La lingua Albanese, oltre che in Albania, è parlata dai forti
nuclei di Albanesi assegnati alla Jugoslavia a nord e alla Grecia a sud dalle
Commissioni per la delimitazione dei confini del nuovo stato.
Conservano in gran parte la lingua originaria gli italo
albanesi che vivono nei numerosi comuni sorti nell’Italia meridionale e nella
Sicilia dopo la caduta dell’Albania sotto il dominio turco e i molti Albanesi
che passarono in Grecia e nelle sue isole prima e dopo l’invasione ottomana.
Colonie fiorenti di Albanesi vivono in Romania, in Bulgaria,
in Turchia, in Russia, in Egitto, nell’America del Nord.
Gli Albanesi che vivono fuori oltrepassano il numero di
quelli che abitano entro i confini dello Stato Albanese. Essi nutrono un vivo
attaccamento verso la madre patria e sono la dimostrazione più evidente della
tenace resistenza della stirpe alla forza assimilatrice delle altre lingue più
evolute e più forti dell’Albanese, come specialmente la lingua italiana e la
lingua greca.
<< Ciò che agli
occhi nostri – scriveva D. Comparetti (1863) – più d ogni altra cosa qualifica
il popolo albanese è la lingua da esso parlata. Questa conservandosi
mirabilmente, ad onta delle cause forti e molteplici che si opponevano alla sua
esistenza, ha impedito che quel popolo si perdesse, come di molti avvenne,
andando a confondersi nel seno di altri popoli prevalenti su di lui. E’ l’Albania
un altro esempio della lingua considerata come un potente elemento conservatore
di nazionalità, anche allora quando le nazioni, politicamente considerate,
abbiano perduto la loro unità e la loro indipendenza.>>
Se la Nazione Albanese dopo tanti secoli di smarrimenti
politici e di dispersioni etniche può oggi costituire uno stato, ciò è dovuto
principalmente alla conservazione della lingua.
Fa meravigliapertanto
come il grande glottologo francese A. Meillet, studiando l’interessante
fenomeno linguistico ed etnico albanese, per via di ragionamenti in verità
assai speciosi, venisse a conclusioni così strane da affermare che la
sopravvivenza della lingua non giustificava la creazione artificiosa di uno stato
albanese. Era questo l’eco delle interessate vivaci polemiche che venivano
alimentate da politicanti slavi e greci e dai loro non meno interessati tutori,
al tempo delle agitate discussioni internazionali circa la costituzione dello
stato albanese.
Fu detto e ripetuto in quegli anni che, l’Albania , senza una
lingua, senza una letteratura, non poteva mai divenire un organismo politico
vivo e vitale in mezzo agli altri stati balcanici e che perciò sarebbe stato
saggio consiglio spartirne il territorio fra slavi e greci, che naturalmente
avrebbero allargato il loro dominio nell’Adriatico per comodo delle grandi
potenze che ne favorivano l’espansione a tutto danno dell’Italia.
Così da una questione puramente linguistica si passava per le
cessate mene internazionali, a una questione grave di politica, quale era
quella riguardante la sistemazione e l’equilibrio dell’Adriatico, mare prima di
tutto italiano e albanese.
Di modo che, come osserva il Baldacci, secondo i vari punti
di vista politici, << la lingua albanese o shqip, che taluni sostengono
essere un idioma povero e semplice e poco formato specialmente nei verbi, è al
contrario, per altri un linguaggio a espressioni vigorose… e tutt’altro sprovvisto di
cultura>>.
Ma nella grande diversità di opinioni nell’avvicinare la
lingua albanese ora alla greca, ora alla latina, ora alla slava, ora alla
romena, per il forte miscuglio straniero che è facile scorgervi, nessuno,
credo, che non sia affatto ignorante di linguistica, può ormai negarne
l’assoluta indipendenza da ogni altra lingua per i suoi distinti caratteri
fonetici, morfologici e anche sintattici e lessicali.
Né l’affermazione del Meyer che essa poco mancò non
diventasse lingua romanza si deve intendere nel senso che la lingua albanese
abbia perduto la sua fisionomia per assumere quella di vera e propria e propria
lingua romanza.
