Gjitonia
Gli scritti di Pietro Napoletano, arbëresh di Firmo in Calabria, raccolti nella sua opera “ Il volto della memoria”, non devono essere considerati piccole storie o sbiadite cronachette di ieri, ma la rivisitazione, forse in tono elegìaco, di un’Arberia che ha costituito lo scenario della sua giovinezza e della sua generazione. L’itinerario è via via popolato di personaggi tristi e melanconici, ingenui e sbigottiti, o allegri, scanzonati e sornioni, ma sempre veri e umani, tratti dalla realtà sociale dell’epoca. Direi che l’insieme dei suoi racconti possa definirsi “ una commedia recitata dal vero”, perché a Pietro interessava dare, con un’evocazione quasi sensoriale, il volto della memoria di un’epoca, di una mentalità, di una cultura, rivivendo momenti di gioia e spensieratezza, miseria dignitosa e valori inalterabili, trepidazioni, traguardi ridicoli e difficoltà faticosamente superate, lusinghe e delusioni che, riviste con la lente della memoria, costituiscono la poesia del passato: una poesia contenuta e sommessa di una Arberia povera di mezzi e di sollecitazioni culturali, ma pur sempre affascinate e ricca di ardenti e sublimi aneliti dai contenuti universali.
Gjitonia
“Gjitonì, më mire se gjirì”, dice un antico proverbio arbëresh, volendo significare che il vivere nello stesso vicinato, rende le persone più che parenti. E tale sentenza aveva, nel passato, una validità maggiore, in quanto allora era molto più difficile che le famiglie avessero una propria autonomia che le rendesse disinserite dalla comunità sciale del vicinato.
In ogni paese, i vicinati venivano indicati con un nomignolo, che era una bandiera per gli appartenenti, a guisa dei rioni di Siena che si disputano il palio: Bregu, Konxa, Markasati, Kungraciuna, Kroj Pjak, Kroj Piruks, Këllogjeri.
Gjitonia aveva una sua vita, fatta di pettegolezzo, di consonanza, di invidie, di litigi, di dispetti, ma anche di comprensione, solidarietà e disponibilità che coinvolgeva tutti.
Le case anguste e poco accoglienti spingevano necessariamente i ragazzi nelle strade, e gjitonia diventava naturalmente una palestra di vita, un luogo dove si dipanavano le questioni, s’intrecciavano rapporti e s’imparava dal vero il comune mestiere del vivere.
Incominciava ad animarsi molto presto al mattino, già prima dell’alba, e quando nel cielo s’accennava appena un leggero biancore diffuso, s’udiva il trepestio dei contadini e delle bestie che partivano per la campagna. Una breve pausa, poi il risveglio riprendeva e si percepiva il brulicare delle comari che sfaccendavano, quindi lo schiamazzo dei fanciulli ed infine i sospiri evocativi dei vecchi, che davano vita al quotidiano concerto senza partiture.
Ricordo ancora, sbigottito, la sofferenza muta di alcuni volti rassegnati in cui si leggeva chiaramente che era la miseria la forza che li aiutava a vivere.
I fanciulli di prima mattina, sciamavano lungo la strada e si disponevano in fila per soddisfare i loro bisogni corporali, prima di dare inizio ai giochi quotidiani. I più grandicelli avevano qualche commissione o qualche lavoretto da compiere, e rammaricandosi per essere costretti a rinunziare ai giochi, si avviavano forzatamente verso una maturità malinconicamente precoce.
Alcune figure mi sono rimaste stampate nella memoria: la vecchissima “zia Rosa”, coon conocchia e fuso in mano ( boshtj), continuamene intenta a filare, all’ombra di quell’infinita dolcezza che la tranquilla vecchiaia conferisce, che viveva sola e che soleva dire: “La slitudine è la mia migliore compagna”; la signora Felicita che aveva un’ansia insoddisfatta di nobiltà, e tanta miseria, che non rispondeva se non la si chiamava “donna Felicita” e che, ostentando un benessere fittizio, offriva ai casuali visitatori la visione di una pentola gorgogliante in perenne ebollizione, anche se dentro non c’era che acqua, una cipolla, una patata e qualche foglia di basilico. Ricorda ancora la patetica figura di S., un vecchio asmatico che non trovava altro sollievo al suo opprimente male, che sedersi all’alba sul terrazzino di casa e lanciare al cielo reiterati, lugubri lamenti, senza che nessuno pensasse a reclamare per l’inevitabile fastidio. E come dimenticare la felicità che sprizzava dagli occhi di D. quando la mamma cuoceva la “pasta di bottega” e non la solita pasta fatta in casa, o il pacifico e gioviale M., verseggiatore estemporaneo che non tralasciava occasione per indirizzare un omaggio poetico a tutte le donne che incontrava, e che amava simpaticamente autodefinirsi “gjelkallìu”, paragonandosi all’assiuolo , piccolo e solitario uccello canterino.
