardigò, del
positivismo italiano. Fra le sue opere più importanti ricordiamo: “Lateneide, o voci nel deserto per lo
svecchiamento delle scuole classiche ,Parma 1891; L’istruzione elementare in Italia, Milano 1902; La pedagogia fra le due morali, Mantova
1905; Le trappole della logica, Torino
1907; L’energia della coraggiosa sincerità
nella valutazione delle forze operanti sull’uomo e sull’universo,Roma 1952.
Morì novantaduenne a Roma il 14 dicembre del 1955.
Skanderbeg e gli Albanesi
Consentite che io mi auto presenti con quattro parole. Sono un
calabro-albanese della provincia di Cosenza e precisamente di Lungro, metropoli
degli albanesi d'Italia e sede del vescovato di rito greco-unito, per le
colonie al di qua del faro.
Lungro è un pò conosciuto anche perché
Domine Dio, nella sua eccelsa bontà, volle concederle nei pressi, una miniera
di salgemma vastissima che lo stato gestisce, estraendone annualmente intorno a
centomila quintali.
Per un privilegio avito quel sale puro
rimane in Calabria e giunge ad insaporire le vivande dei buongustai d'Italia
solo sotto forma di sale raffinato assai costoso.
Poiché la Salina, dando lavoro a un
mezzo migliaio tra operai e impiegati, assicura alla cittadinanza lungrese un
relativo benessere, gli abitanti dei paesi vicini - invidiando - malignano che
Domine Dio, nella sua eccelsa giustizia, per contrappesare il concesso
beneficio, avareggia il sale nelle zucche dei gaudenti lungresi.
Purtroppo io sono un Lungrese e dunque
ho bisogno del vostro benevole compatimento se questa sera non riuscirò a darvi
quella prosa scintillante che altri conferenzieri vi han data da questo
difficile posto e che voi avreste tutto il diritto di pretendere dalla mia
audacia.
Vogliate poi indulgere anche per
questo; parlando degli Albanesi, io, albanese, non potrò non sopravvalutare. A
voi il dedurre.
Chiunque - storico, o conferenziere e
giornalista - se imprenda a narrare fatti che lo interessano intimamente, non
può non colorire di sé, della sua passione quei fatti e la valutazione di essi
che se egli si affretta a promettere, a sacramentare che sarà sereno e freddo
come un biologo (rubo la frase ad un illustre padre Zappata, il Taine) il quale,
preso tra le pinze un insetto, si accinge a farne la descrizione, ebbene, o
egli ingenuamente si inganna, o mira ad ingannare, sdoganando la merce sotto la
mentita bandiera.
E' ben vero che, a parlare con
entusiasmo degli skipetari, io mi trovo in ottima compagnia.
Altri, lontani da me per tempo, per
stirpe come per statura intellettuale, mi hanno preceduto con concorde frase
commossa.
Ricordo uno per tutti: il Lamartine,
il quale, con l'amplificazione spettacolosa del poeta, non però senza fondamento,
ebbe a
scrivere:
"Albania!
Grande piccola nazione! Omero vi trovò Achille; la Grecia, Alessandro; i due
grandi sultani, Amurad II e Maometto II, il fortissimo Scanderbegh: tre eroi
nelle cui vene pulsava il medesimo sangue, sangue albanese".
Due anni fa i giornali annunziarono la
presenza in Roma di due giovani in viaggio di nozze, dopo aver solennizzato il
rito in una moschea a Tirana: lui il principe Arbib, figlio dell'ultimo sultano
turco, lei la principessa Penije, sorella del re Zogu I d'Albania.
La notizietta passò presso che
inosservata ai più in questa Roma, dove principi della scienza, delle lettere e
delle arti ed alti dignitari politici e religiosi, non che re di corona, pur
ieri in auge, passano ammiranti ed inosservati.
Ben la notammo noi, oriundi albanesi,
italianissimi ormai nell'animo, ma non immemori della gloria, dei travagli e di
tutto quanto ha attinenza coi nostri fratelli d'oltre adriatico.
E se n'ebbero due impressioni. I
cattolici, rigidi, intolleranti, pensarono che i resti di Scanderbegh - il
difensore irriducibile della croce - avean dovuto fremere nella loro tomba. Non
così altri che, con più larga comprensione storica, pensarono agli effetti
immancabili di una sapiente penetrazione dei Turchi nei villaggi dell'Albania,
sapiente se si ricorda che Maometto II, conquistatore di razza, instaurò nelle
terre invase, la più larga tolleranza in materia religiosa. Mantenne infatti in
funzione i sacerdoti ortodossi, facendo eleggere (1) un nuovo patriarca in Costantinopoli, constatata
l'irreperibilità del primo. Fu così che, non più di un secolo dopo, fu
impossibile il matrimonio di una pronipote di Scanderbegh col figlio di
Maometto III!
Sola restrizione per gli assoggettati
cristiani: dover pagare un tributo speciale e non poter fare carriera nelle
gerarchie militari e civili.
Politica avveduta che fece entrare in
funzione il determinismo economico il quale opera anche su coloro che si
ostinano a negarlo.
Così, a lungo andare, si verificò
l'inevitabile: la completa accessione.
