Di Nando Elmo
Girando per Internet nei siti occupati da volenterosi arberischi che scoprono improvvisamente il piacere di scrivere nella lingua degli avi, consapevoli che solo se si esprimono nella loro lingua possono trasmettere significati peculiari al loro “mondo”, trovo che sono molti, i più, anche tra persone insospettabili, quelli che non lo sanno fare e per ignoranza dell’alfabeto e per morfosintassi approssimata per difetto, e per incapacità di individuare nel continuum fonetico le unità semantico-lessicali.
Lo so, le lingue mutano, anzi la lingua è il più mutevole degli strumenti che abbiamo a disposizione per comunicare: ognuno potrebbe avere la sua – ma una lingua che non sa come comunicare, che non sa come mettersi in rapporto con gli altri, non è lingua. Comunichiamo infatti per esprimere un “mondo”, il “nostro” mondo .
Per esprimere un “mondo” – il nostro “mondo”- che è una realtà tutta spirituale, invisibile, che muta come muta la nostra maniera di interpretare ciò che ci viene innanzi, ciò che “viene alla luce” (ἀ/λήθεια, a/letheia) da quell’enorme, infinito serbatoio che è il ni/ente, il luogo del non/ente, del non(ancora)ente e che presentandosi come nuovo chiede di essere nominato, per assumere senso, posto, nel “mondo”, appunto.
“Mondo”come Κóσμος, Kosmos, da cui “cosmetica”, è parola eminentemente filosofica, inventata da Pitagora per dire che tutto ciò che “viene alla luce” può entrare in un ordine armonico, di rapporti matematici, linguistici (logico/logistici – da λóγος, logos, parola).
Anche “Mondo”, dal latino “mundus” (pulito, grazioso, ma anche: abbigliamento, acconciatura), fa cenno all’ordine, imposto da scienziati e da filosofi che accolgono ciò che ci viene innanzi dal non/essere mentre cercano di pulirlo da tutto il buio da cui proviene e dal niente di cui è impastato – buio e niente, come indicibile, che avvolge poi le cose col mistero abitato dai poeti.
Muta dunque la lingua se mutano le “cose”, ma mutano anche le cose se muta la lingua in cui le esprimiamo: è un conto dire “djath”, altro dire “udhos”, altro dire “formaggio”, altro “fromage” e altro ancora “cheese”. Il “mondo” di esperienze che esse espressioni dicono è davvero intraducibile. Per questo ogni volta che cito autori greci e latini preferisco farlo in lingua, con a fianco una traduzione approssimativa: ultimamente ci hanno insegnato che un conto è dire ἀλήθεια (più o meno “venire alla luce”, “uscire dal nascosto”) altro dire “veritas” (che ha senso di “imposizione” e che secondo me – si licet parvis – traduce più propriamente il greco έτητυμία, termine mai usato, però, dai filosofi), altro dire “verità”, termini, questi due, troppo compromessi con la mentalità scientifica occidentale (c’è da dire però che gli scienziati hanno talmente diffidato del termine “verità” da averlo tolto dal loro vocabolario: una scoperta non è “vera”, “funziona o non funziona” entro i limiti delle ipotesi che hanno avviato la ricerca).
È , forse, per tale motivo che oggi c’è un revival arberisco. Molti capiscono, o credono di capire, che possono esprimere il loro “kosmos, mundus, mondo” solo se possono farlo arbërisht.
Se i nostri arberischi, dunque, ricorrono alla lingua dei loro avi per trasmettere contenuti che diversamente non potrebbero, devono affidarsi a un alfabeto comune, a uno ξυνóν (dicevano quelli che per primi si sono occupati di queste cose), a un codice comune a emittente e ricevente – direbbero i semiologi – che li faccia intendere tra di loro – a una corrispondenza biunivoca tra significato (astratto) e significante che lo renda sensibile, al di là delle connotazioni “poetiche , oggetto dell’ermeneutica dei singoli.
