mercoledì 27 febbraio 2013

Lezioni dal Professore Matteo Mandalà ( Giuseppe Serembe)

Giuseppe Serembe (1843-1891)

di Matteo Mandalà  (Ordinario di Lingua e Letteratura Albanese all'Università di Palermo)

Giuseppe Serembe è universalmente considerato il poeta simbolo delle inquietudini romantiche rappresentate nella letteratura arbëreshe. La sua vita come le sue opere ancora oggi costituiscono oggetto di studio ed entrambe sembrano accumunate dal medesimo destino: l’una e le altre caotiche, dispersive e incostanti. Ricordo ancora con emozione il giorno in cui ebbi modo di sfogliare i manoscritti che si conservano presso l’Albansk Samling di Kopenhagen meritoriamente costituito da Giuseppe Gangale. Così come stimolante si rinnova il contatto con le lettere originali che Serembe inviò Giuseppe Schirò e che ho ritrovato nell’archivio privato del poeta di Piana. I rapporti tra i due furono brevi ma intensi, come documenta la parte pervenuta del loro epistolario e come testimoniò lo stesso Schirò nel suo giornale Arbri i rii, ricordando la visita che Serembe compì a Piana dei Greci. Di questo sodalizio tra poeti ci è pervenuto un altro documento, oggi custodito da un altro poeta, Giuseppe Schirò Di Maggio, che qualche anno fa lo ha pubblicato corredandolo con un’analisi testuale degna della migliore tradizione filologica. Schirò Di Maggio collazionando due varianti della poesia, ha evidenziato numerose differenze che comprovano interventi non autografi che hanno “profanato” i testi originali. Anche questo fatto depone a favore di una urgente e rigorosa edizione critica sull’esempio e sul modello dei tentativi finora compiuti da Domenico Cassiano, Giuseppe Gradilone e, soprattutto, da Vincenzo Belmonte. Parafrasando Belmonte, possiamo dire che la ricerca del Serembe "perduto" è destinata a continuare… confidiamo nelle iniziative degli studiosi più giovani !

sabato 23 febbraio 2013

Storia del Rito Bizantino degli Albanesi d'Italia


 

La Storia del Rito

Uno degli aspetti tradizionali più gelosamente custoditi dagli albanesi in Italia è quello religioso. Ancora oggi in buona parte delle comunità italo-albanesi si mantiene vivo il rito greco-bizantino. Alquanto interessante risulta l’esame della parabola che ha portato la Chiesa Universale a dividersi in una Chiesa d’Occidente ed in una Chiesa d’Oriente e quante difficoltà hanno avuto gli albanesi a conservare il loro essere Chiesa d’Oriente in Italia, patria della Chiesa d’Occidente. La presenza della tradizione della Chiesa Orientale in Italia ha origini antiche: esse risalgono alla prima metà del VI secolo, quando Giustiniano, Imperatore dell’Impero Romano d’Oriente, s’impossessò dell’Italia. Questo dominio si prolungò durante gli anni, anche se successivamente interessò solamente le regioni meridionali dell’Italia, che vanno dalla Puglia alla Calabria e fino alla Sicilia. In questo contesto un avvenimento di grande interesse per la Chiesa di tradizione orientale in Italia furono le migrazioni di moltitudini di monaci che, perseguitati dagli imperatori avversari del culto delle sacre immagini, i cosiddetti iconoclasti, lasciarono la loro terra e si stabilirono in Italia, soprattutto in Sicilia, dove, benchè sempre soggetti al dominio di Costantinopoli, trovarono requie. La conquista della Sicilia da parte degli arabi spinse questi monaci ad emigrare verso la Calabria. In questa regione si assiste perciò ad una grande fioritura del monachesimo basiliano, detto così perchè i monaci si ispiravano alla regola di San Basilio. Poi anche per quest’ordine iniziò lento ma inesorabile il declino. Già verso la metà del XV secolo il cardinale Bessarione sui monaci greci d’Italia così si esprimeva: “ La maggior parte di essi ignora la lingua greca quanto gli italiani, e non sa neppure leggere l’alfabeto di San Basilio. Altri, che hanno imparato a leggere il greco, non comprendono il senso di quanto leggono. Un numero piccolissimo di essi, un po' più istruiti, lo capiscono appena”1(Batiffol 35). La vicenda di questi epigoni della Chiesa Orientale in terra d’Italia stava per esaurirsi, quando, a rinvigorire quella tradizione, arrivarono gli albanesi. Così il Rodotà nella sua solita ridondante prosa riassume gli avvenimenti: “Dell’albore eccelso simbolo del grecome Imperio abbattuto, le radici trapiantate in Italia sarebbero state miseramente svelte, se, stando questo per esalare l’ultimo respiro, non ne avesse Iddio riparata, d’una maniera meravigliosa, l’imminente rovina. Per farlo risorgere nelle medesime Provincie, si valse delle oppressioni degli Albanesi, i quali dopo i marziali cimenti sostenuti pel corso d’alcuni lustri contro l’audace Ottomano, obbligati finalmente a cedere alla poderosa possanza di lui, vennero a stabilire la loro sede in queste Regioni, e vi trapiantarono anche il rito greco nativo, che tuttora costantemente ritengono”... Tra l’arrivo dei monaci orientali e quello degli albanesi un grave evento aveva turbato la pacifica convivenza tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente: lo scisma. Nel 1054, con il reciproco anatema tra il Patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, e il Papa di Roma, Leone IX, i destini della Chiesa Cattolica e della Chiesa Ortodossa andarono dividendosi. Gli albanesi che raggiunsero l’Italia durante il XV secolo appartenevano alla Chiesa d’Oriente, e precisamente al Rito Bizantino. Giuridicamente la Chiesa d’Albania negli ultimi due secoli del I millennio era stata soggetta al Patriarcato di Costantinopoli. Tuttavia allorchè Costantinopoli cadde in mano turca e quando successivamente l’ Albania fu occupata dai Normanni, di fatto, il Patriarcato di Costantinopoli non rivendicò più questo suo potere. Nel XV e XVI secolo si era consolidata in quella regione una situazione che faceva dipendere tutta l’Albania dall’Arcivescovo di Ocrida che poteva fregiarsi del titolo di Arcivescovo di tutta l’Albania. La stessa giurisdizione dell’Arcivescovo di Ocrida si estendeva anche sugli albanesi d’Italia. Questa situazione è stato uno dei motivi per cui anche le autorità ecclesistiche accolsero di buon grado i fedeli d’oriente. Altro motivo storico è da ricercare in ciò che accadde nel 1439 con il Concilio di Firenze. A quel Concilio parteciparono tutti i rappresentanti delle Chiese d’Oriente e di Occidente, che alla fine dei lavori firmarono un documento formale d’intesa, sancendo l’unione tra le due Chiese. Appena giunti a Costantinopoli i gerarchi della Chiesa d’Oriente che avevano firmato l’intesa dovettero subire la dura contestazione del popolo, che, per varie ragioni, che spesso esulavano dal contesto religioso, non voleva l’unità. Sopraffatti dalla contestazione denunciarono che il loro consenso era stato estorto dai rappresentanti della Chiesa d’Occidente, di conseguenza l’unione sancita a Firenze non era valida. Nonostante ciò la Chiesa d’Oriente non ripudiò ufficialmente il Concilio di Firenze se non nel 1484 quando, in un sinodo riunito a Costantinopoli, stabilì la formula per ricevere i latini che si convertivano 3. Tra il 1439 ed il 1484, dunque, almeno ufficialmente, la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente erano tornate all’unità, appartenevano all’unica Chiesa indivisa. A questa Chiesa a pieno titolo può ascriversi la Chiesa Cattolica-greco-bizantina degli albanesi d’Italia.