Ma va gridato alto e forte che,
comunque, gli Albanesi tutti, rivolti alla croce od alla mezza luna, tennero
sempre viva la fiamma patriottica, mirante alla riconquista della indipendenza.
Essi sono oggi tutti con l'animo proteso verso la civiltà occidentale e più
precisamente verso l'Italia che, in un momento di grande ansia per gli
Skipetari, ai quali si minacciava la spartizione, protese il braccio vigoroso
attraverso l'Adriatico: e l'indipendenza dell'Albania fu instaurata, annuente
la Turchia, ragionevolmente orientato.
Le vicende del tempo consentono
avvicinamenti che solo chi vive nel bozzolo delle tradizioni inviolate non
comprende e non giustifica.
La storia ha le esigenze, e prescinde
dai nostri programmi, poiché c'è molto di vero nel paradosso di Antonio
Labriola che, cioè, con noi diamo vita alla storia, ma siamo invece vissuti
dalla storia con le sue leggi.
Nel secolo delle onde corte, della
televisione, delle fonofilms e delle flotte aeree trasvolanti in rotta
presegnata sopra oceani e deserti ed alte catene d'inviolati monti, la Turchia,
redente da ordinamenti liberi, è già entrata in gara con le nazioni evolute per
la ognor più rapida e sicura conquista e diffusione della civiltà, per lo
sfruttamento delle resistenti forze brute, in pro del razionale benessere
comune: in questo secolo, in questa situazione storica è bene anacronistico
l'attardarsi ancora intorno all'aspro tormento in cui all'inizio dell'evo
moderno sono vissute le nazioni europee, terrorizzate dall'avanzarsi ruinoso delle
orde musulmane. L'immaginazione dei cristiani terrorizzati rese possibile nel
1456 un fenomeno di suggestione collettiva che non sarebbe creduto se non fosse
registrato nelle cronache del tempo, che cioè, dietro l'apparsa cometa di
Halley, si vedesse da tutti, invece della solita innocua coda, la forma di una
minacciosa scimitarra turca. Fenomeno di suggestione collettiva. Intanto
solenni processioni, ordinate dal Papa Callisto III e la Bolla per la squilla
della Campana al mezzogiorno.
Nostro intento dunque non è quello di
annoiarvi con la narrazione a freddo degli orrori di una sequela di guerre, i
cui motivi possono ritenersi oramai superati.
Vogliamo soltanto rilevare, a titolo
di doverosa giustizia, le fasi della resistenza eroica efficacissima di un gran
capitano di quel tempo assai travagliato ( seconda metà del XV secolo ), di un
capitano il quale, manovrando a capo di poche migliaia di connazionali
albanesi, con sagacia geniale ed inaudito coraggio, fermò da solo, al cospetto
dei coronati scettici e tremebondi d'Europa, la marcia degli sterminati
eserciti ognora rinnovantisi di due grandi sultani: Amurat II e Maometto II.
Un quarto di secolo di travaglio,
ventidue battaglie tutte vinte dal grande Albanese: ecco il fondo di un poema.
Questo gran capitano il quale fu
leggenda prima che morto, ed è esaltato come Dio endigete degli Albanesi.
Giorgio Kastriota Skanderbegh del
quale, con animo commosso di Albanese, se pure con forze impari all'argomento,
io mi accingo a parlarvi questa sera.
Cominciamo con lo stabilire che Egli
non era niente affatto re dell'Albania, per la semplice ragione che l'Albania -
o Schiperia - regione montuosa, impervia, da un crinale all'altro, era abitata
da plessi di popolo fieri della loro indipendenza, ma male disposti a
sopportare, in comune, un unico capo con legge unica.
All'approssimarsi dei turchi - secolo
XV - le diverse comunità confluivano verso un ordinamento di tipo gallico,
senza, cioè il capestro dell'investitura da parte del Gran Signore o della
Curia.
Molta influenza da parte di tre
famiglie: Tocco, Thopia-Commeno Castriota.
Estranee ed anche gelose l'una verso
l'altra, queste tre famiglie, erano fiancheggiate da quelle dei feudatari
minori.
Uno il pensiero vibrante in tutti: non
farsi rapire l'indipendenza politica e religiosa: imperioso bisogno naturale
nei popoli sopra tutto che respirano le libere aure delle impervie montagne.
Per resistere al gruppo compressore
arabo-turco, i popoli balcanici dall'Ungheria in giù, in prima linea gli
Albanesi, unitisi in lega, si prepararono, nell'inizio del quindicesimo secolo,
ad uno sforzo vigoroso che svogliasse il Sultano, avido di dominio, dal
procedere nella sua marcia verso il nord.
Se non che lo scontro riuscì - poiché
i Turchi erano nel ramo ascendente della parabola - sfortunato assai per i
cristiani, i quali furono sconfitti a Cassovia (1413). I vinti, piccoli popoli,
furono sottoposti a gravi tributi e Giovanni Castriota - padre del nostro eroe
- come attivo promotore della Lega ed oppositore irriducibile, fu sottoposto a
sanzione dura.
Il sultano Maometto I, il fortunato
vincitore, pretese dal Castriota, oltre un forte tributo, la consegna dei
quattro figli: Reposio, Giorgio, Stanisa e Costantino.