Certamente l’influsso latino nella lingua albanese è stato
assai forte, è questa lingua – scrive il Baldacci – è così ricca di vocaboli latini che i romanisti sono costretti, nei
loro studi sul latino volgare, di tenerne conto come una lingua romanza.”
Ma questo fatto è il più sicuro indice dei rapporti politici culturali
dell’Albania con Roma la quale, se impresse profonde tracce anche sulla lingua,
non potè ridurla alle condizioni di una lingua romanza, come non assimilò quel popolo
al punto da farne etnicamente un gruppo neolatino, pur avendone permeata la
vita di un potente influsso di civiltà latina che non può sfuggire all’occhio
indagatore dei fenomeni etnografici dei Balcani.
Il Meillet, a proposito del patrimonio lessicale
dell’albanese, diceva che” maggior parte
del vocabolario di questa lingua si compone di parole tolte in prestito dal
latino, dal greco, dal turco dallo slavo e dall’italiano”, volendo con
questa sua constatazione diminuirne l’importanza nei riflessi politici.
Prendendo in esame questa affermazione del Meillet e riferendosi opportunamente
al vocabolario etimologico del Meyer, il quale dopo, riesaminando molte
etimologie romanze o slave, modificò le sue opinioni sul riguardo, il prof.
Tagliavini , confessando che << che l’elemento latino dell’albanese,era stato sopra valutato dagli studiosi del
secolo scorso ( Meyer), e ammettendo che << specialmente gli etimi latini
hanno ceduto, in seguito a più profonde analisi, a etimi indoeuropei>>,
osserva che << tutto sommato, non si può dire che l’elemento autoctono
dell’albanese sia inferiore a quello di altre lingue indoeuropee che hanno nel
corso dei secoli subìto forti influssi esterni, come l’armeno o, se vogliamo,
anche l’inglese>>.
Del resto, conchiude sull’argomento il prof. Tagliavini,
<< per determinare il carattere di una lingua non serve tanto il lessico
quanto la struttura grammaticale; l’inglese non cessa di essere una lingua
germanica, anche se la maggior parte del suo tesoro lessicale è di origine neolatina;
le parole poi non possono essere considerate tutte sullo stesso piano, perché
molto conta la loro frequenza e la loro diffusione. Noi constatiamo così che la
maggior parte delle parole fondamentali della lingua albanese, risalgono
all’indoeuropeo; altre sono antichi prestiti del latino. Nel corso dei secoli,
l’albanese,venuto a contatto con le
lingue slave finitime, col neo greco, col turco, ha assunto da queste lingue
parecchie voci di cui non sarebbe obiettivo non riconoscerne l’importanza; ma ha
mutuato altresì, fino da epoca molto antica, parecchie e importanti voci
italiane specialmente venete >>.
La lingua albanese è dunque un membro indipendente del gruppo
orientale delle lingue indoeuropee. Ma non tutti i glottologi sono ugualmente
concordi nel definire di quale lingua antica sia la continuazione. Alcuni
ritengono l’albanese la moderna fase dell’illirico, altri affermano essere
l’albanese il continuatore del dialetto tracio.
Ora << allo stato dei fatti odierni,è d’uopo ritenere che non solo l’illirico
rappresenta la base indoeuropea dell’albanese, ma una lingua illirio – trace o,
più probabilmente, un dialetto trace illirizzato. Così spiegano anche le
coincidenze sintattiche e fonetiche che si chiamano balcaniche. (
Tagliavini)>>.
Grande è l’importanza della lingua albanese o che si
consideri soltanto come un ramo indipendente delle lingue indoeuropee o si
prenda come punto di partenza per tentare di svelare il mistero tracio illirico
o se si voglia studiare come ausilio per le ricerche storiche folcloristiche comparative
balcaniche. Assai maggiore è la sua importanza per la linguistica e la
filologia balcanica, cioè per gli studi comparativi col greco, col rumeno, con
lo slavo, con l’albanese ha in comune notevoli ed evidenti fenomeni fonetici,
morfologici e sintattici. La lingua albanese, inoltre, si deve considerare,
come è stato osservato,come preziosa
fonte per le indagini intorno alla diffusione, al trattamento, allo sviluppo
del latino balcanico. Ma nelle ricerche etnografiche e linguistiche intorno
alla lingua albanese, che tanti enigmi presenta ai più attenti indagatori
balcanisti e indoeuropeisti, credo non siano da trascurare i rapporti col greco
anche antico, poiché<< il greco
in tutti i periodi della sua storia ha stretti legami con la lingua albanese e
oggi non si può avere nessun dubbio che, fin dalle epoche più remote il greco
ha esercitato la sua influenza sulla lingua albanese, ciò che negava il Meyer (
Jokl) >>; e credo che non sia da
trascurare l’elemento etnico e linguistico che,irriducibile all’indoeuropeo, potrebbe riferirsi al fondo comune
mediterraneo o pre-indoeuropeo, anteriore naturalmente alla fase tracio –
illirica nei Balcani e nel bacino dell’Adriatico.