E ciò perché?
Perché l’alfabeto italiano non ha tutti i segni capaci di rendere i fonemi arberischi. È vero che anche l’italiano ha più fonemi che grafemi che li rendano percepibili a chi legge. L’italiano usa un solo grafema per la “S” dolce e la “S” dura: scriviamo nella stessa maniera il fonema “S” di “rosa” e quello di “sono” e pure pronunciando le due parole usiamo suoni (fonemi) diversi (al Nord per lo più sonora, al Sud per lo più sorda). Ma questo è possibile perché “S” sonora e “S” sorda in italiano non hanno rilevanza fonologica, vale a dire: pronunciando “rosa” con l’una e con l’altra “S” il significato della parola non cambia.
Invece in arbëresh la rilevanza fonologica tra i due fonemi (“S” dolce e “S” dura) s’impone, muta il significato di parole: è un conto dire “sa” (quanto/i/e) altro “za”(prendi), non posso scrivere le due parole usando (“uzando” con alfabeto albanese) lo stesso grafema perché in italiano non c’è differenza tra i due (la pronuncia italiana di “chieza” o “chiesa” non ha rilevanza fonologica, significano lo stesso). Forse ho usato un esempio improprio perché in “sa” (quanto/i/e) e in “za” (prendi) i due fonemi non sono in corpo di parola, ma provatevi a cercare voi esempi più consoni e ne troverete quanti ne vogliate.
Ma prendiamone altri: “Thertur / tertur”. Se non so che l’arbëresh ha un grafema come la “th” (“θ” in greco, che molti professori non sanno pronunciare) come posso scrivere le due parole il cui significato varia “per un soffio”? Come distinguerò tra “thelë” (fetta) e “tel” (corda)? E tra “tash” (già) e “thash”(ho detto)? Se non so che anche la “ë” ha rilevanza fonologica non solo per distinguere lemmi come “dëm” (danno) e “dem”(giovenco), “ë” (è) e “e” (e, anche), ma anche un maschile da un femminile, un singolare da un plurale, la semplice parola sincopata o tronca all’italiana non mi aiuta.
E tuttavia vedo che alcuni usano i grafemi “sh”, “th”, qualcuno la “dh” e qualche altro la “ë”, ma allora perchè non fare lo sforzo di imparare il resto dell’alfabeto?
A suo tempo il problema lo ebbero anche gli scrittori dell’Ottocento arberisco i quali essendo buoni intellettuali che conoscevano il greco si misero a cercare in quella lingua i grafemi per fonemi che l’alfabeto italiano non ha. Usarono il grafema greco “χ” per scrivere “χiromér” (prosciutto – in greco “pezzo di maiale”). Provate a pronunciare questa parola e datemi una prova che sapete come si scriva con l’alfabeto italiano.
Unificato a Monastir nel 1908 l’alfabeto, oggi scriviamo in Arberia, come in Kosovo, come in Shqiperia ecc… “hjiromer”. Questo fonema/grafema “hj” in italiano semplicemente non esiste. E i nostri antichi scrivevano “θom” quello che noi scriviamo per intero con lettere latine “thom”. Capite che pasticcio per noi che scriviamo al computer, se fosse prevalso quell’uso antico e non si fosse pensato di scrivere tutto in lettere latine predisponendo, per tutti, grafemi come “th”, “dh”, “xh”(“g dolce” in italiano come in “Giovanni”, essendo la “g” sempre dura in arbëresh/ geg – pron. ghegh), “zh” (“j” francese come in “jardin” / vedi “gozhdë” – chiodo), “ll” (per gli arbëreshë di Calbria “elle” scempia, come in “lavoro”, “i llavur” – pazzo) , “l” (per gli arbëreshë di Calabria come il gruppo “gl” di “gli”/ “lahem” – mi lavo) “rr”, “r” (notate la differenza tra “rre” (falso) e “re” (nuvola) ecc.. Oggi possiamo scrivere senza confusione “duronj” (sopporto) e “dhuronj” (regalo) – è da questi confronti che nasce la rilevanza fonologica e dunque un alfabeto.