La giurisdizione religiosa sugli albanesi d’Italia


In questo clima l’Arcivescovo di Ocrida nomina Pafnuzio metropolita d’Italia. Una volta nominato lo invia dal Papa, il quale aveva la giurisdizione su tutta l’Italia, affinchè comandasse agli albanesi d’Italia di obbedire a Pafnuzio. Il Papa Giulio III accettò l’invito, nominò Pafnuzio Arcivescovo di Agrigento ed in un Breve che gli consegnò affermava che il nuovo metropolita poteva liberamente esercitare il suo ministero e che nessuno doveva impedirglielo. In pratica le attività che poteva svolgere Pafnuzio erano la celebrazione, l’amministrazione dei sacramenti secondo i riti, i costumi, le tradizioni e le osservanze della Chiesa Orientale, con l’unico limite di non generare il pericolo negli animi e di non derogare dalla rettitudine ecclesiastica. Questo caso esprime una situazione di comunione tra due tradizioni ecclesiali che vivono integrate sullo stesso territorio in pieno accordo gerarchico. Prima di Pafnuzio il metropolita per gli albanesi d’Italia fu Giacomo, che visse fino al 1543, il secondo fu Pafnuzio, che come si è detto fu nominato direttamente dall’arcivescovo di Ocrida, e che morì nel 1566; poi venne Timoteo, già vescovo di Corizza; infine Acacio Casnesio, ultimo metropolita di Agrigento, ma che di fatto non potè mai esercitare le sue prerogative 4. Tale situazione, che si basava sullo spirito di unione stabilito a Firenze, rese possibile l’emanazione di alcune decisioni papali. Il documento più esplicito è il Breve di Leone X “Accepimus nuper” del 18 maggio 1521. In questo documento il papa confermava il libero esercizio delle proprie tradizioni per tutti i fedeli di rito greco, permetteva la celebrazione dei sacramenti per i fedeli orientali anche nel territorio di un vescovo latino ed imponeva ai vescovi latini di avere un vicario generale orientale in caso di presenza di fedeli orientali nei territori sottoposti alla loro cura spirituale. Nulla mutò fino al Concilio di Trento.


