( Domenico Milelli)Avevamo veduto il Poeta da lontano per le vie, cappellato un Assalonne, giallo come un brasiliano, con dentro gli occhi una mobilità di luce strana e ce l’avevamo accennato come un sognatore di visioni, una specie di Poe o di Nerval calato qui dai vicini monti albanesi.
.
Uno dei massimi poeti della Letteratura Italo Albanese, dove
con maggiore impulso viene prospettata l’espressione artistica del romanticismo
e dell’intimismo malinconico, è sicuramente
Zef Serembe.
Nella sua poesia veleggia l’ombra e alita il soffio dell’arte
drammaturgica, della malinconia, della disperata ricerca di Dio e dell’ amore
perduto. Nella poesia, “Il mio ritratto”
così si identifica:
della chioma castano io
vado fiero
tristi mi ardono gli
occhi, se li osservi” e ancora:
“Mi soggioga il dolore
e sfiora il riso,
l’ira mi accende e
subito si placa.
Un po’ nei crocchi e
poi cerco il silenzio,
lascio che il tempo mi
inganni coi sogni:”
Giuseppe Schirò così
lo descrive: Passionale, triste e
solitario erra per il mondo; non ha pace e la pace stessa par che paventi. La
bonaccia della sua anima e del suo cuore, scossa talvolta da rapide ire e
illuminata da sprazzi di fatua gioia, non è che desolata tristezza pervasa dal
ricordo di un perduto amore.”
Nacque nella comunità Arbereshe di San Cosmo Albanese (
Strigari), nel 1844 e, giovinetto, avviato agli studi nel Collegio Italo Albanese San Adriano, venne
temprato dai suoi professori, quali Gerolamo De Rada, agli alti studi classici.
Animo inquieto, viaggia così per
l’Italia, risiedendo per poco tempo in diverse città. Spinto dall’amore per la
propria gente, visita le colonie Albanesi di Sicilia, ma dal suo continuo
andare torna sempre con più malinconia e persistente stato di angoscia.
Conobbe e si innamorò perdutamente di una ragazza del suo
paese, per la quale scrisse in versi, “
La più bella di Strigari “; la fanciulla dovette emigrare con la famiglia
in Brasile, dove di lì a poco tempo vi morì. Quella improvvisa ed immatura
morte stravolse la vita del poeta: ogni cosa per lui era inutile quanto
infaustamente reale e decisamente affascinante.
Nel 1874 volle trasferirsi in Brasile, forse, per ritrovare
almeno la tomba ove riposava il giovane amore; errabondo in quella lontana
terra, su segnalazione della Principessa Elena Gjika ( Dora d’Istria), ottenne
di entrare nelle grazie dell’imperatore Pedro II. La vita di corte non gli
fu confacente tanto che dopo qualche
tempo decise di raggiungere il patrio suolo. Sbarcato a Marsiglia, nel 1875,
venne derubato di tutto ciò che possedeva e mendicante raggiunse Livorno, dove
ben accolto dal papàs Demetrio Camarda ritrovo un po’ di calore umano. Rinfrancato
dal sacerdote siculo-albanese fu dallo stesso munito di biglietto ferroviario
per raggiungere la Calabria. Il Nostro, in seguito, affermò che proprio durante
il suo continuo peregrinare perse gran parte dei suoi scritti. In quel
frangente, per evidenziare il suo pessimismo, così scrisse al Camarda:” Per
terribili castighi avuti da Dio…abbandonai precipitosamente il Brasile per
deviare il danno. Ora è troppo tardi…Arrivo ( a Livorno) da Nizza a piedi ed in
uno stato che fa orrore. Vendei paletot e soprabito per vivere lungo la strada.
Sono scalzo perfettamente e morente della fame… Arrossisco, ma la mia sventura
non ha limiti. Finirò a scomparire come una meteora vendicandomi di tutti
quelli che furono causa della mia rovina”.
Perseguitato dalle
sventure e dagli uomini – scrive Vincenzo Belmonte, suo maggiore studioso e biografo – psicologicamente fragile, indifeso di fronte
alla malvagità del mondo, innamorato dell’amore, disperatamente religioso,
animato da ardente patriottismo nei confronti dell’Italia e dell’Albania,
estatico contemplatore della natura, inguaribile sognatore spinto
dall’inquietudine a un continuo vagare: tale ci appare il poeta dalle
testimonianze sue e degli altri.” Alcuni suoi biografi asseriscono che,
durante questo periodo di perdizione esistenziale, avesse composto dei drammi,
un poema e avesse tradotto in albanese i Salmi di David. E’ da considerarsi
introvabile anche l’immenso poema albanese “L’Uomo nella scena dell’universo al
cospetto di Dio”. Il poema era costituito da 120 canti e circa 200.000 versi e
in uno scritto a Gerolamo De Rada nel 1894 egli affermava di ricordarne a
memoria ancora dai 30.000 ai 40.000 versi delle composizioni già andate perdute
“ per la infamissima insidia della Chiesa Romana.” Tutto andò perduto –scrive
Giuseppe Carlo Siciliano- lungo il suo interminabile peregrinare. Le opere del
Poeta, ufficialmente a noi rimaste, sono
le Poesie italiane e Canti originali
tradotti dall’albanese per Giuseppe Serembe, pubblicati a Cosenza per i
tipi dell’Avanguardia nel 1883; la
raccolta di 39 versi ( Vjershe) pubblicati dal nipote Cosma, presso la Società
Italiana Grandi Edizioni, Milano nel 1926. In un manoscritto rinvenuto nella
Biblioteca Nazionale di Copenaghen sono giunte a noi altre sue composizioni e
queste, assieme ad altre poesie tramandate oralmente dalla viva voce dei suoi
familiari e trascritte dal nipote Cosma, costituiscono una ricca raccolta di lettere
autografe, una pubblicazione curata dal critico albanese Dhimitir S. Shuteriqi
sulla rivista letteraria “Nentori” nel 1963. Seppur mutilata, la produzione
delle opere del Serembe è giunta a noi
in maniera tale da farci comprendere l’eccellenza della sua arte,
commista di di malinconia e di perduto amore. Annovero le sue poesie d’amore: “Alla
più bella di Strigari; Dopo la vendemmia; Il cantore e l’usignolo; La serenata;
Canto d’amore; Ricordo; Di notte; La tempesta; L’augurio. Poesie
patriottiche: “ Per la libertà del Veneto; A Elena Gjica; Ad Alì Tepeleni. Poesie
religiose: Alla Madonna; All’Immacolata; Ai Santi Cosma e Damiano e il
poema inedito in venticinque canti “Kengat e Krujes ( I Canti di Croia).
In tutti i suoi canti, Zef Serembe, usa la lingua del suo
popolo, facendo giungere, come gli antichi musici, notevoli ed inconfondibili,
le note della profondità del suo animo. Girovago, inquieto nell’animo,
nuovamente raggiunse le Americhe, dove in un mattino del 1901, il suo corpo
senza più anima sofferente, fu ritrovato fra le vie di San Paolo.
Bibliografia essenziale: Omaggio a
Giuseppe Serembe, a cura di Vincenzo Belmonte, Cosenza 1988;
La diversità Arbereshe di Carlo Giuseppe Siciliano, Falco
Editore, Cosenza 2009.
Foto: www.arberia.it
Nessun commento:
Posta un commento