Il termine “ANARCHIA”, con i suoi derivati, inteso come ipotetica tesi sociale, nasce, sicuramente, con gli scritti del filosofo francese Pierre-Joseph Proudhon nella prima metà del XVIII secolo, penetrando profondamente nei concetti, proprii, dell'”Utopia” e dell’ “Illuminismo” , affluendo , in seguito, nella corrente della filosofia individualistica e nel socialismo rivoluzionario di Mikail Bakunin e dell’arbëresh Attanasio Dramis. Ma, esso trova, inconfutabilmente, le sue radici, nel complesso organismo sociale di alcune tribù montanare della Tessaglia, del basso Epiro, della Prevalitania e della Dardania, nel periodo in cui queste regioni , ormai, vennero costituite come province dell’Impero Bizantino (XI secolo d.C.).
Queste popolazioni, per la natura dei luoghi da loro abitati, si distinsero dalle nuove emergenti societe slave, conservando integra la loro tribale autoctonia. La figlia dell’Imperatore bizantino Alessio I Comneno, la colta e gnostica Anna Comneno (1083-1150), nella sua opera storica “Alessiade”, li denomina “Albanitoi” caratterizzandoli nella loro fiera tribalità ” abasileuti” cioè senza re (dal greco a privativo e basileus = re).
Nonostante la varie invasioni e occupazioni straniere, essi vivevano in gruppi tribali indipendenti, senza riconoscere forme di gerarchia statalizzata. Popolando le impervie regioni montagnose e organizzati in “fis” o tribù, loro proncipale attività di sostentamento era la pastorizia e l’agricoltura.
Coloro che abitavano i villaggi ( katund), difendevano con fiero orgoglio le loro costumanze tradizionali, non riconoscevano vincoli di vassallaggio e non si assoggettavano a pagamenti di imposta e a rendite feudali. Non era raro che le tribù montanare si ribellassero con le armi a qualsiasi costrizione fiscale, come quando, Niceforo, governatore bizantino, con incursioni vessatorie dei suoi agenti fiscali, tentò di assoggettare quelle popolazioni.
Si ebbe che le città di Berat, Kanina e Tomorizza furono interamente saccheggiate; dovette intervenire direttamente l’imperatore bizantino Andronico III per sedare quella incredibile rivolta. (1) Informazioni più dettagliate, riguardo le caratteristiche essenziali di queste popolazioni, le attingo da Giorgio Pachimere, scrittore bizantino vissuto a cavallo del XIII e XIV secolo e dal suo contemporaneo Giovanni Cantacuzeno, anch’egli bizantino, scrittore e cronista del tempo.
Il primo, nella sua opera storica ” Historia gestarum” di Michele Paleologo, fa menzione di alcune popolazioni montanare della Tessaglia che chiama ” Megalo Balchiti” e che Cantacuzeno individua come “Albani o Albanoi” ( da sottolineare che Pachimere, a volte denomina costoro Mega Balchiti e talune altre Illiri e Albanoi).
Historia gestarum di Pachimere Libro V: ” Alcuni Illiri, scossi dal giogo dell’Imperatore, fra i Locri, gli Acarnani e la Tessaglia si governano da sè.” ( Locri e Acarnani o Acrocerauni sono catene montuose che s elevano fra l’Epiro sud orientale e la Tessaglia). Cantacuzeno nel suo Libro 2 capitolo 24 di Cronaca così si esprime: ” Sirgianni nei tempi di Andronico II di Bisanzio, Basileus dei Romei dal 1282 al 1328, traversando i Locri e gli Acarnani, si rifugiò presso gli Albani, i quali abitano circa la Tessaglia, sono uomini agresti ed addetti alla pastorizia e vivono con le proprie leggi.”
Nel capitolo 28 lo stesso autore scrive: “gli Albani che vivono sulle montagne della Tessaglia sono in numero di 12 mila, chiamandosi Malacasi, Massaretti e Bovii (Bua) essi vivono senza Re per loro natura.”
In molti si chiederanno perchè popolazioni albanesi si trovavano ad abitare i territori tessali. I primi insediamenti di Illiri o Albanesi in Grecia avvennero in Tessaglia, tra la fine del 1200 e i primi anni del 1300 e furono, sicuramente, dovuti dalla triste situazione in cui veniva a trovarsi l’Epiro, costituito in gran parte da albanesi, per le continue lotte intestine, cagionate specialmente dall’infelice dominazione italiana degli Orsini, principi di Taranto.
Esplicito riferimento di questa prima migrazione si ritrova in una relazione del veneziano Marino Sanudo il Vecchio datata a Venezia nel 1325 e riportata da Rubio y Lluch nei ” Diplomatari dell’Orient Català a pagina 159.