Il Concilio di Trento


I canoni approvati nel concilio di Trento non riguardavano specificatamente i fedeli orientali, tuttavia alcune decisioni incidevano profondamente sul rapporto di convivenza ormai instauratosi tra questi e la Chiesa d’Occidente. I canoni più marcatamente contrari al regime antecedente riguardavano le visite pastorali dei vescovi i quali “ogni anno sono tenuti a visitare con autorità apostolica tutte le chiese”. Oppure il canone che riguardava le ordinazioni il quale proibiva a chiunque di essere ordinato sacerdoto da un vescovo diverso da quello ordinario del luogo di dimora 5. I decreti del Concilio di Trento erano stati approvati da qualche mese, quando una serie di segnalazioni, provenienti dai primi vescovi riformatori trasferitisi in alcune diocesi dell’Italia meridionale, cominciarono a porre la Santa Sede di fronte alla sussistenza di una gerarchia episcopale e di un clero, che amministravano i sacramenti ed esercitavano giurisdizione nel territorio di quelle diocesi, ma lo facevano nella consapevolezza di dipendere ecclesiasticamente non dal Papa bensì dal Patriarca di Costantinopoli6. A questo punto intervenne direttamente il Papa Pio IV che con il Breve Romanus Pontifex, del 16 febbraio 1564, abrogò le esenzioni ed i privilegi concessi dai pontefici precedenti, sottomise le comunità orientali alla giurisdizione dei vescovi ordinari latini. Neanche il documento pontificio sortì l’effetto sperato. Qualche anno dopo i vescovi calabresi, in particolare Prospero Vitaliani di Bisignano e Ludovico Owen di Cassano, chiesero alla Santa Sede di intervenire coercitivamente contro i sacerdoti albanesi perchè professavano opinioni eretiche. Le “opinioni eretiche” professate dagli albanesi, che restavano fedeli alla propria tradizione, riguardavano il battesimo che si amministrava con l’olio Santo benedetto dagli stessi preti e, nel corso della stessa cerimonia, l’eucarestia che si dava agli infanti inferiori all’età della ragione; la cresima, che era conferita dagli stessi sacerdoti; il ripudio della moglie adultera, seguito da nuove nozze; le festività del calendario liturgico che non coincidevano con quelle dei latini. Quanto alla fede, qualcuno non credeva nel purgatorio e nessuno credeva alla processione dello Spirito Santo anche dal Figlio (Filioque)7. Il 20 agosto 1566 Papa Pio V firmò la Bolla Providentia Romani Pontificis, con la quale vietò tassativamente ogni tipo di duttilità e promiscuità liturgica e revocò ai sacerdoti di entrambi i riti tutti i precedenti permessi di celebrare il culto divino secondo l’uso dell’una o dell’altra Chiesa, quando questo non fosse il proprio. Ma anche questo intervento non ottenne i risultati che si prefiggeva in quanto, in mancanza di un prete greco e nell’impossibilità dei preti latini di celebrare nel rito non proprio, gli albanesi si rifiutavano di “odir da lui messa, nè ricever sacramenti, nè accostarsi in Chiesa”, così si esprimeva l’arcivescovo Santoro di Santa Severina in Calabria. Un trattamento più radicale fu introdotto per i vescovi ortodossi che mantenevano la cura pastorale degli albanesi e delle comunità di origine greca. La Curia Romana trasmise agli ordinari latini delle diocesi, in cui tali presuli visitavano gruppi di fedeli, l’ordine di denunciarli, di trattenerli e di trasferirli incarcerati a Roma. Ogni esercizio di sacra giurisdizione, che risultasse indipendente da quella suprema del Pontefice Romano, appariva inammissibile 8. Ma neanche questa minaccia fece recedere i fedeli di rito greco-bizantino dalle loro pratiche religiose. Visti gli insuccessi dei precedenti interventi, la Curia Romana cercò di affrontare il problema degli Italo-albanesi in modo diverso. Fu così che nel 1573 sotto il pontificato di Gregorio XIII fu istituita la Congregazione dei Greci ( la curia Romana mai differenziò gli italo-albanesi dagli italo-greci, chiamandoli sempre con quest’ultima formula). Grazie a questo organismo, e soprattutto grazie all’attività del suo presidente, l’arcivescovo di Santa Severina Giulio Antonio Santoro, la presenza di questa frangia orientale in Italia cessò di essere un problema da risolvere con l’annientamento. Analizzando i fatti storici appare evidente che il compito della Congregazione sarebbe dovuto essere quello di portare i fedeli orientali sotto le ali della Chiesa d’Occidente. Non si poteva intervenire sul rito perchè era evidente che quei fedeli non l’avrebbero mai abbandonato. Occorreva aggirare l’ostacolo per spezzare il loro legame con Costantinopoli. La soluzione si trovò nell’ individuazione di un vescovo di rito greco, però cattolico, abilitato ad ordinare in debita e legittima forma nuovi sacerdoti albanesi e greci. Questa istanza fu fatta propria dal Papa Clemente VIII che la recepì nel documento pontificio noto come Perbrevis Instructio del 31 agosto 1595. Il primo vescovo orientale per origine ecclesiastica e per rito, soggetto direttamente all’autorità del Pontefice Romano fu il cipriota Germano Kouskonaris, il quale, fuggito da Famagosta e abiurata l’ortodossia, viveva stentatamente a Roma come Cappellano del Collegio Greco. L’evoluzione avuta nel campo ecclesiologico si può ormai sintetizzare. Dal punto di vista romano non esistevano più due chiese, due comunità con propria tradizione liturgica, spirituale, disciplinare e teologica, in piena comunione; ma una sola Chiesa nel cui ambito si trovavano delle comunità cattoliche che potevano mantenere parte della loro tradizione, ma non una propria gerarchia . La presenza di un vescovo ordinante per i preti greci rendeva gli stessi preti abili all’esercizio del loro ministero, ma nulla più. Alcuni di loro, non accettati dai feudatari del luogo, subirono feroci persecuzioni. E’ questo il caso del sacerdote Nicola Basta di Spezzano Albanese che per essersi opposto alla latinizzazione del suo paese fu incarcerato nel castello di Terranova, dove il 31 agosto 1666 morì di stenti. Di lì a poco Spezzano Albanese avrebbe perso definitivamente il rito greco a favore di quello latino; su questa strada molte altre comunità albanesi la seguirono.


