La Storia del Rito
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Uno degli aspetti
tradizionali più gelosamente custoditi dagli albanesi in Italia è quello
religioso. Ancora oggi in buona parte delle comunità italo-albanesi si mantiene
vivo il rito greco-bizantino. Alquanto interessante risulta l’esame della
parabola che ha portato la Chiesa Universale a dividersi in una Chiesa
d’Occidente ed in una Chiesa d’Oriente e quante difficoltà hanno avuto gli
albanesi a conservare il loro essere Chiesa d’Oriente in Italia, patria della
Chiesa d’Occidente. La presenza della tradizione della Chiesa Orientale in
Italia ha origini antiche: esse risalgono alla prima metà del VI secolo, quando
Giustiniano, Imperatore dell’Impero Romano d’Oriente, s’impossessò dell’Italia.
Questo dominio si prolungò durante gli anni, anche se successivamente interessò
solamente le regioni meridionali dell’Italia, che vanno dalla Puglia alla
Calabria e fino alla Sicilia. In questo contesto un avvenimento di grande
interesse per la Chiesa di tradizione orientale in Italia furono le migrazioni
di moltitudini di monaci che, perseguitati dagli imperatori avversari del culto
delle sacre immagini, i cosiddetti iconoclasti, lasciarono la loro terra e si
stabilirono in Italia, soprattutto in Sicilia, dove, benchè sempre soggetti al
dominio di Costantinopoli, trovarono requie. La conquista della Sicilia da parte
degli arabi spinse questi monaci ad emigrare verso la Calabria. In questa
regione si assiste perciò ad una grande fioritura del monachesimo basiliano,
detto così perchè i monaci si ispiravano alla regola di San Basilio. Poi anche
per quest’ordine iniziò lento ma inesorabile il declino. Già verso la metà del
XV secolo il cardinale Bessarione sui monaci greci d’Italia così si esprimeva: “
La maggior parte di essi ignora la lingua greca quanto gli italiani, e non sa
neppure leggere l’alfabeto di San Basilio. Altri, che hanno imparato a leggere
il greco, non comprendono il senso di quanto leggono. Un numero piccolissimo di
essi, un po' più istruiti, lo capiscono appena”1(Batiffol 35). La vicenda di
questi epigoni della Chiesa Orientale in terra d’Italia stava per esaurirsi,
quando, a rinvigorire quella tradizione, arrivarono gli albanesi. Così il Rodotà
nella sua solita ridondante prosa riassume gli avvenimenti: “Dell’albore eccelso
simbolo del grecome Imperio abbattuto, le radici trapiantate in Italia sarebbero
state miseramente svelte, se, stando questo per esalare l’ultimo respiro, non ne
avesse Iddio riparata, d’una maniera meravigliosa, l’imminente rovina. Per farlo
risorgere nelle medesime Provincie, si valse delle oppressioni degli Albanesi, i
quali dopo i marziali cimenti sostenuti pel corso d’alcuni lustri contro
l’audace Ottomano, obbligati finalmente a cedere alla poderosa possanza di lui,
vennero a stabilire la loro sede in queste Regioni, e vi trapiantarono anche il
rito greco nativo, che tuttora costantemente ritengono”... Tra l’arrivo dei
monaci orientali e quello degli albanesi un grave evento aveva turbato la
pacifica convivenza tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente: lo scisma.