Segreto
intento del Sultano era questo: sopprimere col tempo i quattro figli ed alla
morte dello sfortunato padre loro, compiere l’annessione pura e semplice del
principato dei Castriota, come già di quelli degli altri principi limitrofi.
Lo sfortunato principe non tardò a
morire e Maometto I stabilì subito un forte presidio a Croia, la povera
capitale disgraziata del principato soppresso.
Dei quattro
figli, Reposio, Stanisa e Costantino furono fatti morire di veleno uno dopo
l’altro.
Campò solo Giorgio, non - bene inteso -
per bontà generosa del feroce nuovo sultano, il quale procedeva rigido e duro
nell’attuazione del suo piano politico. Amurad II aveva ragione di temere anzi
più che non gli altri, già soppressi, quel giovane assai valido. Ma peroravano
per lui, per Giorgio Castriota, le sue stesse alte qualità.
Pieno d’ingegno e prestantissimo di
corpo e di animo, Giorgio, che era stato arruolato per tempo, s’era dimostrato
subito in possesso di tutti i numeri per salire ad utile capitano.
Ben presto, infatti, fu assunto a Sangiacco, comandante
di oltre cinquemila combattenti. La sua presenza torreggiante al campo
infondeva il coraggio anche ai timidi e decideva, quasi sempre - parve miracolo
-, della vittoria.
In Asia, durante la guerra di repressione contro
Tamerlano, s’era tanto segnalato da diventare l’idolo dei soldati: furono essi
che lo soprannominarono Scanderbegh (Alessandro-signore).
Si capisce subito come il Sultano, in continua guerra,
non potesse desiderare la sparizione di un così formidabile condottiero, sul
quale anzi contava appunto pel buon esito della lunga serie di guerre da lui
previste, così per l’espansione, come per l’assestamento del suo Impero.
Lo Skanderbegh,
al suo ritorno in Europa, dovette comprimere i sussulti dell’animo
trambasciato, in attesa degli eventi da utilizzare per vendicare i suoi e
riconquistare la libertà politica e religiosa ai connazionali oppressi, che lui
guardava sospirando.
Lo eccitava, dice il De Rada, illustre glottologo e
poeta albanese, -“zonja mëm piak, me shertime”- la signora madre vecchia e
sospirosa.
Gli eventi maturarono rapidi.
*******
Ladislao, re d’Ungheria ed Uniade Corvino, gran
vaivodo di Transilvania, fiancheggiati dai popoli finitimi, mossero incontro
all’avanzante esercito del Sultano nel 1443, innalzando a vessillo la Croce.
Veniva incontro a loro Koran Pascià. In retroguardia, obbligato a marciare
anche il Sangiacco, Giorgio Scanderbegh.
Rapida risoluzione.
Ad un certo punto lo Scanderbegh si apparta con i più
fedeli seguaci, sequestra il segretario del Sultano ( che seguiva l’esercito
con i sigilli imperiali ) e l’obbligava a redigere un firmano diretto al
Governatore di Croia, per la consegna del castello e l’immediata trasmissione
dei poteri al nipote di Scanderbegh, Hamza, latore del firmano.
L’operazione non fu aliena dal sangue; ma è la guerra.
Il giorno
seguente giunge sul posto lo stesso Scanderbegh il quale spazza rapido la
guarnigione mussulmana, gjak ulku, sangue di lupo, ed issa la bandiera avita
coll’aquila nera in campo rosso e lo scudo crociato - contro il potentissimo
tiranno della Mezzaluna.
Traditore del sultano? E’ la guerra anche qui ed il
Sultano v’era dentro - e dentro il tradimento - da parecchio con la
sopraffazione ed i metodici avvelenamenti.
*******
Occorreva intanto organizzare in modo congruo la
resistenza alla spedizione punitiva che si sarebbe presto sferrata contro il
ribelle.
Quale fatica immane convogliare le volontà discordi
dei capi albanesi asserviti, in combutta o tremebondi.
Solo lo Scanderbegh, fidando nel proprio grande
scendente, poteva tentare questa prova con la speranza di poterla superare.
Con mossa fulminea e sicura, egli indisse un convegno,
in Alassio, tra i rappresentanti autorevoli delle svariate comunità. In quel
convegno egli parlò concitato, eloquente, animatore. D’incanto tacquero le
dubitazioni e tacquero le misere scambievoli animosità per gelosia.
Si decisero concordemente gli obblighi di sovvenzione
in uomini e in danaro, e si gridò con entusiasmo e gran fede a capitano generale
Skanderbegh, il quale versò subito nella Cassa Comune la dote cospicua che gli
portava la sposa Domenica Thopa-Comneno.
In breve tempo l’infaticabile eroe, presenziando
dappertutto e infondendo in tutti il suo leonino coraggio, mise insieme - che parve
miracolo - quindici mila uomini: pochi per fronteggiare per fronteggiare le
grandi masse che l’esasperato Sultano avrebbe spedite ma virtualmente molti
perché grandissima era la fede nella giustizia della causa e nel valore del
Capitano.
Infatti Scanderbegh fronteggiò con meravigliosa
sicurezza gli eserciti mussulmani, li sgominò e li sconfisse puntualmente,
ripetutamente.