Il collegio greco di Roma


Come per i monaci greci del XV secolo, anche per i sacerdoti italo-albanesi dei secoli successivi si poneva il problema della preparazione culturale, teologica e pastorale. Le parole di Mons. Filoteto Zassi, Arcivescovo di Durazzo e vescovo ordinante nel collegio greco di Roma, rendono l’idea della situazione: “L’ordinati dell’italo-greci per il passato sono stati per lo più ignorantissimi, e quindi ordinati più per compassione di non mandarli indietro dopo essersi portati da si lontani paesi tra mille strapazzi e spese, che per merito di dottrina ... per lo più sono venuti tali, che ho avuto che sudare et io et altri non solamente settimane, ma mesi ancora per farli giungere al primo grado di abilità”. Per far fronte a questo scadimento nella preparazione dei preti di rito greco che avevano come maestri i sagrestani ed i preti loro predecessori, il Papa Clemente XII, dietro insistenza di Felice Samuele Rodotà -- che poi diventerà il primo presidente -- fonda a San Benedetto Ullano il collegio “Corsini”, dal nome gentilizio del Papa. Nel 1794 il collegio verrà trasferito a San Demetrio Corone presso la ricca Badia dei monaci basiliani. Ben presto la formazione morale ed intellettuale dei giovani che uscivano da quella scuola conferì stima e fama all’istituto, che formava i sacerdoti ed i professionisti laici dei paesi albanesi. Due anni dopo la fondazione del collegio Corsini in Calabria, ne fu fondato uno anche in Sicilia, a Palermo. In tal guisa i futuri sacerdoti delle popolazioni albanesi avevano gli istituti formativi minori nella propria terra, mentre a Roma fin dal 1577 era operante il Collegio Greco per gli studi superiori.


I vescovi


ordinanti Con la bolla Superna Dispositione del 10 giugno 1732 Papa Clemente XII nominò il presidente del Collegio Corsini, vescovo titolare, cui spettava espressamente la funzione di ordinare i sacerdoti di rito greco-bizantino per le comunità di Calabria. Altre prerogative di questi vescovi riguardavano la conduzione del seminario sottratto alla giurisdizione dell’ordinario del luogo, e la celebrazione delle cresime. Essi non avevano nessuna giurisdizione sul clero e sui fedeli di rito orientale, giurisdizione che rimaneva totalmente in mano ai vescovi latini.




L’Etsi pastoralis


Grazie all’istituzione prima del collegio greco di Roma e poi dei collegi minori di Calabria e di Sicilia, il patrimonio religioso degli albanesi d’Italia poteva essere conservato con sicure possibilità di successo. La nuova stagione non ci sarebbe stata se non l’avesse preceduta una lunga e tenace fedeltà del popolo e del clero alle proprie radici e forme religiose, portate con sè nel cuore, nelle precarie e disagiate traversate marittime, come la più preziosa delle pochissime cose che il duro ed obbligato esilio permise di traslocare . Questa nuova situazione esacerbò ancor più gli animi di coloro che volevano eliminare la tradizione greca nella Chiesa Romana. Spinto da costoro il Papa Benedetto XIV emanò il 26 maggio 1742 la Bolla Etsi pastoralis. Essa conteneva prescrizioni di ordine liturgico, come l’introduzione del Filioque nel simbolo niceno-costantinopolitano da recitarsi nella liturgia orientale; altre di ordine canonico come l’impossibilità del marito di abbracciare il rito orientale della moglie, la quale era tenuta ad uniformarsi al rito del coniuge latino; per contro, alla moglie latina era precluso analogo passaggio se il marito era di rito orientale; i figli dovevano seguire il rito del padre, salvo che la moglie latina non volesse educarli nel proprio rito. Infine stabiliva la supremazia del rito latino su quello greco. Ad una prima lettura, l’Etsi Pastoralis appare come una legge nettamente contraria al rito greco, ma, come Benedetto XV due secoli più tardi ebbe modo di rilevare, quella normativa era dettata dallo spirito di preservare il rito greco, voluto dal disegno divino, e per evitare i contrasti che sorgevano tra gli ordinari latini ed i fedeli e i sacerdoti albanesi. In altri termini l’Etsi pastoralis con la sua regolamentazione, certamente restrittiva, garantì agli albanesi di tradizione orientale un ambito in cui poter sopravvivere.