Anche il greco moderno ha dovuto trovare soluzioni al fatto che oggi si usano fonemi (il “c” dolce italiano) che nel greco antico non esistevano. Così per scrivere “Cipras” hanno dovuto ricorrere all’escamotage di combinare due lettere dell’alfabeto antico per comporre, convenzionalmente, il nuovo Tζιπρας (traslitterato, Tzipras/ pron. Cipras).
Ma ci sono altri fonemi che nell’alfabeto italiano non trovano riscontro come, ripeto, la “ë”. Come scrivere “lënësi”senza la “ë”? “Lnsi” come scriverebbe qualcuno è difficile da intepretare, non vi pare? E così “nng” per “nëng”. E’ vero che ci sono lingue che non usano le vocali – come negli short messages – ma perchè sottoporci alla fatica di indovinare il pensiero altrui, quando c’è la comodità di scrivere chiaro?
Ora, imparato l’alfabeto, diventa più facile capirci, perché, se no, va a finire che chi scrive correttamente non è letto, perché pone difficoltà di comprensione, e chi scrive scorrettamente è considerato un ignorante.
Una volta imparato l’alfabeto potete poi esprimervi come volete nella lingua del vostro paese, della vostra infanzia, per dare sapore ai vostri scritti, ai vostri messaggini simpatici. E più simpatici (vedi le spressioni idiomatiche) per noi, solo se scritti in arbëresh.
Nessuno, sia chiaro, censura l’idioletto dell’altro.
Abbiamo avuto Storia, no? E la Storia ci ha forgiati come ha voluto – in una maniera i calabresi, per dire, in altra i siciliani. Ma, anche qui, c’è un limite, un’avvertenza.
Non posso credere di scrivere arbëresh se scrivo : Mio figlio ngë di e fjet l’albanese; o “im bir non sa parlare l’albanese”. Facile qui capire l’inghippo: o si sta da una parte o dall’altra – e capisco che l’interferenza dell’italiano è vastissima anche nel parlato degli intellettuali. Questo fenomeno potrebbe andare sotto il nome di “citazionismo”. Parliamo come se mettessimo continuamente tra virgolette espressioni che appartengono all’altra lingua “più autorevole”, soprattutto se si tratta di luoghi comuni, di frasi fatte. E questo si dà quotidianamente. Ma quando si scrive bisognerebbe evitare ogni interferenza.
Che va su due direzioni, una sulla morfosintassi, una sul lessico.
Non censuro l’interferenza del lessico, sicché dire “kapirinj” al posto di “kuptonj” non è peccato capitale.
Tutte le lingue, essendo sistemi aperti, soprattutto dal punto di vista del lessico, perdono e acquistano lemmi. Così hanno fatto lo Shqip e il greco moderno, che hanno preso molto dal turco. Il greco ha preso anche parecchio dall’italiano, per via della dominazione Veneziana e poi italiana nelle isole. E poi è il mercato globale che inserisce parole nuove che seguono gli oggetti delle importazioni: oggi dappertutto il linguaggio informatico è anglosassone e non ci sogneremmo di chiamare il “computer” “macchina del calcolo” -ma come tradurremmo “Ipad”, “Iphon” ecc…? – e così via. Abbiamo sperimentato ultimamente l’invasione dei termini inglesi del vocabolario dei nostri politici (i quali essendo politici vanno presi come sono): Renzi, il fiorentino, non si perita di dire “Jobs Act”, per dare, forse, autorità alle sue riforme, devastanti per i sottoposti – è come se sacrificasse la sua volontà a un’entità sopranazionale, soprasensibile, necessaria e universale, a un moloch incontestabile e inemendabile, come dicono i filosofi del new realism, ecc …
Questo possiamo dirlo con tranquillità e assumerlo come principio delle nostre deduzioni: non esiste lingua pura, ogni lingua come il “Mondo/Kosmos/Mundus”, ripeto, è un’entità spirituale sottoposta a tutti i venti e gli eventi della Storia. Neanche in Albania potrete trovare una lingua “pura”, “e pastër”, per quanto siate imbevuti di fanatismo etnico – lo Shqip è strapieno di francesismi per un certo “sciovinismo” di Hoxha: per fare un dispetto agli italiani capitalisti e fascisti i linguisti shqipetari scelsero “tablo” piuttosto che “kuadër”, come diciamo noi arbëreshë – e noi scrittori arbëreshë, senza pruriti etnocentrici (?), preferiamo “kuadër”; abbiamo altra storia , no?