Con il dominio ottomano, caduta ogni speranza per il riacquisto dell’indipendenza, queste popolazioni non vennero soggiogate del tutto dalla cultura e dalla nuova politica dell’oppressore e su questo di lume ci è Angelo Masci, arbereshe di Santa Sofia d’Epiro nonchè illustre giurista che nel 1806 scriveva:
” Gli Albanesi , che o vivono affatto indipendenti dalla Porta (Istanbul), oppure soggetti a questa di un piccolo tributo son liberi in tutto il dippiù. Non poca estensione di terreno occupano questi albanesi indipendenti; ed o sia che non mai sono stati sottoposti a dominio, o sia ( com’è più probabile ) che anche i Sovrani tra loro non altra autorità han esercitata, che quella di esser considerati come capi della nazione, eglino con i costumi barbarici hanno da tempo antichissimo ritenuta anche la libertà. Ciascuna città, terra, o villaggio – continua il Masci – vive per sè; nè fuori della causa comune è lecito d’impicciarsi negli affari dei convicini. La comune causa non è che la causa della libertà: spesso accade che i Bassà del Turco o per ambizione, o per avarizia cerchino di soggiogarli, ed allora tutti si uniscono per respingere il comune nemico.”
In effetti la dominazione turca sull’Albania e su quelle regioni da loro abitate, ebbe piuttosto caratteristiche di contrattualità, sviluppatesi in taciti consensi, che di reale posizione di supremazia.
Anche il preciso e, per quei tempi, sofisticato sistema fiscale ottomano, con quei montanari, trovò considerevole intralcio: talune tribù stanziali abitanti i ” Katun” pagavano agli esattori del Sultano un censo simbolico (tacito consenso) mentre tribù nomade o più predisposte alla rivolta venivano completamente esonerate ( cancellazione anagrafica; da ricordare che i turchi disponevano anche di un funzionante apparato burocratico).
Gli ottomani intuirono che l’inasprimento verso quelle genti, sulle cui terre, nè gli Imperatori bizantini, nè i normanni avevano potuto fissare le loro signorie ( la dipendenza dell’Albania da Costantinopoli e dalla Puglia era stata più nominale che reale), e che non avevano riconosciuto mai altra autorità, fuor di quella dei liberi capi, avrebbe potuto costituire motivo di serie conseguenze negative per la esistenza stessa del predominio territoriale e quindi strategico-militare.
Scrive Alessandro Cutolo nella biografia di Skanderbeg ( Istituto per gli Studi di Politica Internazionale- Milano 1940): ” Quando i serbi ( XIII secolo) avevano tentato di imporre agli Albanesi il loro pesante giogo, si erano trovati contro l’ostilità, larvata o palese, delle tribù; persino cambiando religione, e da scismatici divenendo cattolici, quei popoli avevano fatto comprendere a tutto l’Oriente come fosse difficile cosa ridurli in servitù.
Tutti gli Albanesi erano concordi a spezzare ed allontanare ogni giogo straniero, tuttavia, non tolleravano l’ingerenza, anche minima, di una tribù o di un principato confinante.
Quelli di Argirocastro lottavano con gli abitanti di Giannina; i Castriota ostentavano nei confronti dei Balcha atteggiamenti di malcelato antagonismo e lo stesso con gli Arianiti, pronti a ricambiare. Continue lotte intestine, queste, che indubbiamente esaurivano le necessarie forze, per una eventuale resistenza atta a fronteggiare attacchi dall’esterno.
Nonostante tutto, queste popolazioni apparentemente prive di una organizzazione sociale, all’interno delle loro tribù e famiglie , in maniera velata, disponevano di un insieme di norme informali accettate quali regole proprie di convivenza, disciplinate , in effetti, dal codice consuetudinario.
Su questa ultimo dato deduco e sviluppo la tesi che il sentimento di anarchia , più che endemico, era fortemente inerente e partecipe all’intima composizione ed organizzazione di quelle società.
Infatti, è importante notare, sfatando tramontate, inconsistenti e propagandate opinioni fondate su convinzioni soggettive e di correnti, che nessuna formulazione e sistemazione dei principi generali dell’anarchia, ha mai trascelto, nella teoria, l’inesistenza di norme e di interazioni sociali, anzi l’anarchismo è antitetico al caos, ossia alla grande confusione e alla mancanza di ordine, in quanto, in linee generali, si rende propositore di un nuovo modo di trasfigurare con il pensiero l’organizzazione sociale , intorno alla quale si sviluppa la cooperazione tra gli individui in maniera egualitaristica e dove le norme e i principi fondamentali, vengano condivisi e non imposti dal vertice dell’organismo statalizzante.