E non aiuti dal papa, non dagli altri stati cristiani.
Sola eccezione Alfonso d’Aragona, il quale però da Napoli non inviò che 1.500
uomini.
Se non che a tutto suppliva l’Eroe con la genialità
sagace dei piani, con l’inesauribile fortilità istantanea degli espedienti.
Lo coadiuvavano come ufficiali di fiducia: Hamza,
figlio del fratello Reposio; Mosè Thopia, figlio della sorella Angela; Giorgio
Stresio, figlio della sorella Giela.
***********
Amurad II, sbrigatosi degli ungheresi, dopo la
vittoria di Varna, ordinò una nuova spedizione contro i ribelli Albanesi che
credeva di poter risottomettere rapidamente. Se non che dovette ricredersi.
Da gran tattico, Scanderbegh riuscì sempre ad attirare
i superbi pascià, coi loro pesanti eserciti, in posizioni per lui vantaggiose,
e li battè sempre clamorosamente.
Ci asteniamo, per ragioni ovvie, dal scendere ai
particolari, fissati in documenti ufficiali.
La genialità delle mosse è dimostrata dagli effetti
clamorosi.
Lo stesso Amurad II, avendo constatato che i suoi più
famosi generali erano stati puntualmente battuti l’uno dopo l’altro, pensò di
muovere lui stesso in persona con più numeroso esercito all’assedio della
minuscola Croja.
Ma
nulla.
E dovette, mortificato, chiedere - lui !- la tregua
che fu stabilita per un anno, prima, e poi rinnovata.
Scanderbegh ne approfittò per accorrere in aiuto a Ferdinando
II di Napoli, contrastato nella successione da un Angioino, fiancheggiato dal
principe Giovanni di Taranto. Già un anno prima il nipote di Scanderbegh,
Stresio, con un contingente di albanesi era passato nel napoletano.
Proteste, congiure, proposte lusinghiere da parte del
Principe di Taranto allo Scanderbegh: “Spectabilis
Magnifici et strenue vir, amise noster marissime”.
Risposta pronta, netta e dignitosa, e sbarco del
Castriota con nove mila albanesi splendidamente collaudati dalla guerra contro
il turco.
L’esercito di parte angioina, del quale, com’era
stabilito, doveva assumere il comando Piccinino, avea di già il sopravvento e
al giungere del principe albanese, lo stesso Ferdinando trovavasi assediato in
Barletta.
Il principe di Taranto ripiglia la penna. Non più le
lusinghe precorse. Esaltato dai successi, scrive: “Giovanni principe di Taranto
a Giorgio Kastriota Skanderbegh salute”. E il principe pieno di albagia,
continua: “Tu ti vanti di essere fortissimo guerriero della cristiana religione
e niente di meno proseguisci quella gente che con ogni ragione……Tu hai rivolto
il ferro contro i francesi, dei quali è il regno di Sicilia. Hai mai pensato
forse contro gli effeminati turchi e contro gli imbelli greci prendere la
pugna, dei quali sei solito ferire le spalle; altri uomini troverai quantunque
supportino il tuo fiero aspetto; nessuno fuggirà il tuo viso…..gente
vile…..pecore! Non troveresti impresso s’avessi possuto dimorare in casa tua:
l’impeto dei turchi, e non avendo possuto difendere la tua casa, hai pensato
d’invadere l’altrui; ti sei ingannato, eccetto se per caso ricerchi il tuo
sepolcro”.
La lunga invenie del principe oltremontano, che chiama
casa sua l’Italia, traduce il presentimento amarognolo della temuta imminente
sconfitta.
Lo Skanderbegh rimbecca pronto. Niente saluto
iniziale: “Havendo io fatto tregua con lo inimico della mia religione, non ho
voluto che il mio amico restasse fraudato del mio agiuto. Spesse volte Alfonso,
suo padre, mi soccorse in uomini e vettovaglie, mentre io guerreggiavo contro i
turchi”. E continua: “ Da dove ti viene questa autorità?….Io sono venuto in
aiuto di Ferrante, figliuolo del re della sede Apostolica, sono venuto
avversario della tua infedeltà e degli innumerabili tradimenti ai grandi di questo
regno”.
E all’Angioino che con gallica burbanza gli
contrapponeva la nobiltà secolare del casato rispondeva, concludendo la
lettera: “Si mutano li costumi e i Re all’aratro ritornano; né troverai nobiltà
più antica che la virtù”.
Conclusione.
Gli Angioini furono prontamente e definitivamente
sgominati ad Orsana di Puglia, nelle vicinanze di Troya, e Ferdinando fu
liberato e consolidato nel trono.
Grandi onori e feudi al principe liberatore.
Morto Amurad II°, gli era successo Maometto II° che
poco tempo dopo doveva espugnare Costantinopoli: E da Costantinopoli ad evento
compiuto, egli scriveva al caro Giorgio con dolce stile per rabbonirlo: “…..ci
siamo cresciuti insieme…..Domando libero il passaggio per guerreggiare contro i
Veneziani. Intanto rinnoviamo la tregua”.
Risposta di Skanderbegh: “Tregua si, ma niente
passaggio in danno della serenissima”.