L’istituzione delle eparchie


Col passare del tempo, però, diventava sempre più manifesta per i fedeli italo-albanesi la necessità di una dimensione stabile e visibile di una Chiesa con un proprio territorio, stretta attorno ad un proprio vescovo. Tale esigenza, avvertita già da tempo presso gli italo-albanesi, diveniva sempre più impellente mano a mano che si constatava come il vescovo greco ordinante continuava ad essere considerato in una posizione di inferiorità rispetto a quello ordinario latino, e questa inferiorità era sentita anche da tutta la popolazione di cui si occupava. Le comunità italo-albanesi più volte hanno espresso a Roma il loro malumore per la prassi canonica instaurata: le loro richieste divennero pressanti verso la fine del secolo scorso. Nel 1888 gli italo-albanesi inviarono al Papa una supplica, per reclamare l’autonomia ecclesiastica, corredata da migliaia di firme. In quel tempo Pontefice era Leone XIII, che mostrava particolare interesse per l’Oriente. A lui successe Benedetto XV, che istituì l’Eparchia di Lungro per gli albanesi di Calabria e dell’Italia continentale. Pio XI nel 1937 ha istituito l’Eparchia di Piana degli Albanesi per gli albanesi di Sicilia, e nello stesso anno ha elevato a Monastero esarchico il cenobio di Grottaferrata. L’Eparchia di Lungro è stata istituita il 13 febbraio 1919 con la Bolla Catholici fideles; primo vescovo fu nominato Mons. Giovanni Mele, nato ad Acquaformosa nel 1885 .
 
 
 
Eparchia di Lungro
 





    venerdì 22 febbraio 2013

    II Congresso di Studi Linguistici Albanesi (Lungro, 20-21 febbraio 1897)



     

     

    Dopo il I Congresso tenutosi a Corigliano Calabro, nel 1895, gli Arbereshe decisero di tener convegno a Lungro, riteunta la capitale delle comunità albanofone, il 20 e 21 febbraio del 1897.

    Nella lettera di avviso per la riunione da tenersi nella «patriottica Lungro» si pregavano tutti quegli italo-albanesi, al quali riusciva difficile essere presenti, di farsi rappresentare o aderire in altro modo. Una preghiera particolare veniva, poi, rivolta ai

    sindaci delle colonie ai quali si ricordava che era opera altamente decorosa e doverosa « per noi stessi, per la nostra nazionalità, per la nostra lingua, per la nostra letteratura » , aderire con deliberazioni prese da Consigli Comunali o dalle Giunte.

    Venne eletto vice presidente il Sindaco di Lungro, Nicola Irianni, mentre le funzioni di segretario furono assolte dal professor Camillo Vaccaro (1).

    Vi intervennero Vincenzo Bugliari, Giuseppe Ciaramella e Michele Calvosa da Santa Sofia d'Epiro; Francesco Chinigò da San Giorgio Albanese; Raffaele Corrado e Luciano Frascino da Firmo; Anselmo e Luigi Lorecchio da Pallagorio; Domenico Antonio Marchese da Macchia; Giosafatte Bellizzi da Frascineto e Giuseppe Aronne, Salvatore Elmo e Martino Cucci dalla vicina Acquaformosa (2).

    Molti altri aderirono per mezzo di telegrammi, come lo Schirò, il Camodeca, il Conforti, il Lusi, mentre Antonio Argondizza si era già posto su un piano di aperta rottura.

    Girolamo De Rada pronunziò il discorso inaugurale in albanese e, nella stessa lingua, parlò il capitano Pasquale Trifilio.

    Uno dei convenuti, Angelo Damis, enunciò i motivi per i quali l'Albania doveva essere annessa al regno d'Italia.

    Come era avvenuto nel precedente congresso di Corigliano, si fecero voti perché venisse istituita la cattedra di lingua albanese presso l'Istituto Orientale di Napoli (3).

    Ne mancò, anche questa volta, il telegramma di Francesco Crispi: «Ricambio il saluto con l'augurio di una vicina redenzione dei nostri fratelli che sono al di là dell'Adriatico, ancora sotto la tirannide del turco » .

    Le acque del piccolo mondo italo-albanese sono, però, già agitate. Il periodico « Ili Arbresvet », che era nato come organo della Società Nazionale fondata nel congresso di Corigliano, vive stentatamente e il suo direttore Antonio Argondizza, un uomo intelligente e ricco di una notevole vena poetica, ma con un temperamento focoso e ribelle, se ne serve per polemizzare aspramente.

    Il comunicato che egli pubblica all'annunzio della convocazione del secondo congresso, è eloquente a questo riguardo.

    Sorge la contestazione, come accade oggi, perfino sulla scelta della sede. «Perché Lungro, che non ha fornito un solo socio (tranne l'illustre generale Damis, residente in Napoli) e non San Demetrio Corone che, compresi il rione Macchia e il Collegio, conta 15 soci tra fondatori ed ordinari, e che in forza dell'articolo 2 dello Statuto fondamentale della Società è la sede di essa? » (4).

    E poi che nell'avviso di convocazione si accenna, tra l'altro, alla opportunità di provvedere alla pubblicazione di una rivista italo-albanese, l'Argondizza incalza: «Pubblicare una rivista italo-albanese? ma questa che si sta pubblicando è dunque araba o cinese? » (5).

    Altri appunti vengono mossi perché il decreto di convocazione è datato da Pallagorio, mentre la residenza del Presidente è Castroregio (6), e poi ancora perché reca la firma del De Rada, il quale, essendo presidente onorario, non « c'entra nell'amministrazione e nei decretali della Società ».

    Le contestazioni continuano: «Perché riunire il secondo congresso nel cuore dell'inverno? Forse -insinua l'Argondizza - per evitare grosso concorso e scodellare in famiglia?