Inseguendo le orme dei ricordi, “gjitonia”, si popola magicamente e rivivono d’incanto le antiche consuetudini, il tumulto delle passioni, le umilissime aspirazioni di un’esistenza coniugata sul possibile, sul probabile, su un’opaca e messianica attesa.
Rivedo il capraio tornare all’imbrunire, lemme lemme, con buffi cosciali di pelle di capra e con in mano sempre qualcosa, oltre all’inmancabile verga: un mazzo di asparagi o, a seconda del periodo, un panierino di ciliegie, un verde ramo di corbezzolo adorno di ruvide e bellissime bacche scarlatte, un riccio appallottolato e legato in un fazzoletto, una tartarughina un esile capretto nato durante la giornata. Né posso dimenticare la quotidiana colazione di tanti ragazzi, eternamente affamati: un pugno di fichi secchi, qualche castagna e un tozzo di pane, molto spesso di granturco, spalmato di sugna o di conserva di pomodoro.
Difficilmente trascorreva un giorno senza litigi, che scoppiavano furibondi e per un nonnulla, sul palcoscenico della strada: perché un ragazzo prepotente aveva rubato una castagna ad un altro, o s’era impossessato della sua trottola. Allora intervenivano le mamme, ed era uno sciorinamento d’improperi, di minacce, di calunnie infamanti che erano il sollazzo di un pubblico avidamente attento e curioso. Ma tali litigi erano come i temporali estivi: scoppiavano all’improvviso con inaudita violenza, poi tutto si placava e, dopo qualche giorno, i protagonisti erano di nuovo amici ed affiatati.
Il prestito del pane era un’istituzione. Chi faceva il pane fresco ne prestava abitualmente a chiunque gliene chiedesse; e chi ne era senza, non si vergognava a chiedere il pane in prestito, anche se poi capitava che, fatto il pane, una buona parte andava via per la restituzione o per altri prestiti.
Era una forma di solidarietà umana, resa necessaria dalla miseria, che garantiva il pane quotidiano anche a chi ne era privo, ma era altresì un sistema che consentiva a tutti di mangiare il pane quasi sempre fresco.
Chi aveva la fortuna di possedere un orticello almeno un terrazzo con dei vasi, era fatto oggetto di quotidiane, reiterate richieste di aglio, cipolla, prezzemolo, basilico ed altri aromi, ma nell’economia generale della “gjitonia”, veniva alla fine ricompensato da qualche altra cosa: carciofi selvatici, , capperi, funghi, cicorie, piccoli servizi.
Quello dello scambievole aiuto, era uno dei cardini della convivenza del vicinato. Per qualsiasi lavoro, non si era mai soli: a sbaccellare i legumi, a conservare la legna, a fare la conserva, a pulire i carciofi selvatici, a scardassar la lana dei materassi, a pulire il grano, a infilare i peperoni, accorrevano tutti volentieri.
C’era gente che d’inverno per risparmiare la legna, che molte volte non aveva, faceva quotidianamente il giro delle case del vicinato per riscaldarsi al fuoco altrui. Alcune donne, invece, a volte facevano il giro per diffondere i pettegolezzi di giornata.
La legge della “gjitonia”, però, imponeva anche che, in occasione di calamità, avvenimenti eccezionali, si mettessero da parte offese, animosità e rancori, per dare corso alla più sviscerata solidarietà. E ricordo, in proposito, lo scoppio di un furioso incendio, nel cuore della notte, in un pagliaio. Fummo svegliati di soprassalto da un improvviso quanto inusitato scampanìo, ed ai miei occhi di bambino si presentò la scena apocalittica di un incendio violentissimo, con colonne di fiamme e di fumo che salivano al cielo, ed un brulichìo di gente che aveva organizzato una catena umana per il rapido trasporto dei secchi d’acqua in una determinata lotta contro l’incendio. E c’erano tutti, anche coloro che, soltanto qualche giorno prima, s’erano selvaggiamente bisticciati, ma che ora si prodigavano fianco a fianco.