Nel 1464 Croja è riassediata e Maometto II° dal campo
scrive con grande esasperazione a Turkin Pascià, governatore di Costantinopoli:
“ Tutti i miei generali sono stati battuti, le mie armate umiliate fino a
dovermi muovere io stesso alla testa dei miei giannizzeri.”.
E in altra lettera successiva: “Io sono nella
disperazione per non essere riuscito nell’assedio di questa piccola capitale
dell’Albania. (Eran bastate sette settimane di assedio per Costantinopoli e in
venti anni non si era riuscita ad espugnare la piccola Croja!). Tutti gli
assalti –prosegue Maometto- dati a questa piazza, difesa da quel leone di
Skanderbegh, non mi hanno prodotto che la perdita dei più scelti ufficiali e di
ventimila uomini che compiango.”
Nel 1465 la resistenza si contava a decenni e
l’assedio fu dovuto levare.
Lo Skanderbegh ne approfittò per riallacciare fra loro
i componenti della Lega, tra cui non mancavano gli stanchi, i trepidi ed anche
i disposti alla fellonia, da sorvegliare.
Se egli avea
potuto durare nella immane epica lotta era stato perché i forti montanari,
alieni da malsane ambizioni, seguivano, volenti pure i feudatari, con fiducia
ed ardore, il prodigioso eroe.
Questi poi non solo sapea mettere in meravigliosa
potenza le masse che lo seguivano, ma valea da solo, per il terrore che
infondeva con la sua torreggiante presenza nell’animo dei turchi (si scrisse
averne egli ucciso non meno di duemila), l’apporto di moltissimi combattenti.
Il duplice ricorrente trionfo sulle insidie dei
feudatari che l’attorniavano e sui nemici esterni lo eleva ancora più alto sul
piedistallo - se è vero che l’acciaro dell’anima, nell’eroe, è saggiato dai
forti ostacoli che gli si adergono contro e sui quali egli, se vale davvero
–fede e forza- deve sapere trionfare.
Anche lui, il nostro eroe, come cinque secoli dopo
Giuseppe Mazzini, aveva esclamato nell’ansito del travaglio: “ Non un amico che
non mi abbia tradito”.
Ma che importa quando si è forti davvero?
Molti i felloni! Nominiamone solo qualcuno. Come il
diamante si lavora solo con la propria polvere, così il sultano si venne
persuadendo che solo servendosi degli stessi Albanesi,, avrebbe potuto
abbattere finalmente Skanderbeg.
Primo a tradire fu il nipote Mosè Thopia.
Conquistato dall’oro di Maometto, egli disertò per
tornare da rinnegato capitano al comando di venticinquemila musulmani, contro
lo zio e controla travagliata patria.
Scanderbeg gli uscì incontro con dodicimila esasperati
albanesi, lo sconfisse, lo trasse prigioniero e…… gli perdonò.
E’ vero che
il perdonato si riabilitò poi combattendo con rinnovato fervore per la causa
nazionale.
Ed ecco il
tradimento di un altro, Stresio, vendutosi per trenta mila argenti. Ma, prigioniero
pur lui puntualmente.
Terzo
traditore fu Hamza, figlio dell’avvelenato fratello di Scanderbeg. Hamza era
anche stimolato dalla moglie turca, residente a Costantinopoli.
Presi in
segreto gli accordi, fece anche costui – Hamza – il passo turpe. Maometto II,
che lo apprezzava assai, lo proclamò addirittura re dell’Epiro ed alla testa di
un esercito lo spedì fiducioso contro Skandebeg. Se non che questo terzo
traditore è battuto. Esposto prima al pubblico ludibrio, è poi mandato in
custodia nei sotterranei del Castelnuovo di Napoli.
Ecco un
quarto e desistiamo poi dalla enumerazione.
Bellabano,
figlio di un vassallo dei Castriota, trovandosi prigioniero, fu arruolato. Con
rapide promozioni elevato a Sangiacco, è spedito pur lui da rinnegato spavaldo
a capo di un esercito contro la propria patria.
Skanderbeg
puntualmente disperde gli assalitori e ne uccide lo spregevole capitano.
Tra una
battaglia e l’altra, il forte difensore della Croce si rivolgeva con insistenza
ai re cristiani minacciati e soprattutto al papa, cui spedì inutilmente
Zaccaria Groppa.
Ricevette da
tutti espressioni di alto plauso e promesse perfino di una crociata con lui –
Skanderbeg – a capo. Gran desiderio questo di del papa Pio II°. Ma di positivo
niente.
Pio II°,
umanista spregiudicato, era tutto preso dal fasto pagano, negazione in pieno
del Cristianesimo buono. Indisse egli, è vero, una crociata, nel 1458, ed
ordinò, per questo, anche un Concilio a Mantova. Qui, come riferisce il
Villari, convennero settanta tra cardinali e vescovi e un gran numero di
principi secolari. Ma non fu che una buona occasione per isfoggiare in
impressionanti pompe mondane per le diverse città.
A Firenze,
scrive sempre il Villari nel Savonarola, il pontefice entrò sulle spalle di
Galeazzo Maria Sforza e dei signori Malatesta, Manfredi ed Odescalchi…. e così
a Ferrara ed altrove.
Nient’altro.