Nel 1054, con il reciproco anatema tra il Patriarca di Costantinopoli, Michele
Cerulario, e il Papa di Roma, Leone IX, i destini della Chiesa Cattolica e della
Chiesa Ortodossa andarono dividendosi. Gli albanesi che raggiunsero l’Italia
durante il XV secolo appartenevano alla Chiesa d’Oriente, e precisamente al Rito
Bizantino. Giuridicamente la Chiesa d’Albania negli ultimi due secoli del I
millennio era stata soggetta al Patriarcato di Costantinopoli. Tuttavia allorchè
Costantinopoli cadde in mano turca e quando successivamente l’ Albania fu
occupata dai Normanni, di fatto, il Patriarcato di Costantinopoli non rivendicò
più questo suo potere. Nel XV e XVI secolo si era consolidata in quella regione
una situazione che faceva dipendere tutta l’Albania dall’Arcivescovo di Ocrida
che poteva fregiarsi del titolo di Arcivescovo di tutta l’Albania. La stessa
giurisdizione dell’Arcivescovo di Ocrida si estendeva anche sugli albanesi
d’Italia. Questa situazione è stato uno dei motivi per cui anche le autorità
ecclesistiche accolsero di buon grado i fedeli d’oriente. Altro motivo storico è
da ricercare in ciò che accadde nel 1439 con il Concilio di Firenze. A quel
Concilio parteciparono tutti i rappresentanti delle Chiese d’Oriente e di
Occidente, che alla fine dei lavori firmarono un documento formale d’intesa,
sancendo l’unione tra le due Chiese. Appena giunti a Costantinopoli i gerarchi
della Chiesa d’Oriente che avevano firmato l’intesa dovettero subire la dura
contestazione del popolo, che, per varie ragioni, che spesso esulavano dal
contesto religioso, non voleva l’unità. Sopraffatti dalla contestazione
denunciarono che il loro consenso era stato estorto dai rappresentanti della
Chiesa d’Occidente, di conseguenza l’unione sancita a Firenze non era valida.
Nonostante ciò la Chiesa d’Oriente non ripudiò ufficialmente il Concilio di
Firenze se non nel 1484 quando, in un sinodo riunito a Costantinopoli, stabilì
la formula per ricevere i latini che si convertivano 3. Tra il 1439 ed il 1484,
dunque, almeno ufficialmente, la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente erano
tornate all’unità, appartenevano all’unica Chiesa indivisa. A questa Chiesa a
pieno titolo può ascriversi la Chiesa Cattolica-greco-bizantina degli albanesi
d’Italia.
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La giurisdizione
religiosa sugli albanesi d’Italia
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In questo clima
l’Arcivescovo di Ocrida nomina Pafnuzio metropolita d’Italia. Una volta nominato
lo invia dal Papa, il quale aveva la giurisdizione su tutta l’Italia, affinchè
comandasse agli albanesi d’Italia di obbedire a Pafnuzio. Il Papa Giulio III
accettò l’invito, nominò Pafnuzio Arcivescovo di Agrigento ed in un Breve che
gli consegnò affermava che il nuovo metropolita poteva liberamente esercitare il
suo ministero e che nessuno doveva impedirglielo. In pratica le attività che
poteva svolgere Pafnuzio erano la celebrazione, l’amministrazione dei sacramenti
secondo i riti, i costumi, le tradizioni e le osservanze della Chiesa Orientale,
con l’unico limite di non generare il pericolo negli animi e di non derogare
dalla rettitudine ecclesiastica. Questo caso esprime una situazione di comunione
tra due tradizioni ecclesiali che vivono integrate sullo stesso territorio in
pieno accordo gerarchico. Prima di Pafnuzio il metropolita per gli albanesi
d’Italia fu Giacomo, che visse fino al 1543, il secondo fu Pafnuzio, che come si
è detto fu nominato direttamente dall’arcivescovo di Ocrida, e che morì nel
1566; poi venne Timoteo, già vescovo di Corizza; infine Acacio Casnesio, ultimo
metropolita di Agrigento, ma che di fatto non potè mai esercitare le sue
prerogative 4. Tale situazione, che si basava sullo spirito di unione stabilito
a Firenze, rese possibile l’emanazione di alcune decisioni papali. Il documento
più esplicito è il Breve di Leone X “Accepimus nuper” del 18 maggio 1521. In
questo documento il papa confermava il libero esercizio delle proprie tradizioni
per tutti i fedeli di rito greco, permetteva la celebrazione dei sacramenti per
i fedeli orientali anche nel territorio di un vescovo latino ed imponeva ai
vescovi latini di avere un vicario generale orientale in caso di presenza di
fedeli orientali nei territori sottoposti alla loro cura spirituale. Nulla mutò
fino al Concilio di Trento.
