Gjitonia: quel cerchio magico
Un articolo scritto da Anna sul giornale scolastico qualche anno fa.
E’ una scena del Mediterraneo: un tardo pomeriggio in una stradina di una gjitonia di San Basile. Anni ’80 del secolo scorso. La comunità nella provincia di Cosenza è popolata dai discendenti dei profughi del XV secolo provenienti dall’Albania.
La “gjitonia” è il vicinato, nella parola c’è la radice gji- che compare in parente, golfo, petto, seno, universo, tutto.
Si differenzia dai vicinati dei paesi calabresi dei dintorni perché in essa le case seguono linee curve, non hanno spigoli “vivi”, sono disposte in forma concentrica con aperture rivolte verso uno slargo, una piazzetta.
In questo spazio comune e condiviso i gjitonë-vicini si riuniscono, conversano: è in realtà il salotto comune all’aperto, ci sono spesso scaloni, gradini, lastre di pietra-divani, sedie sbilenche impagliate, dove trovano posto anche i passanti.
I vicini sono legati da un patto sacrale: sono più importanti dei parenti, sono “specchi” reciproci, dice un proverbio; un tempo fra di loro si sceglievano le spose e gli sposi, non si andava oltre per formare una nuova famiglia.
I confini della gjitonia non sono solo spaziali ma investono tutti i sensi: essa finisce dove i bambini non sentono più la voce della madre che li chiama e l’olfatto non avverte più i noti profumi della cucina.
Nella gjitonia si vivevano momenti di socializzazione e di trasmissione di saperi, spesso femminili: si conversava di tutto, si raccontavano favole, aneddoti, storielle, fatti del passato, sempre in arbërisht (italo-albanese).
I vecchi erano rispettati, erano le biblioteche della comunità, non c’erano libri, l’oralità regnava e descriveva la cultura antica albanese, l’albanese è una lingua indo-europea ma distinta per taluni aspetti dalle altre.
Chi si fermava a chiacchierare doveva avere molto tempo a disposizione, occorreva rispettare dei rituali, salutare secondo formule canoniche e poi si proseguiva. Non era possibile cavarsela con un “buongiorno” o “buonasera”, bisognava rallentare e dire: “Che fate? State al fresco?” attendere la risposta-spiegazione seppur breve: “Dove stai andando?” alla fine le signore del vicinato auguravano: “Ec me Shin Merin” (Vai con Santa Maria cioè ‘ti accompagni la Madonna’).
I lavori nella gjitonia erano semplici occasioni per tenere occupate le mani, concentrarsi parzialmente su un oggetto, mentre la lingua, il pensiero viaggiavano altrove. Il tempo era sospeso, tutto era statico, nulla poteva interrompere bruscamente quell’equilibrio di corpi e di anime, il flusso di immagini e voci. Ognuna era collocata nella giusta posizione, nel cerchio, gli occhi concentrati sul grano da vagliare, mentre fluivano le generazioni, le radici della parentela, … le madri, le figlie, le nonne, le zie, le cugine, le vicine.
La gjitonia era l’utero, lo spazio femminile che non si attraversava solamente ma si viveva: luogo magnetico dell’anima.
Si filava la lana, si vagliava il grano … ciò che gli uomini portavano dalla campagna veniva trasformato dalle donne: il loro tocco ‘comunitario’ dava altro valore al grano, alla lana e nel valore c’era la conoscenza, la saggezza femminile accumulata in centinaia di anni.
Per questo motivo le scene nella gjitonia sembravano ferme, istanti gravidi di secoli, fotogrammi dove le immagini erano impastate di tempo, eternità. Il mondo era lì, il passato era lì: l’ordine immutabile, non c’erano alternative a quell’equilibrio, a quel cerchio, tutto ritornava da madre in figlia. Le anziane che morivano cedevano solamente il loro posto ad un’altra, non c’era spazio per la morte e la paura: era “naturale” morire e invecchiare. Nulla si poteva e si doveva fare per arrestare quel ciclo.
C’era serenità nella povertà, cultura nell’analfabetismo, orgoglio nella miseria.
Io posso considerarmi una testimone fortunata che ha avuto il privilegio di vedere brandelli di quel mondo ora scomparso per sempre, quelle scene che non ritorneranno mai più, perché è scomparsa quella umanità.
L’incontro con mio nonno e i suoi amici, i vicini di casa del Pllaso mi hanno fatto respirare l’oriente.
Ora ritornando con mio padre durante le feste e le processioni a San Basile, vedo che le gjitonie sono vuote, le porte sono chiuse e così le finestre e i balconi. Anche se rallento il passo e la voglia di sedermi in quel cerchio magico ha il sopravvento su di me, devo accontentarmi di pochi e sbiaditi ricordi.
In un batter di ciglia, così devo considerare la mia vita, è sparita una civiltà, un modo di vivere.
Vivere era una manifestazione della comunità, non una prerogativa dei singoli: nascere, battezzarsi, sposarsi, morire non erano fatti privati ma collettivi. Si sentiva il calore della comunità sul collo e il sacro era a portata di mano, le donne nel cerchio dialogavano davanti al grano che poi diventava il pane non solo eucaristico.
E questo senso di sacro io l’avverto ancora, il passo cerca di afferrare il ricordo attraverso la lentezza. Il silenzio, l’aria tiepida del Mediterraneo, la primavera, le case vuote che sembrano chiese, piccole ed umili, più umane nella loro semplicità ora mi amplificano il ricordo, popolano di umanità quel percorso.
Ma cosa è rimasto di quel mondo… squilla il telefonino, ecco un nuovo messaggio per me, è Roberta: Dv 6? Ke fai? Ftt sentire…è tt il giorno ke t cerco tvb.
Di quel mondo resta la voglia di stare insieme, di parlare, … senza fretta, di ascoltare. Porsi in ascolto e fare comunità è lì che albergano la divinità e il sacro: basta volerlo.
Trebisacce-San Basile, 2 aprile 2006
Anna M L Bellizzi, IV B ginnasiale
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