Era l’aria
dei tempi. Tempi in cui, come ricorda il Cappelletti, si potè ritenere non
disdicevole ilo collocamento delle Tre Grazie nude nella sagrestia di Siena.
Tutto questo
in antitesi coll’ingenua, sincera, fervida fede gelosamente cristiana degli
eroici Skipetari.
Il papa
tornò a Ferrara l’anno dopo: e il Duca, per ingraziarsi con lui, ecco che lo
accoglie alle sponde del Po in mezzo ad una corona di statue… pagane. Pio II°
ringraziò in latino elegante incastonato di reminiscenze virgiliane: e sulla
crociata in fiori …. si tirò un crocone.
Questo.
E contro le grettezze e la scettica giocondità
spensierata della Curia ha parole di fiera rampogna perfino Pompilio Rodotà,
uno stimato dignitario della Repubblica Vaticana.
Scettica
giocondità pagana che emerse anche nella scenografia costosa con cui in quel
torno lo stesso Pio II accolse se a Ponte Molle, in mezzo ad un corto fastoso
di cardinali, alcune reliquie inviate dal despota imbelle di Morea, per
preservar1e dal sicuro scempio dell'avanzantesi Sultano.
********
Scanderbeg,
durante una tregua stabilita da pari a pari con Maometto, fu anche, di
nascosto, a Roma nel 1466 ed abitò nei pressi del Quirinale – com’è ricordato
dal nome di una vicina strada. Fu acco1to dal nuovo papa. Paolo II, ma. non
ebbe che parole di una notevole ammirazione, il titolo di "Defensor
Fidei" e di “Athleta Christi” e tre mila scudi.
Tre mila scudi
da1 capo della cristianità, mentre Maometto II, per non averlo nemico, avrebbe
profuso l’oro a quintali….; Maometto di cui ricordansi le parole: Se Scanderbeg
non fosse nato, io avrei messo il turbante sulla testa del papa. e la mezza
luna sul Castel Sant 'Angelo.
Giudizio
probante questo come proveniente dalla bocca amara del grande avversario;
giudizio che richiama, a conferma, quello posteriore di Voltaire: “Se
gl’imperatori greci fossero stati degli Scanderbegh, Costantinopoli non sarebbe
battuta”.
Ben inteso,
tra parentesi, che non noi sottoscriviamo alla strapotenza carlailiana degli
eroi: la storia e il risultato di mille forze in atto che l'eroe può dominare e
dirigere in qualche modo, ma non crearla dovesse mancano: e mancavano, lo
sappiamo, nella pettegoleggiante, infrollita. Bisanzio.
Certo, non
fu inutile alle persone trepide d'Europa che lo Scanderbegh, seguito dai suoi
forti Skipetari, abbia contrapposto una, muraglia infrangibile al procedere di
Maometto II bel periodo di azione più aggressiva. di questo grande Sultano,
consentendo così che si venissero organizzando le resistenze da parte della
insonnolita miope politica europea, paralizzata dalle gelosie.
* * * *
Durante "L'ultimo convegno in Alessio, verso la
fine del I467, Scanderbegh, nella pienezza dell'efficienza sua, ammalò
gravemente (si parlò anche di veleno). Costernazione in tutti ed anche nei
medici il cui intevento si chiariva inefficace.
La leggenda, che della vita di quel grande di era
impossessata, l’accompagnò anche all’approssimarsi della morte.
Si riferì che l’Eroe, chiamato presso il letto il più
valido dei parenti (il disgraziato suo unico figlio non contava che undici anni
appena) gli ordinò:
- Fatemi
condurre qui davanti un ttoro - një dem.
Fu obbedito. Ad un giovane parente:
- Mir
maxieren time (lo spadone famoso ) e, d 'un colpo stacca il collo al toro.
Il giovane parente vi provò, ma fu vano il colpo.
Con uno
sforzo, l’agonizzante Eroe, ergendosi a mezza vita, , brandì il pesante spadone
e, dopo averne baciata la croce, troncò con un colpo vigoroso il collo del
toro.
Ahimè - esclamò, ricadendo esausto sul letto- glie
maxieren po io crafun tim! (lascio lo spadone, ma non il mio braccio!)
Furono le sue ultime parole (11-6-1468).
* * * * * *
Spirato l'Eroe, Lec Ducagini, come pazzo, si diede a
correre per le vie di Alessio: e tutti a stracciarsi le vesti.
Se non che - ed ecco un’altra leggenda riferita da
Elena Ghika - i maggiorenti stabilirono di dissimulare il duolo della grande
sventura per non incoraggiare l’avanzata del nemico.
Fu così che in una battaglia subito dopo avvenuta,
issando sul gran cavallo bianco la sagoma di un guerriero con le armi ed il
pennacchio bianco del temuto leone di Kroja, decisero ancora una volta la
vittoria della Croce sulla mezzaluna.
Dopo la conquista dell’Albania che seguì rapida, i
giannizzeri violarono in Alessio la Tomba dell’Eroe che li aveva tanto
terrorizzati in vita per impadronirsi come talismano dei pezzetti delle ossa da
portare a preservazione indosso.
Morto Skanderbegh – riferisce Walter Scott a p.61 del
secondo volume su Napoleone – Maometto II esclamò: “Ormai chi può impedirmi la
sottomissione dei Cristiani? Hanno perduto la loro spada ed il loro scudo”.