Estratto da Studi della
letteratura albanese, Svolgimento della Cultura e della Letteratura Albanese di
Gaetano Petrotta, a cura di Matteo Mandalà ( pagg. 13 – 15 ) Palermo 2003.
nga Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro
(përktheu nga italishtja në shqip Brunilda Ternova)
Bandiera di Battaglia della famiglia Ducas Angeli / Flamuri i Luftes se familjes Duka-Ёngjëlli
Ashtu si edhe shumë familje të tjera arbërore ajo e Duka Engjëllit ka origjinë iliro-bizantine. Historiani Straboni e përmend origjinën e kësaj familje në Librin e Shtatë të Gjeografisë (rreth vitit 40 para erës sonë) në të cilin përfshin edhe trungun e Enkelej Bakiadi (ita. Enchelli de' Bacchiadi), princet e Kadmit dhe Harmonis, si njërin nga fiset më të shquar të Epirit gjatë periudhës në të cilën ishte në pushtet fisi i fuqishem ilir i Molosëve. Euridike - nëna e Filipit të II të Maqedonise (Filip Amyntas) dhe gjyshja e Aleksandrit të Maqedonisë - ishte e bija e Neoptolemit EnkelejBakiadi (i transformuar më pas në Angeli-Bakro o Bakaros) dhe i përkiste kësaj familjeje. Por për të gjetur më shumë informacion të besueshëm është e nevojshme të bëjmë disa kërkime historike në shekullin e XIII.
Pas pushtimit latin të Konstandinopojës më 1204, prapaskena historike e principatave të njëpasnjëshme në Lindjen Bizantine paraqitet shumë e ndërlikuar: Baldovini - kont i Fiandres, ishte ndërkohë i pari Perandor latin i Kostandinopojës. Në vazhdim shumë Shtete vasale u formuan në “Greqi” ku ndër më të rëndësishmit kemi: Mbretërinë e Selanikut, Principatën e Akaisë, Principatën e Mores dhe Dukatin e Athinës. Ndërkohë Venecia kishte marrë qytetet më të rëndësishme detare të brigjeve greke dhe shqiptare, të tilla si Koroni, Methoni, Zante, Qefalonia, Durrësi dhe shumë të tjera, duke përvetësuar kështu të drejtën e dominimit të detit Adriatik dhe të detit Jon. Midis Peleoponezit verior dhe jugut të Shqipërisë, në atë kohë u krijua një zotërim me origjinë greko-shqiptare, i quajtur Despoti i Epirit, i pavarur nga organigrami i shteteve satelite të Kostandinopojës latine, duke kapur kulmin e shkëlqimit të tij me familjen e Ёngjëll-Duka, zotërinj të Angjelokastros (Angelocastro), qytet kështjellë në Etoli, ku ende edhe sot flitet gjuha shqipe.