Indubbiamente, “gjitonia”, era una grande, pulsante famiglia che emanava un immenso, straordinario calore umano e che non conosceva egoismi ad oltranza, e che soprattutto non cnosceva cosa fosse l’incomunicabilità.
Capitava, a volte, che qualcuno si trasferisse, ma “gjitonia” ne conservava a lungo memoria, come di persone care che ricordava spesso con affettuosa nostalgia.
In ogni paese, i vicinati venivano indicati con un nomignolo, che era una bandiera per gli appartenenti, a guisa dei rioni di Siena che si disputano il palio: Bregu, Konxa, Markasati, Kungraciuna, Kroj Pjak, Kroj Piruks, Këllogjeri.
Gjitonia aveva una sua vita, fatta di pettegolezzo, di consonanza, di invidie, di litigi, di dispetti, ma anche di comprensione, solidarietà e disponibilità che coinvolgeva tutti.
Le case anguste e poco accoglienti spingevano necessariamente i ragazzi nelle strade, e gjitonia diventava naturalmente una palestra di vita, un luogo dove si dipanavano le questioni, s’intrecciavano rapporti e s’imparava dal vero il comune mestiere del vivere.
Incominciava ad animarsi molto presto al mattino, già prima dell’alba, e quando nel cielo s’accennava appena un leggero biancore diffuso, s’udiva il trepestio dei contadini e delle bestie che partivano per la campagna. Una breve pausa, poi il risveglio riprendeva e si percepiva il brulicare delle comari che sfaccendavano, quindi lo schiamazzo dei fanciulli ed infine i sospiri evocativi dei vecchi, che davano vita al quotidiano concerto senza partiture.
Ricordo ancora, sbigottito, la sofferenza muta di alcuni volti rassegnati in cui si leggeva chiaramente che era la miseria la forza che li aiutava a vivere.
I fanciulli di prima mattina, sciamavano lungo la strada e si disponevano in fila per soddisfare i loro bisogni corporali, prima di dare inizio ai giochi quotidiani. I più grandicelli avevano qualche commissione o qualche lavoretto da compiere, e rammaricandosi per essere costretti a rinunziare ai giochi, si avviavano forzatamente verso una maturità malinconicamente precoce.
Alcune figure mi sono rimaste stampate nella memoria: la vecchissima “zia Rosa”, coon conocchia e fuso in mano ( boshtj), continuamene intenta a filare, all’ombra di quell’infinita dolcezza che la tranquilla vecchiaia conferisce, che viveva sola e che soleva dire: “La slitudine è la mia migliore compagna”; la signora Felicita che aveva un’ansia insoddisfatta di nobiltà, e tanta miseria, che non rispondeva se non la si chiamava “donna Felicita” e che, ostentando un benessere fittizio, offriva ai casuali visitatori la visione di una pentola gorgogliante in perenne ebollizione, anche se dentro non c’era che acqua, una cipolla, una patata e qualche foglia di basilico. Ricorda ancora la patetica figura di S., un vecchio asmatico che non trovava altro sollievo al suo opprimente male, che sedersi all’alba sul terrazzino di casa e lanciare al cielo reiterati, lugubri lamenti, senza che nessuno pensasse a reclamare per l’inevitabile fastidio. E come dimenticare la felicità che sprizzava dagli occhi di D. quando la mamma cuoceva la “pasta di bottega” e non la solita pasta fatta in casa, o il pacifico e gioviale M., verseggiatore estemporaneo che non tralasciava occasione per indirizzare un omaggio poetico a tutte le donne che incontrava, e che amava simpaticamente autodefinirsi “gjelkallìu”, paragonandosi all’assiuolo , piccolo e solitario uccello canterino.
Inseguendo le orme dei ricordi, “gjitonia”, si popola magicamente e rivivono d’incanto le antiche consuetudini, il tumulto delle passioni, le umilissime aspirazioni di un’esistenza coniugata sul possibile, sul probabile, su un’opaca e messianica attesa.