Dei Cristiani tutti? – Vanteria infondata, perché le
nazioni europee si venivano destando, oramai pronte a fronteggiare il nemico
comune.
Ma la povera Albania – questa si – era destinata al
crollo.
Caduta Kroja, cominciò il doloroso esodo, specialmente
dei ghieghi, albanesi del nord, più fieramente gelosi della propria indipendenza.
Quante accorate rapsodie. (2)
Eccone un
brano toccante anche nella versione italiana:
“Tutta vestita in gramaglie
uscì una fanciulla dall’abitato
e andò a prendere la benedizione,
la benedizione dalla terra natia.
S’imbattè nel gelso nero e
sospirando
Ne spezzo un ramo frondoso;
s’imbatte nel melo e sospirando
ne spezzo un ramoscello con le mele
bianche;
raccolse poi molti fiori nel
grembiule;
non poté più reggersi in piedi
e proruppe in singhiozzi:
Addio terra nostra, noi ti
abbandoniamo!
Ma questi fiori avvizziranno,
morranno,
non morra il nostro affetto per te,
moi e bukura
More! (O bella Morea)”
Un altro canto comincia così:
Glixan shpin
me scertime
E u gramistin ndir suvagliat
Lasciarono la casa nei singulti
E si precipitarono tra le onde
mosse.
Il Papa
Paolo II lasciò scritto: " Non si può senza versare lacrime contemplare
l’approdo di queste navi e lo spettacolo delle tante famiglie ignude, meschine
che, scacciate dalle loro abitazioni, stanno sedute sulla riva del mare e
stendono le nani al cielo, facendo risonare l'aria di lamenti in ignota
favella" .
I profughi
presero diverse direzioni; ma i più toccarono le coste calabresi, dove, per
essi, sorsero e s'ingrandirono una cinquantina. di villaggi che furono in gran
parte, prima bilingui a causa del nucleo etnico preesistente divennero in
seguito - per la sana plusvalenza demografica dei sopraggiunti - ab integro
albanesi, nella lingua, nelle vesti e nei costumi. Sentonsi però italianissimi
ormai tutti.
Traiettoria
storica conseguita beninteso attraverso un calvario.
I profughi
albanesi, poveri ed angariati, in un primo tempo conobbero tutte le umiliazioni
dello sfruttamento duramente perpetrato su di essi dai fratelli di Cristo che
li ospitavano.
Nelle
capitolazioni stipulate dai profughi di Firmo (facciamo una breve citazione per
tutte) coi Dominicani di Altomonte (in provincia di Cosenza, nel 1503) leggesi:
“ Per ciascheduno abitante in ditto terreno jornata una omne volta che saranno
chiamati …. Et portare una gallina che faccia l’ovo, alli dritti frati, oltre
le decime di omne animali selvatici e de porci domestici”.
E’ ben vero che l’operosità degli sfruttati albanesi
assicurò loro, dopo qualche secolo, l’incontrastata egemonia nei villaggi e
l’ascesa ai diritti civili nella nuova patria, ma l’accedere fu un calvario. (3)
Intanto ben presto s’impose il problema dei servizi
del culto in quel divelto presso etnico irriducibilmente fedele al rito greco.
Si dovette vincere la resistenza sorda ed ostinata dei
vescovi latini; ma alla fine il buon senso ed il senso di comprensione della
Curia l’imposero. E sorsero per la preparazione dei sacerdoti di rito greco pro
colonie albanesi due Collegi seminari: uno a Palermo, l’altro in provincia di
Cosenza, a San Benedetto Ullano, trasferitosi poi a San Demetrio Corone.
Quest’ultimo divenne famoso per l’eccellenza raggiunta
nell’insegnamento delle lingue classiche come famoso per i sentimenti liberali
onde vibravano maestri ed alunni. Pertanto, persecuzioni dai re borbonici come
poi lodi e sussidi da Garibaldi.(4)
Il fastoso
rito greco permane ancora quasi invariato nelle colonie albanesi, i cui
sacerdoti però, per inevitabile adattamento, dovettero fare atto di concordata
sottomissione al capo, della cattolicità.
Da qui la loro denominazione di greci-uniti.
* * * * * *
Uno studio di facili ricerche dimostrerebbe come gli
Albanesi poterono ben presto, nelle nuove terre, ripigliarsi, ed anche
distinguersi per la grande resistenza agli ostacoli.
All'uomo di ferroche fu Sisto V pulsava nelle arterie,
per via della madre, il sangue albanese, ed a lui devesi il Collegio di
Sant'Anastasio per la preparazione dei sacerdoti delle colonie albanesi.
Albanese fu Francesco Crispi il cui zio fu Rettore di
un Collegio Italo-Greco in Palermo.
Il 15 maggio 1844 scoppiò in Cosenza. la rivoluzione
contro i poteri del Borbone, rivoluzione che incoraggiò subito dopo l'
intervento Ricciotti Bandiera.. Ebbene, la metà dei sollevati e poi incriminati
e condannati erano albanesi.