Despotati pati një rëndësi të madhe në arenën politike midis Shqipërisë, Greqisë dhe Thesalise, falë Teodor Ёngjell Duka (ita. Teodoro Angelo Ducas), me në krye të cilin Shteti Epiriot arriti përhapjen më te madhe territoriale: pushtoi Thesalinë e më pas falë pushtimit të Selanikut u kurorëzua ‘Basileus i Romei-ve’. Përhapja e tij përfundoi me betejën e Klokotnika më 1230 e fituar nga bullgarët, të cilët e zunë rob Teodorin e me pas dhe e verbuan. Në 1231 në fronin Epirot u ngjit Mëhill Duka Ёngjëll Komeni II (ita. Michele Ducas Angeli Comneno), i cili vazhdoi politikën ekspansioniste të paraardhësve të tij. U lidh farefisnisht me Manfredin e II të Svevia, duke i dhënë për grua vajzën e tij Elenen, dhe me Princin Guliem VII Villehardouin të Akaisë, të cilit i dha për gruaja vajzën e tij të dytë, Anën. Të gjitha ambicjet e Mëhillit përfunduan në disfatën e Pellagonisë më 1259. Më pas mundi të rimarre sërisht Despotin e Epirit por me kusht që të njihte sovranitetin e perandorit bizantin Mëhilli VIII Palaeologu (ita. Michele VIII Paleologo). Despoti i fundit i Epirit ishte Thomai, i biri i Niceforit (1296 -1318). Pas pushtimit serb më 1348, Despoti u nda në midis serbëve dhe shqiptarëve: serbët dominonin veriun e Epirit ku ishte guvernator Thoma Preljumbovic me kryeqytet Janinën; në jug të Epirit ishin formuiar dy Shtete, respektivisht nga shqiptarët Gjin Bue Shpata në Arte dhe Pjetër Losha në Angjelokastro.
Bibliografia:
Cronaca Gianiniota (Branusi ed. Atene 1965);
Cronaca di Morea ( anonimo pubbl. da Hopf- Berlino 1873).
RELAZIONI FRA GEROLAMO DE RADA E SPEZZANO
ALBANESE
di Francesco Marchianò
Quando si parla del XIX sec. sotto
l’aspetto prettamente culturale, in Spezzano Albanese, non si può non ignorare
la figura predominante di Giuseppe Angelo Nociti (1832-1899), uomo molto colto
che si è interessato di lettere e di scienze creando molte opere manoscritte
che, purtroppo, per la maggior parte sono andate perse o fanno bella ed inutile
mostra in librerie di famiglia o giacciono ignorati in cassetti di famiglie che
non si rendono conto del loro valore.1
Circa G.A.
Nociti bisogna dire che egli, inizialmente, considerava la lingua albanese un
idioma barbaro che non si prestava alla redazione di componimenti di genere
classico. Fortunatamente poi cambiò opinione redigendo un vocabolario della
lingua albanese di circa 16mila lemmi tratti dalla parlata spezzanese e creando
una vasta produzione di scritti in lingua arbëreshe ed italiana che lo stanno
facendo entrare a pieno titolo nel novero della letteratura
panalbanese.2
La sua sete
di sapere lo mise in contatto con i vari esponenti della cultura calabrese,
italiana, estera ed albanese dell’epoca, fra questi ultimi citiamo il patriota
Domenico Mauro, col quale condivideva gli studi danteschi, e il vate di Macchia
Albanese, Gerolamo De Rada (1814-1903).3
Di certo
sappiamo che lo scambio epistolare De Rada-Nociti avviene attorno e dopo il
1860, cioè nella piena maturità dell’intellettuale spezzanese che, in quel
periodo, sembra fosse sindaco del paese.
Ma è errato
pensare che il Nociti fosse l’unico interlocutore spezzanese del De Rada anche
perché quando questi cominciò la propria attività letteraria il Nociti era un
adolescente. Inoltre da alcune lettere inviategli dal De Rada, nel periodo
1860-’67, questi nomina, come amici e collaboratori di vecchia data,
Magnocavallo e più volte Francesco Candreva.4
Mentre
operavo la traduzione dall’albanese di un interessante saggio del Prof. Ahmet
Kondo è stato confermato quindi che, precedentemente al Nociti, il De Rada aveva
avuto stretti rapporti epistolari con Francesco Candreva. 5
L’autore,
riferendosi ai “Canti storici albanesi di Serafina Thopia” (1842),
scrive: «Questo poema apparve in circolazione poco tempo dopo i “Canti di
Milosao” e venne ben valutato come un’altra opera di De Rada che contribuiva a
tenere viva la tradizione degli Albanesi in terra straniera. Molte sono le
lettere inviategli in quegli anni da noti compagni ed amici arbëreshë come
Francesco Ferrari di Castrovillari, Giovanni E. Bidera da Napoli, Antonio Pace
da Potenza, Nicola Jeno de’ Coronei da Matera, Raffaele Ambrogio da Firmo,
Francesco Candreva da Spezzano Albanese, Demetrio Chiodi (dal carcere), Angelo
Marchianò, Raffaele Lopes, Cesare Marini, Domenico Mauro, Achille Parapugna da
Frascineto, i fratelli Petrassi ecc… Essi vedevano De Rada come colui che
contribuiva molto alla conservazione della cultura spirituale arbëreshe e allo
studio della propria lingua».6
Ma il Candreva non
si limita solo a inviare lettere di compiacimento all’instancabile De Rada anzi,
addirittura, si cimenta ad operare un’ardua traduzione dei “Canti di
Milosao”(1836), ma della quale, purtroppo, non rimane traccia
alcuna.