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Il Concilio di
Trento
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I canoni approvati
nel concilio di Trento non riguardavano specificatamente i fedeli orientali,
tuttavia alcune decisioni incidevano profondamente sul rapporto di convivenza
ormai instauratosi tra questi e la Chiesa d’Occidente. I canoni più marcatamente
contrari al regime antecedente riguardavano le visite pastorali dei vescovi i
quali “ogni anno sono tenuti a visitare con autorità apostolica tutte le
chiese”. Oppure il canone che riguardava le ordinazioni il quale proibiva a
chiunque di essere ordinato sacerdoto da un vescovo diverso da quello ordinario
del luogo di dimora 5. I decreti del Concilio di Trento erano stati approvati da
qualche mese, quando una serie di segnalazioni, provenienti dai primi vescovi
riformatori trasferitisi in alcune diocesi dell’Italia meridionale, cominciarono
a porre la Santa Sede di fronte alla sussistenza di una gerarchia episcopale e
di un clero, che amministravano i sacramenti ed esercitavano giurisdizione nel
territorio di quelle diocesi, ma lo facevano nella consapevolezza di dipendere
ecclesiasticamente non dal Papa bensì dal Patriarca di Costantinopoli6. A questo
punto intervenne direttamente il Papa Pio IV che con il Breve Romanus Pontifex,
del 16 febbraio 1564, abrogò le esenzioni ed i privilegi concessi dai pontefici
precedenti, sottomise le comunità orientali alla giurisdizione dei vescovi
ordinari latini. Neanche il documento pontificio sortì l’effetto sperato.
Qualche anno dopo i vescovi calabresi, in particolare Prospero Vitaliani di
Bisignano e Ludovico Owen di Cassano, chiesero alla Santa Sede di intervenire
coercitivamente contro i sacerdoti albanesi perchè professavano opinioni
eretiche. Le “opinioni eretiche” professate dagli albanesi, che restavano fedeli
alla propria tradizione, riguardavano il battesimo che si amministrava con
l’olio Santo benedetto dagli stessi preti e, nel corso della stessa cerimonia,
l’eucarestia che si dava agli infanti inferiori all’età della ragione; la
cresima, che era conferita dagli stessi sacerdoti; il ripudio della moglie
adultera, seguito da nuove nozze; le festività del calendario liturgico che non
coincidevano con quelle dei latini. Quanto alla fede, qualcuno non credeva nel
purgatorio e nessuno credeva alla processione dello Spirito Santo anche dal
Figlio (Filioque)7. Il 20 agosto 1566 Papa Pio V firmò la Bolla Providentia
Romani Pontificis, con la quale vietò tassativamente ogni tipo di duttilità e
promiscuità liturgica e revocò ai sacerdoti di entrambi i riti tutti i
precedenti permessi di celebrare il culto divino secondo l’uso dell’una o
dell’altra Chiesa, quando questo non fosse il proprio. Ma anche questo
intervento non ottenne i risultati che si prefiggeva in quanto, in mancanza di
un prete greco e nell’impossibilità dei preti latini di celebrare nel rito non
proprio, gli albanesi si rifiutavano di “odir da lui messa, nè ricever
sacramenti, nè accostarsi in Chiesa”, così si esprimeva l’arcivescovo Santoro di
Santa Severina in Calabria. Un trattamento più radicale fu introdotto per i
vescovi ortodossi che mantenevano la cura pastorale degli albanesi e delle
comunità di origine greca. La Curia Romana trasmise agli ordinari latini delle
diocesi, in cui tali presuli visitavano gruppi di fedeli, l’ordine di
denunciarli, di trattenerli e di trasferirli incarcerati a Roma. Ogni esercizio
di sacra giurisdizione, che risultasse indipendente da quella suprema del
Pontefice Romano, appariva inammissibile 8. Ma neanche questa minaccia fece
recedere i fedeli di rito greco-bizantino dalle loro pratiche religiose. Visti
gli insuccessi dei precedenti interventi, la Curia Romana cercò di affrontare il
problema degli Italo-albanesi in modo diverso. Fu così che nel 1573 sotto il
pontificato di Gregorio XIII fu istituita la Congregazione dei Greci ( la curia
Romana mai differenziò gli italo-albanesi dagli italo-greci, chiamandoli sempre