Andate, dunque, e prendete dove vi pare tutto il lessico che volete, l’importante che lo rivestiate di panni (ricordate? uno dei significati di “Mundus”/“Kosmos” è “abbigliamento”) arberischi – i nostri avi non si sono peritati di importare dall’inglese “Slliba” da “sliping” (sonno), “suvere” da “Sweater” (maglione) “Shapka” (cappello) dal russo ecc…
“U kapirinj, ti kapirin, ai kapirin” sono entrati di prepotenza nel sistema morfologico arbëresh e sono dunque termini arbëreshë a pieno titolo – non trovereste simile coniugazione in nessuna grammatica italiana, tali morfemi hanno significato solo nella grammatica arberisca. Per capirci: un conto è Kosenxa, altro Cosenza. Le due desinenze sono morfologicamente diverse. La desinenza della parola arberisca indica una parola singolare femminile “determinata” – la “a” cioè è anche un articolo; la “a” della parola italiana indica solo genere e numero (Kosenxa significa “la Cosenza”).
Se dicessi però: “U kapisko se ti je una persona e mirë”, capite che interverrei pesantemente sulla morfologia, e che vorrei far passare per albanesi parole che dell’albanese non vestono i panni. Se dicessi, e scrivessi “U kapirinj se ti je një personë e mirë” niente da eccepire perché tutte le unità semantiche sarebbero rivestite con morfologia arberisca – la morfologia dei queste parole non la trovereste nella grammatica italiana.
C’è senz’altro il problema del vocabolario che va impoverendosi con la morte di coloro che quella lingua, da buoni analfabeti (qui ci vuole), hanno conosciuto e hanno tramandato. Ma gli intellettuali (pochi) hanno lasciato un patrimonio (scripta manent – non solo gli antichi, ma anche i nostri, per questo bisogna averne cura) a nostra disposizione, dove andare a pascolare.
Per quanto mi riguarda sono figlio di De Rada, di Serembe, di Variboba, di Don Orazio, ma più e più di Emmanuele Giordano il cui vocabolario sempre compulso. In quel Fjalor trovo tutte le parole che ho conosciuto nell’infanzia e che ora ad Acquaformosa non s’usano più.
Sono amico/figlio di Skiro di Maxho -di cui ho letto tutto. Senza la sua vicinanza non avrei preso così a cuore la lingua dei miei avi.
Ma sono figlio anche di quell’altro Skiro che fu Papa Gjergji la cui “Historia e shëjte” leggo spesso con immenso piacere, come leggo spesso “Vangjeli” di Giordano.
Insomma voglio dire: il faut coultiver son jardin ma studiando accostarsi a quanti più sapienti, per ovvi motivi, hanno molto da insegnare. Soprattutto quel sistema morfosintattico senza il quale non si dà lingua. Il Latino è divenuto Italiano quando ha perso la sua morfosintassi. Forse è troppo tardi per fermare la deriva storica della fine dell’arbresh. Ma finché siamo in vita dobbiamo operare consapevolmente in quel “come se” (als ob, come amano dire i filosofi) che è l’“arbëreshë a tempo pieno”.
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