Il Kondo
infatti prosegue: «Si deve evidenziare che il “Milosao” non perse il valore
originario anche nella traduzione dall’albanese all’italiano come anche le altre
creazioni uscite dalle mani del Poeta. Il letterato arbëresh Francesco Candreva
si rallegrerà quando il De Rada lo ringrazia per la buona traduzione dei “Canti
di Milosao”. “Mentre io – rispose Francesco Candreva – vi esprimo il
ringraziamento dovuto per la vostra nobile approvazione” ».7
Quindi si
apprende così che traduttore del De Rada non fu solo il noto glottologo Prof.
Michele Marchianò (1860-1921) ma anche il nostro poco noto compaesano Francesco
Candreva, che forse non ebbe i mezzi finanziari per pubblicare la traduzione e
sulla cui figura ed opera cercheremo di avviare subito approfondite
ricerche.
Spezzano
Albanese era allora, come oggi, un importante crocevia economico e culturale
grazie alla nuova Strada Consolare delle Calabrie (oggi S.S.19) che lo fece
diventare anche un centro particolarmente strategico durante la Rivoluzione del
1848 quando era il luogo di convergenza delle truppe rivoluzionarie della
provincia di Cosenza.
Nel giugno di quell’anno si trovava nel
nostro paese anche il monaco Francesco Antonio Santori (1819-1894), primo
drammaturgo arbëresh di S. Caterina Albanese.
Questi non
solo informò De Rada sul campo di battaglia di Spezzano Albanese ma gli inviò
anche il manoscritto “La novella calabrese” chiedendo per se tutte le
future copie pubblicate nella rivista deradiana “L’albanese
d’Italia”.8
Ritornando al
Nociti, questi mantenne intimi rapporti epistolari con il Vate nonostante
Giuseppe Schirò (1865-1927) sostenga che il primo non apprezzò molto l’ opera
deradiana.9
Gli scambi
epistolari fra il De Rada e gli altri intellettuali arbëreshë prepararono la
strada ai futuri congressi e comitati, ai quali parteciparono anche giovani
spezzanesi, che accesero la miccia del Congresso di Monastir (1908), per
l’unificazione dell’alfabeto, e per l’indipendenza dell’Albania, avvenuta nel
1912.10
1 La Biblioteca “G.A.
Nociti” del Bashkim Kulturor Arbëresh di Spezzano Albanese possiede i contributi
e le pubblicazioni di G. Laviola, I. C. Fortino, Giuseppe Acquafredda e
Francesco Marchianò. Del Nociti, e di altri autori arbëreshë, si sta
interessando il Prof. Jup Kastrati dell’Università di Tirana.
2 L’affermazione è contenuta nel “Diario del 1898” del
Nociti.
3 Di Domenico Mauro il
B.K.A. possiede il volume “Concetto e forma della Divina Commedia” con a
margine le note critiche autografe del Nociti.
4 Francesco Candreva : forse
compagno di studi del De Rada, fu medico e sindaco negli anni 1840-’47. Durante
il suo mandato fece costruire la strada che congiunge le chiese di S. Pietro e
S. M. di Costantinopoli. Partecipò alla Rivoluzione del 1848, ragion per cui fu
perseguitato e destituito dall’incarico. Nel 1860 è nella Guardia Nazionale
comandata da G. A. Nociti.