con quest’ultima formula). Grazie a questo organismo, e soprattutto grazie
all’attività del suo presidente, l’arcivescovo di Santa Severina Giulio Antonio
Santoro, la presenza di questa frangia orientale in Italia cessò di essere un
problema da risolvere con l’annientamento. Analizzando i fatti storici appare
evidente che il compito della Congregazione sarebbe dovuto essere quello di
portare i fedeli orientali sotto le ali della Chiesa d’Occidente. Non si poteva
intervenire sul rito perchè era evidente che quei fedeli non l’avrebbero mai
abbandonato. Occorreva aggirare l’ostacolo per spezzare il loro legame con
Costantinopoli. La soluzione si trovò nell’ individuazione di un vescovo di rito
greco, però cattolico, abilitato ad ordinare in debita e legittima forma nuovi
sacerdoti albanesi e greci. Questa istanza fu fatta propria dal Papa Clemente
VIII che la recepì nel documento pontificio noto come Perbrevis Instructio del
31 agosto 1595. Il primo vescovo orientale per origine ecclesiastica e per rito,
soggetto direttamente all’autorità del Pontefice Romano fu il cipriota Germano
Kouskonaris, il quale, fuggito da Famagosta e abiurata l’ortodossia, viveva
stentatamente a Roma come Cappellano del Collegio Greco. L’evoluzione avuta nel
campo ecclesiologico si può ormai sintetizzare. Dal punto di vista romano non
esistevano più due chiese, due comunità con propria tradizione liturgica,
spirituale, disciplinare e teologica, in piena comunione; ma una sola Chiesa nel
cui ambito si trovavano delle comunità cattoliche che potevano mantenere parte
della loro tradizione, ma non una propria gerarchia . La presenza di un vescovo
ordinante per i preti greci rendeva gli stessi preti abili all’esercizio del
loro ministero, ma nulla più. Alcuni di loro, non accettati dai feudatari del
luogo, subirono feroci persecuzioni. E’ questo il caso del sacerdote Nicola
Basta di Spezzano Albanese che per essersi opposto alla latinizzazione del suo
paese fu incarcerato nel castello di Terranova, dove il 31 agosto 1666 morì di
stenti. Di lì a poco Spezzano Albanese avrebbe perso definitivamente il rito
greco a favore di quello latino; su questa strada molte altre comunità albanesi
la seguirono.
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Il collegio
greco di Roma
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Come per i monaci
greci del XV secolo, anche per i sacerdoti italo-albanesi dei secoli successivi
si poneva il problema della preparazione culturale, teologica e pastorale. Le
parole di Mons. Filoteto Zassi, Arcivescovo di Durazzo e vescovo ordinante nel
collegio greco di Roma, rendono l’idea della situazione: “L’ordinati
dell’italo-greci per il passato sono stati per lo più ignorantissimi, e quindi
ordinati più per compassione di non mandarli indietro dopo essersi portati da si
lontani paesi tra mille strapazzi e spese, che per merito di dottrina ... per lo
più sono venuti tali, che ho avuto che sudare et io et altri non solamente
settimane, ma mesi ancora per farli giungere al primo grado di abilità”. Per far
fronte a questo scadimento nella preparazione dei preti di rito greco che
avevano come maestri i sagrestani ed i preti loro predecessori, il Papa Clemente
XII, dietro insistenza di Felice Samuele Rodotà -- che poi diventerà il primo
presidente -- fonda a San Benedetto Ullano il collegio “Corsini”, dal nome
gentilizio del Papa. Nel 1794 il collegio verrà trasferito a San Demetrio Corone
presso la ricca Badia dei monaci basiliani. Ben presto la formazione morale ed
intellettuale dei giovani che uscivano da quella scuola conferì stima e fama
all’istituto, che formava i sacerdoti ed i professionisti laici dei paesi
albanesi. Due anni dopo la fondazione del collegio Corsini in Calabria, ne fu
fondato uno anche in Sicilia, a Palermo. In tal guisa i futuri sacerdoti delle
popolazioni albanesi avevano gli istituti formativi minori nella propria terra,
mentre a Roma fin dal 1577 era operante il Collegio Greco per gli studi
superiori.