Il 1848 li trova pure pugnaci e in gran numero nelle
gole di Campotenese, dove comandante delle masse degli antiborbonici è un
grande albanese, Domenico Mauro. Da Campotenese tre audaci albanesi: Francesco
Tocci, Domenico Chiodi e Vincenzo Mauro, mossero audaci contro le baionette del
generale borbonico Lanza. Arrestati, morirono gridando fino all'ultimo respiro:
"Abbasso il borbone!".
Ho viva
l'impressione del racconto che di tale morte facevami il venerando e benemerito
Guglielmo Tocci in Cosenza.
Seguirono poi il scioglimento delle masse ed i
processi presso la Gran Corte Speciale: e impressionante fu il numero degli
albanesi relegati nelle isole.
Così anche nei moti posteriori. Ma io son qui per esaltare
le virtù di un gruppo etnico oramai saldamente unito ed assimilato nel ceppo
italico, e mi tarda di concludere (ho anzi molto abusato della vostra pazienza
con la mia quasi digressione) sul conto del nostro eroe Scanderbegh.
Purtroppo la discendenza diretta di Lui non beneficiò
della vigorosa e vittoriosa. plus valenza biologica. che ha caratterizzato in
genere le famiglie Albanesi spinte violentemente in Italia, ma esse in terra
italiana, si moltiplicarono valide e prestanti: muscoli e cervello .
Il figlio di Scanderbegh si ritirò nelle Puglie, dove
il re aragonese aveva, per gratitudine, assegnato ricchi feudi alla famiglia
Castriota. Se nonché i feudi ben presto furon dovuti devolvere alla Corona per
mancanza di prole maschile diretta: ultimo duca, senza, figli, quello di
S.Pietro in Galatina, di nome Giovanni.
Si direbbe che l'Eroe avesse esaurito in se
-validissimo- anche la valenza fisica e morale della sua diretta. discendenza.
Ben inteso
che si stentò a persuadersene: e ben molti riuscirono a farsi ritenere
discendenti diretti, direttissimi del famoso Eroe. Uno, lestofante maiuscolo,
riuscì ad emballer nientemeno che il famoso scaltro romanziere Dumas padre, che
al seguito di Garibaldi nel 1860 trovavasi in Napoli....
Della eccezionale vigoria fisica del Castriota
testimonia la grande, pesantissima corazza che Elena Ghika aveva ammirata al
Museo Viennese e che recentemente fu donata al re Zogu I. La quale corazza ed
il vigore di chi la portava in guerra, ci porge l’occasione di riferire un ultimo
aneddoto e avrò finito davvero intorno allo Skanderbeg.
Niccolò Piccinino, famoso condottiero, si trovò a
Venezia contemporaneamente al difensore dell’Albania.
L’illustre capitano di ventura chiese al Doge del
tempo (1465), Cristoforo Moro, di essere presentato al principe illustre che la
serenissima, grata, festeggiava.
Nel vasto salone del palazzo ducale Skanderbegh
torreggiava festeggiato.
Presentazione a lui del Piccinino: ed ecco che l’eroe
albanese si avanza giovialmente, solleva tra le braccia il mortificato e
tremebondo condottiero (tremebondo perché si era ad un finestrone), lo bacia e
lo ripone giù in piedi delicatamente.
Gioconda
meraviglia ed applausi. Applausi mentre poco dopo lo attendeva la morte in
Alessio.
Skanderbeccu ai pa fan (senza corte).
Così lo cantarono i poeti.
Contrassegno fatale di vera grandezza anche questo.
Anche lui come due altri schipetari – Achille ed Alessandro Magno- cadde
tragicamente a missione incompiuta!
1)
Barbagallo: Storia Universale
2)
Margherita Tarocchi ha scritto Scanderbeide, lodata da Torquato Tasso.
3) Pompilio Rodotà, nel suo poderoso volume intorno al rito greco in
Italia, tratta diffusamente delle Colonie albanesi acclimatate in Italia,
soprattutto nella, Provincia di Cosenza, dove il principe di Bisignano
imparentato con gli Scanderbegh aveva vastissimi feudi.
4) Rettore e professori, coi fremiti liberi del sangue albanese nelle vene,
attesero costanti ad accendere nell'animo dei giovani l'aspirazione verso
un'Italia civilmente redenta. Un funzionario della tirannia borbonica così
riferiva al Ministro della Polizia in Napoli: “Il Rettore Elmo è pietra di
scandalo politico nel Collegio di Sant'Adriano, perché egli colà - centro delle
colonie albanesi che sono tutte liberali - riunisce le fila di tutti gli
attendibili, tiene segreta corrispondenza con Cosenza e Napoli, e per le spese
di questo genere devia le rendite di quel Collegio. E’ arrivato fino a dare
asilo in Sant’Adriano ai tri patrioti Raffaele, Mauro e Vincenzo Sprovieri.
Così ha reso il Collegio una fucina. di rivoluzionari. Egli difende i4 più
efferati nemici del trono come Antonio Marchianò, i fratelli Mauro, Luci di
Spezzano, Damis di Lungro ed altri esecrabili" .
Agesilao
Milano che in giorno solenne di rivista assaltò con la baionetta Ferdinando II
di Borbone era albanese ed era alunno di quel Collegio, che il chiamava “covo
di vipere e fucina del diavolo" .
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