    E questo non è tutto, perché nel quarto numero dell'Ili i Arbresvet, che fu pure l'ultimo e che egli pubblicò a proprie spese, narra un episodio dal quale emerge chiaro che i suoi rapporti con gli altri galantuomini arbëreshë sono ormai definitivamente rotti.

    « L 'otto gennaio del 1897 - scrive l' Argondizza - mi trovavo in San Demetrio Corone. Innanzi al municipio incontrai un amico, che, dopo i complimenti di uso, mi chiese a brucia pelo: « Dunque avremo presto il secondo congresso? ».

    - Non ne so nulla, gli risposi.

    - Possibile! riprese l'amico sorridendo - D. Girolamo De Rada ha promesso di riunirlo in Lungro nel prossimo mese di febbraio, e qui non vi è chi lo ignori.

    - Ma De Rada - osservai io - è presidente onorario e la convocazione del congresso appartiene, invece, alla presidenza effettiva.

    Eppoi queste riunioni esigono la stagione estiva; chi vorreste che viaggiasse nel cuore dell'inverno?

    -E' vero questo - 'amico a me -e la stessa difficoltà si è fatta a D. Girolamo il quale rispose: « Anzi è la stagione più propizia; perché il tempo dell'uccisione dei maiali » (7).

    Nello stesso numero della rivista l'Argondizza, dopo una serie di considerazioni, si congeda dai lettori: «Considerando che se la fiducia riposta in me dal 1. Congresso Albanese del primo ottobre 1895, nominandomi ad unanimità Direttore della rivista

    Italo - Albanese « Ili arbresvet » (La Stella degli Albanesi) mi imponeva degli obblighi morali, il programma della Presidenza, datato a Pallagorio, il 27 gennaio 1897, mi scioglieva da ogni impegno e da ogni obbligo morale e materiale; considerando che mio unico dovere come Direttore, era di fornire materiale letterario della Stella degli Albanesi, senza obbligo di provvedere alle spese di pubblicazione; ed io solamente ho fornito tale materiale, ma dei quattro fascicoli pubblicati della rivista, tre furono fatti e spediti a mie spese; considerando che, non avendo assunto alcun obbligo ne di carica, ne personale coi socii e cogli abbonati della Rivista e che non avendo esatto un centesimo da chicchessia, non mi credo tenuto a rispondere di nulla; per tali considerazioni mi sento in diritto di rassegnare pubblicamente le mie dimissioni da Direttore della rivista italo-albanese «Ili i arbresvet » come le rassegno risolutamente col presente scritto» (8). E fu la fine della rivista!

    Nella tornata del 21 febbraio si trattò la parte dell'ordine del giorno che riguardava la revisione e la modifica dello Statuto provvisorio della Società Nazionale. Tra gli scopi che essa si prefiggeva di raggiungere -ricerca di un alfabeto, compilazione di un dizionario, pubblicazione di una rivista italo-albanese - restava in piedi l'esigenza dell'apertura di relazioni con la madre patria.

    Quali modifiche vengono apportate allo Statuto? La sede della Società che, a norma dell 'articolo 2, era stata fissata a San Demetrio Corone, viene trasferita a Lungro.

    Nell'elenco dei congressisti non figura alcun cittadino di San Demetrio: e questo è sintomatico. Una presa di posizione o un palese atto di sabotaggio per qualche notizia trapelata circa il cambiamento della sede sociale? (9).

    Vivacissime dispute si accendono intorno all'articolo 10, in virtù del quale « è esclusa ogni discussione politica dalla Società e dalla Rivista» .

    Angelo Damis spiega i motivi per i quali egli ritiene che questo articolo debba essere modificato nel senso che la Società e la rivista possano e debbano occuparsi di tutto quanto giovi alle aspirazioni albanesi. Raffaele De Marco si associa con un lungo

    discorso alla proposta del Damis, aggiungendo che non si può - trattare della cultura della lingua senza fare, anche non volendo, della politica.

    Camillo Vaccaro propone la radiazione pura e semplice dell'articolo che viene così eliminato, proprio perché non si riesce a trovare quel compromesso di cui siamo diventati maestri noi moderni ed al quale, però, non si ricorreva allora perché nessuno era disposto a sacrificare la propria opinione e a mettere da parte il proprio punto di vista.

    In realtà, dopo qualche anno, della Società Nazionale restava solo il nome.

    Come vedremo, nel breve corso di un decennio nelle colonie italo-albanesi si succederanno comitati e società, senza, però, riuscire ad affermarsi su salde basi o espletare il programma proposto. Il problema sollevato interesserà, però, altra gente e

    il movimento uscirà dallo stretto ambito della provincia per risalire verso Napoli e verso Roma.

    (1) Camillo Vaccaro, nato a Lungro nel 1865, fu educatore e filosofo stimato dall'Ardigò e dal Lombroso. Maestro nel senso più ampio del termine, fondò a Lungro una sua scuola, alla quale attinsero il sapere diverse generazioni di professionisti e di operai. Visse gli ultimi anni della sua vita a Roma tra i suoi libri e i suoi ricordi e mori più che nonagenario il 1956.