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I vescovi
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ordinanti Con la
bolla Superna Dispositione del 10 giugno 1732 Papa Clemente XII nominò il
presidente del Collegio Corsini, vescovo titolare, cui spettava espressamente la
funzione di ordinare i sacerdoti di rito greco-bizantino per le comunità di
Calabria. Altre prerogative di questi vescovi riguardavano la conduzione del
seminario sottratto alla giurisdizione dell’ordinario del luogo, e la
celebrazione delle cresime. Essi non avevano nessuna giurisdizione sul clero e
sui fedeli di rito orientale, giurisdizione che rimaneva totalmente in mano ai
vescovi latini.
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L’Etsi pastoralis
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Grazie
all’istituzione prima del collegio greco di Roma e poi dei collegi minori di
Calabria e di Sicilia, il patrimonio religioso degli albanesi d’Italia poteva
essere conservato con sicure possibilità di successo. La nuova stagione non ci
sarebbe stata se non l’avesse preceduta una lunga e tenace fedeltà del popolo e
del clero alle proprie radici e forme religiose, portate con sè nel cuore, nelle
precarie e disagiate traversate marittime, come la più preziosa delle pochissime
cose che il duro ed obbligato esilio permise di traslocare . Questa nuova
situazione esacerbò ancor più gli animi di coloro che volevano eliminare la
tradizione greca nella Chiesa Romana. Spinto da costoro il Papa Benedetto XIV
emanò il 26 maggio 1742 la Bolla Etsi pastoralis. Essa conteneva prescrizioni di
ordine liturgico, come l’introduzione del Filioque nel simbolo
niceno-costantinopolitano da recitarsi nella liturgia orientale; altre di ordine
canonico come l’impossibilità del marito di abbracciare il rito orientale della
moglie, la quale era tenuta ad uniformarsi al rito del coniuge latino; per
contro, alla moglie latina era precluso analogo passaggio se il marito era di
rito orientale; i figli dovevano seguire il rito del padre, salvo che la moglie
latina non volesse educarli nel proprio rito. Infine stabiliva la supremazia del
rito latino su quello greco. Ad una prima lettura, l’Etsi Pastoralis appare come
una legge nettamente contraria al rito greco, ma, come Benedetto XV due secoli
più tardi ebbe modo di rilevare, quella normativa era dettata dallo spirito di
preservare il rito greco, voluto dal disegno divino, e per evitare i contrasti
che sorgevano tra gli ordinari latini ed i fedeli e i sacerdoti albanesi. In
altri termini l’Etsi pastoralis con la sua regolamentazione, certamente
restrittiva, garantì agli albanesi di tradizione orientale un ambito in cui
poter sopravvivere.
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L’istituzione
delle eparchie
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Col passare del
tempo, però, diventava sempre più manifesta per i fedeli italo-albanesi la
necessità di una dimensione stabile e visibile di una Chiesa con un proprio
territorio, stretta attorno ad un proprio vescovo. Tale esigenza, avvertita già
da tempo presso gli italo-albanesi, diveniva sempre più impellente mano a mano
che si constatava come il vescovo greco ordinante continuava ad essere
considerato in una posizione di inferiorità rispetto a quello ordinario latino,
e questa inferiorità era sentita anche da tutta la popolazione di cui si
occupava. Le comunità italo-albanesi più volte hanno espresso a Roma il loro
malumore per la prassi canonica instaurata: le loro richieste divennero
pressanti verso la fine del secolo scorso. Nel 1888 gli italo-albanesi inviarono
al Papa una supplica, per reclamare l’autonomia ecclesiastica, corredata da
migliaia di firme. In quel tempo Pontefice era Leone XIII, che mostrava
particolare interesse per l’Oriente. A lui successe Benedetto XV, che istituì
l’Eparchia di Lungro per gli albanesi di Calabria e dell’Italia continentale.
Pio XI nel 1937 ha istituito l’Eparchia di Piana degli Albanesi per gli albanesi
di Sicilia, e nello stesso anno ha elevato a Monastero esarchico il cenobio di
Grottaferrata. L’Eparchia di Lungro è stata istituita il 13 febbraio 1919 con la
Bolla Catholici fideles; primo vescovo fu nominato Mons. Giovanni Mele, nato ad
Acquaformosa nel 1885 .
Eparchia di Lungro
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sabato 23 febbraio 2013
Storia del Rito Bizantino degli Albanesi d'Italia
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