Rivedo il capraio tornare all’imbrunire, lemme lemme, con buffi cosciali di pelle di capra e con in mano sempre qualcosa, oltre all’inmancabile verga: un mazzo di asparagi o, a seconda del periodo, un panierino di ciliegie, un verde ramo di corbezzolo adorno di ruvide e bellissime bacche scarlatte, un riccio appallottolato e legato in un fazzoletto, una tartarughina un esile capretto nato durante la giornata. Né posso dimenticare la quotidiana colazione di tanti ragazzi, eternamente affamati: un pugno di fichi secchi, qualche castagna e un tozzo di pane, molto spesso di granturco, spalmato di sugna o di conserva di pomodoro.
Difficilmente trascorreva un giorno senza litigi, che scoppiavano furibondi e per un nonnulla, sul palcoscenico della strada: perché un ragazzo prepotente aveva rubato una castagna ad un altro, o s’era impossessato della sua trottola. Allora intervenivano le mamme, ed era uno sciorinamento d’improperi, di minacce, di calunnie infamanti che erano il sollazzo di un pubblico avidamente attento e curioso. Ma tali litigi erano come i temporali estivi: scoppiavano all’improvviso con inaudita violenza, poi tutto si placava e, dopo qualche giorno, i protagonisti erano di nuovo amici ed affiatati.
Il prestito del pane era un’istituzione. Chi faceva il pane fresco ne prestava abitualmente a chiunque gliene chiedesse; e chi ne era senza, non si vergognava a chiedere il pane in prestito, anche se poi capitava che, fatto il pane, una buona parte andava via per la restituzione o per altri prestiti.
Era una forma di solidarietà umana, resa necessaria dalla miseria, che garantiva il pane quotidiano anche a chi ne era privo, ma era altresì un sistema che consentiva a tutti di mangiare il pane quasi sempre fresco.
Chi aveva la fortuna di possedere un orticello almeno un terrazzo con dei vasi, era fatto oggetto di quotidiane, reiterate richieste di aglio, cipolla, prezzemolo, basilico ed altri aromi, ma nell’economia generale della “gjitonia”, veniva alla fine ricompensato da qualche altra cosa: carciofi selvatici, , capperi, funghi, cicorie, piccoli servizi.
Quello dello scambievole aiuto, era uno dei cardini della convivenza del vicinato. Per qualsiasi lavoro, non si era mai soli: a sbaccellare i legumi, a conservare la legna, a fare la conserva, a pulire i carciofi selvatici, a scardassar la lana dei materassi, a pulire il grano, a infilare i peperoni, accorrevano tutti volentieri.
C’era gente che d’inverno per risparmiare la legna, che molte volte non aveva, faceva quotidianamente il giro delle case del vicinato per riscaldarsi al fuoco altrui. Alcune donne, invece, a volte facevano il giro per diffondere i pettegolezzi di giornata.
La legge della “gjitonia”, però, imponeva anche che, in occasione di calamità, avvenimenti eccezionali, si mettessero da parte offese, animosità e rancori, per dare corso alla più sviscerata solidarietà. E ricordo, in proposito, lo scoppio di un furioso incendio, nel cuore della notte, in un pagliaio. Fummo svegliati di soprassalto da un improvviso quanto inusitato scampanìo, ed ai miei occhi di bambino si presentò la scena apocalittica di un incendio violentissimo, con colonne di fiamme e di fumo che salivano al cielo, ed un brulichìo di gente che aveva organizzato una catena umana per il rapido trasporto dei secchi d’acqua in una determinata lotta contro l’incendio. E c’erano tutti, anche coloro che, soltanto qualche giorno prima, s’erano selvaggiamente bisticciati, ma che ora si prodigavano fianco a fianco.
Indubbiamente, “gjitonia”, era una grande, pulsante famiglia che emanava un immenso, straordinario calore umano e che non conosceva egoismi ad oltranza, e che soprattutto non cnosceva cosa fosse l’incomunicabilità.
Capitava, a volte, che qualcuno si trasferisse, ma “gjitonia” ne conservava a lungo memoria, come di persone care che ricordava spesso con affettuosa nostalgia.
Pietro Napoletano,Arberisht di Firmo
Foto : dipinto di Enzo Domestico ka Bregu
Cu vate moti..
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