    (2) A costoro si unì una larga schiera di cittadini di Lungro: Giovanni Damis, Angelo Santoianni, Ambrogio e Pasquale Irianni, Giovanni Aragona, Giovanni Vincenzo Leccadito, Costantino Cucci fu Domenico, Francesco De Marchis, Archilao e Scipione De Lorenzo, Alfonso Nociti, Giorgio Vaccaro, Pietro Bavasso, Nicola a Pasquale Trifilio, Raffaele Dramis, Costantino Belluscio, Achille e Nicola Irianni, Giovanni Vincenzo Straticò, Raffaele De Marco, Ferruccio Martino, Ferdinando Manes, Serafino Rennis di Raffaele, Francesco Dramis, Alberto Barberuni, Ugo Strocchì, Alfonso e Gìovannì Irìannì, Amerìgo e Bettìno Santoìanni, Pasquale Manes, Raffaele Belluscio, Raffaele Vaccaro, Giuseppe Cucci, Giovanni Vincenzo Martino, Pietro Martino fu Ambrosio, Francesco Sciuti, Andrea Ferraro, Costantino Bavasso, Vincenzo Russo, Pietro Straticò, Pasquale Lauriti di Ettore, Vincenzo Frascini, Luigi Pisani, Luigi Straticò, Domenico De Marco, Nicola Minervini, Nicola Martino, Domenico Damis, Aquilino Vaccaro, Francesco Ferraro e Francesco Martini di Vincenzo.

    ( 3) La richiesta, indirizzata al Crispi, presidente del Consiglio dei Ministri, e sottoscritta da centinaia di italo-albanesi, era del seguente tenore: « Noi sottoscritti, cittadini di ...Colonia Albanese nella Provincia di ...facciamo voti al Governo di S. M. il Re per la istituzione di una cattedra di lingua albanese nel R. Istituto Orientale di Napoli. Una è già in esercizio, da qualche anno, in San Demetrio Corone; e dà i suoi mirabili risultati. Ma questa sola non basta; e noi imploriamo che se ne istituisca un'altra in Napoli; ove per il sito e per l'altissima reputazione in cui è tenuto quel H. Istituto possono accorrere gli studiosi di tutte le parti. Vostra Eccellenza, primo Ministro della Corona e il più illustre figlio delle nostre colonie, vorrà esaudire i nostri voti, facendo per tale guisa opera di altissimo decoro per questa seconda patria nostra e di grandissimo aiuto agli studi della lingua albanese, antichissima fra tutte ».

    (4) Cfr. Ili i Arbresvet, anno I, n. 3 del 31 gennaio 1897.

    (5) Idem.

    (6) Il presidente effettivo era Pietro Camodeca, sul quale vedi: Giovanni Laviola, Pietro Camodeca de' Coronei, Aversa ( 1969).

    (7) Cfr. A. Argondizza in « Ili i Arbresvet » n. 4, p. 51. Antonio Argondizza, vissuto dal 1838 al 1919, fu scrittore e poeta e si inserì el movimento letterario e politico italo-albanese del tempo con la spontaneità della sua vena poetica, la forza del suo temperamento polemico e l'inquietudine del suo spirito contestatore. Nell'ambito di questo movimento la sua figura dovrebbe trovare degna collocazione, perché si tratta di un personaggio, per molti lati, veramente interessante. Conoscitore esperto della lingua arbëresh, compose alcune liriche, una delle quali « Il pianto di un'orfana ~ fu inclusa dal De Rada nella sua antologia e lodata dallo stesso come « un buon testo di lingua albanese ~. I suoi lavori in lingua italiana sono numerosi e si riferiscono ad argomenti diversi, perché diverse furono le esperienze dell' Argondizza, in Italia e all'estero: visitò egli, infatti, la Spagna, la Francia l'Albania e, a New York, nel 1890, pubblicò un giornaletto « L'emigrato Italiano » per mezzo del quale volle fare opera educativa mettendo in guardia -come scrive il Galati -gli emigrati italiani, i quali, per scimmiottare gli americani, sperperavano i loro guadagni. Tra i numerosi suoi scritti ricordiamo: Poesie varie ( 1865) ; Collegio Italo-Greco di Santo Adriano ( 1884) ; Saggio di costumi americani ( 1894) ; Volere è potere ( 1897) ; Il viaggio di Don Casciaro o il socialismo svelato 1898. Su questo ultimo vedi: Giovanni Laviola: Un poemetto burlesco del poeta italo-albanese Antonio Argondizza, in «Risveglio Ezjimi» Anno XII, n. 1, 1974.

    (8) Rivista citata, p. 52.

    I quattro numeri di «Ili i Arbresvet » portano rispettivamente le seguenti date: 1 agosto 1996 (sic); 30 settembre 1896; 31 gennaio 1897 e 28 febbraio 1897. I primi due sono datati Corigliano Calabro e stampati dalla Tipografia del Popolano della stessa località, mentre il terzo e il quarto sono datati San Giorgio Albanese e stampati dalla tipografia Francesco Fiore di Acerra. Cogliamo qui l'occasione per ringraziare Emilio Tavolaro, il quale ce ne ha fatto gentile omaggio.

    (9) Questo della rivalità dei due centri è un motivo ricorrente nel corso della storta delle comunità albanesi della provincia di Cosenza. Forse proprio per superare un tale ostacolo, il Camodeca propose quale sede del vescovo della costituenda diocesi autonoma di rito greco il comune di Spezzano Albanese. Cfr. P. Camodeca, L'autonomia ecclesiastica degli italo-albanesi, Roma ( 1903) .