In Italia i primi profughi provenienti dall’Albania e dalle comunità arvanitiche, condussero vita dura e miseranda. Relegati in territori angusti e selvosi, dovettero sottoporsi ai rigori del potere feudale, laico ed ecclesiastico che tanto gravame apportò alle popolazioni meridionali.
I principi, i baroni, gli abati, dimentichi delle raccomandazioni inoltrate dagli Aragonesi prima e da Carlo V poi, a favore dei sopraggiunti greco albanesi, mostrarono a costoro tutto il loro ineffabile astio, ma non riuscirono ad assoggettarli del tutto e maggiormente non riuscirono a ad imporre loro la cultura religiosa occidentale.
Questo ultimo aspetto io lo allogherei, come fatto storico, a quella corrente di pensiero definita “anarchismo cristiano”; infatti le popolazioni albanofone erano si sottoposte alla giurisdizione ecclesiastica dei vescovi latini, ma, senza il nulla osta di quest’ultimi, professavano il rito atavico dei loro padri: il Rito Greco Bizantino. Solo in alcuni paesi , come Spezzano Albanese, si passò al rito latino, ma per raggiungere tale scopo, gli ordinari latini e i così detti baroni, dovettero esercitare inaudita violenza.
” I Baroni e le Chiese – scrive nel 1807 Angelo Masci nel suo Discorso sugli Albanesi del Regno di Napoli – invece di proteggere gli Albanesi, che formavano la loro ricchezza, li hanno piuttosto gravati di tante soverchierie che fa orrore sentirle. Le angarie e le perangherie, le indebite prestazioni ed altro, non potevano non avvilire il coraggio dei coloni e far languire nella miseria la Nazione” (Gli Arbereshe).
Aggiunge ancora il Masci: “Dove l’intiera giurisdizione è stata de’ Baroni, ivi il dispotismo da una parte e la depressione dall’altra han reso squallido tutto il paese. Dove poi la giurisdizione è stata divisa, cioè la civile della Chiesa, la criminale del Barone secolare, ivi, la scostumatezza degli abitanti, l’impunità dei delitti e l’avidità degli Officiali, han tenuta sempre in disordine la popolazione. I Vescovi Latini, nelle Diocesi de’ quali erano siti gli Albanesi, invece di promuovere in questi gli studj, far crescere i lumi, proteggere le scienze e le arti, per una mal’intesa Religione, non hanno avuto altra cura che di abbattere il Rito Greco da loro adottato.”
Soltanto verso la metà del XVIII secolo, con la fondazione del Collegio Italo Greco, per opera dei Rodotà e di Papa ClementeXII (1732), le popolazioni Italo Albanesi cominciarono ad apprendere, con notevole profitto, i primi elementi di erudizione e quindi a crearsi una coscienza politica tale da inserirli attivamente e a pieno titolo nel complesso delle circostanze sociali del Regno di Napoli e dell’Europa.
Il Collegio Italo Greco Albanese, prima con sede a San Benedetto Ullano e poi a San Demetrio Corone, divenne celebre istituto d’istruzione in tutte le Provincie del Regno di Napoli, lì i giovani albanesi d’Italia espressero il meglio di sè:
Pasquale Baffi, Angelo Masci, Francesco Bugliari, i vari Damis, i Dramis, i De Rada, i Vaccaro, gli Elmo, i Mauro e moltri altri che in prima persona, fervidamente ed incautamente, contribuirono , fortemente pervasi dai concetti di libertà e di egualitarismo, ad una ingiusta unità dell'Italia. Molti furono esponenti dell’Illuminismo Napoletano, come il Bugliari, il Bellusci, entrambi vescovi di Rito Greco;
Pasquale Baffi noto grecista e Ministro della Repubblica Partenopea, Angelo Masci, ripartitore demaniale dopo l’eversione della fedaulità; Pasquale Scura, insigne giurista e Ministro di Grazia e Giustizia, nonchè compilatore del Proclama di annessione del 1860; Antonio Marchianò. Vincenzo Stratigò, Camillo Vaccaro, progressisti e positivisti;
Attanasio Dramis, amico fraterno di Bakunin; Agesilao Milano che attentò alla vita di Ferdinando II di Borbone ed altri ancora. Tutti rivoluzionari ed egualitaristi, insofferenti del pesante giogo gerarchico. Non bisogna andare lontano, tutt’oggi, un italo albanese, anche se iscritto o simpatizzante di un partito politico costituzionale, sente che non è libero del tutto.
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