     Da Società, Comitati e Congressi Italo Albanesi dal 1895 al 1904

    di Giovanni Laviola

    mercoledì 20 febbraio 2013

    Rituali di nozze tra gli Albanesi d'Italia




    Il matrimonio degli arbëreshë finora ha rappresentato un punto forza di difesa, perché fa da veicolo per tramandare i principi, la mentalità e più in generale la cultura arbëreshe alle nuove generazioni. Anche per il motivo etnico intrinseco ad un avvenimento così importante, la celebrazione del matrimonio diventa un fattore sociale di rilievo e viene celebrato con la massima solennità tra i colori del tradizionale costume femminile, tra i riti maestosi di sapore orientale e i canti che per tale circostanza manifestano grande capacità espressiva. Il matrimonio presso gli italo-albanesi è ricco di suggestive cerimonie, da quelle prettamente liturgiche che riflettono il mondo orientale, a quelle popolari molto significative ed espressione della mentalità di questo popolo. In genere le nozze albanesi vengono celebrate domenica, ma è antica tradizione andare a fare visita agli sposi il giovedì precedente. In questa circostanza gli amici divisi in due cori manifestano ai fidanzati con melodie armoniose tutta la loro gioia per il felice avvenimento. Il giorno del matrimonio gli invitati si riuniscono sia nella casa della sposa che in quella dello sposo. Un coro di donne mentre aiuta la sposa a pettinarsi e a vestirsi con i sontuosi costumi albanesi canta alcuni versi. Poi, la sposa, viene adornata con un copricapo di velluto o di seta ricamata che le copre le trecce annodate dietro la nuca. Questo ornamento si chiama "keza" ed è distintivo dello stato coniugale. A questo punto il coro delle donne la invita ad alzarsi, ed alcuni colpi di fucile annunziano l'arrivo dello sposo che è venuto a prendere la sposa per condurla in chiesa. La porta della casa della sposa viene chiusa e s'impegna, pertanto, un simulato conflitto tra gli aderenti di lui e quelli della sposa e dopo varie sfide reciproche, lo sposo, trova sulla soglia di casa il padre della sposa, il quale con il fazzoletto in mano dice allo sposo:
    Ti skamandilin do o nusen? (Tu vuoi il fazzoletto o la sposa?)
    Lo sposo risponde:
    U dua nusen (Io voglio la sposa).
    Ad un colpo di fucile si spalanca la porta ed entrano per primi lo sposo e i due paraninfi. Il coro di donne invita la sposa a prendere commiato dai parenti e dopo aver ricevuto la benedizione, dai genitori (uraten), accompagnata dai compari, dal fratello maggiore o dal padre esce da casa, seguita dallo sposo anch'egli accompagnato da parenti e amici. In chiesa si svolge la cerimonia secondo il rito bizantino, ricco di simbolismi e di azioni suggestive. La cerimonia si compone di due riti ben distinti: il rito degli anelli che anticamente si celebrava separatemente e stava a significare il fidanzamento e il rito dell'incoronazione che si fa subito dopo, e consiste, nell'imposizione delle corone agli sposi. Dopo che il papàs ha ricevuto l'assicurazione dei fidanzati di volere contrarre matrimonio liberamente, li benedice e avviene lo scambio degli anelli che sta a significare la scambievole consegna del destino e della fedeltà assoluta. Il rito dell'incoronazione ci porta al centro dell'azione liturgica. Mentre viene incoronato lo sposo con una corona di fiori d'arancio, il papàs dice che egli sta ricevendo la sposa come corona, altrettanto si fa per la sposa. Le corone vengono scambiate per tre volte dal sacerdote e poi dai testimoni. In segno della nuova unione, poi, il sacerdote porge da bere del vino agli sposi in uno stesso bicchiere che subito dopo viene frantumato, quale simbolo della totale ed esclusiva fedeltà perenne. Quindi, gli sposi, preceduti dal papàs e seguiti dai testimoni fanno un triplice giro attorno al tavolo dove è posto il Vangelo in segno di gioia, mentre canta 1' "Isaia", che simboleggia la sacra danza con cui presso tutti i popoli antichi si soleva accompagnare ogni solennità religiosa. Terminata la funzione si ricompone il corteo e lo sposo prende per il braccio la sposa e la conduce nella nuova casa. Ivi, si svolge, il banchetto nuziale echeggiante di vjershë e di canti augurali dedicati agli sposi. A Civita viene cantata la vallja, la classica danza degli albanesi che si esegue tenendosi per mano e cantando in coro formato da tutti i convitati per onorare gli sposi. In questa circostanza viene cantata la rapsodia "Kostandini i vogëlith" (Costantino il piccolo). La rapsodia è densa di accenni commoventi e i motivi in essa presente rispecchiano in tutto i principi del codice Kanun di Lek Dukagini che rappresenta la legge tradizionale degli albanesi. La festa del giorno del matrimonio continua fino a notte inoltrata e quando alla fine gli invitati che hanno fatto ritorno a casa e dappertutto domina il silenzio, un gruppo di amici degli sposi fa arrivare alle loro orecchie le note melodiose di tipici vjershë.


    Fonte: webdiocesi.chiesacattolica.it
    Eparchia di Lungro
    Foto: Archivio fotografico di Damiano Guagliardi.