5 Ahmet Kondo: “Aspekte
të lëvizjes kombëtare”, Shtëpia botuese “8 Nëntori”, Tiranë, 1988. E’ un
libro di pregio in cui, però, l’autore omette le date delle lettere non
permettendo così una ricostruzione cronologica del carteggio De
Rada-Candreva.
9 Giuseppe Schirò: “Della lingua albanese e della sua
letteratura anche in rapporto alle Colonie Albanesi d’Italia”, Napoli,
1918.
10 Ai vari congressi e
comitati Pro Albania parteciparono gli spezzanesi: lo storico Avv. Ferdinando
Cassiani, il Dott. Agostino Ribecco, Salvatore Nociti, il medico Dott. Francesco
Nociti… A tale proposito si consiglia di leggere l’ottimo saggio di Giovanni
Laviola: “Società, comitati e congressi italo-albanesi dal 1895 al 1904”,
Editore Pellegrini, Cosenza, 1974.
Maschito, sala consiliare. Intervento del Principe Skanderbeg
Lo scorso 20 gennaio nel centro
arbëreshe di Maschito è stato ricordato l'eroe albanese Giorgio Castriota
Skanderbeg a 545 anni dalla sua morte. L’evento è stato organizzato
dall’amministrazione comunale in collaborazione con la rivista
Basilicata Arbereshe, fondata dal prof. Donato Mazzeo (che ha assunto il compito
di coordinatore) ed il corteo storico della Rethnes.
Alla presenza di autorità locali (Sindaco Antonio
Mastrodonato ed assessore alla cultura, Lina Mininni, Antonio Maulà, Pro - Loco),
provinciali (assessore alla cultura, Francesco Pietrantuono) e nazionali (la
giornalista Rosita Ferrato che ha parlato del suo libro: "Viaggio in
Albania" con lo sguardo di una reporter; il linguista Giovanni Agresti
dell'associazione LEM -Italia, dott. Luigi Nidito, originario di Maschito, vice
presidente della Camera di Commercio Italia-Albania).
Ospite d'eccezione, il principe
Giorgio Maria Skanderbeg, del ceppo partenopeo, erede della famiglia Skanderbeg
(che ha regalato l’albero genealogico della famiglia Skanderbeg) e Michele
Sciarillo, nel passato residente a Prato dove ha aperto, insieme al dott. Luigi
Nidito, un circolo culturale albanese frequentato da circa 4000 persone. Adesso
è ritornato a Maschito con l’obiettivo di dare il suo contributo alla
valorizzazione del centro albanofono.
Dopo la presentazione
dell'evento, a cura del prof. Donato Mazzeo, della pro - loco di Barile, nella
sala consiliare del Comune arbëreshe, dove campeggiavano Papigrafie della
Fondazione Mario Cangianelli ed una pittura raffigurante il principe
Skanderbeg, realizzato dall'artista barilese Salvatore Malvasi, nella chiesa
madre di Sant'Elia è stata celebrata una santa messa dal parroco don Raffaele
che per l'occasione ha augurato una buona riuscita di questo evento: "il
sangue non è acqua, l'arbëreshe è un dono che ci è stato tramandato cinque
secoli fa e nessuno ce lo può negare".
Maschito. Il corteo storico rende gli onori al Principe Skanderbe
Nel pomeriggio il corteo storico
della Rethnes (che ha ottenuto il riconoscimento nazionale: "Meraviglia
d'Italia, presieduto da Elena Pianoforte, ha reso gli onori al principe Giorgio
Maria Skanderbeg in costume arbëreshe e coroneo. In tutti gli interventi è
stato ribadito che la lingua arbëreshe (parlata da circa 50 comunità sparse
soprattutto nel centro sud con una popolazione di 100 mila abitanti) merita più
attenzione al pari delle altre lingue minoritarie in Italia.
Il principe Skanderbeg ha
ringraziato per l'ospitalità e l'accoglienza ricevuta ed il regalo ricevuto (una
raffigurazione del principe Skanderbeg in terracotta realizzata dall’assessore
alla cultura di Maschito, Lina Mininni) .
Maschito. Il Pricipe Skanderbeg col corteo storico Rethnes
"Il mio animo restava in quell'inverno in potere di due fantasmi...la lode che mi si annunciava dalla poesia...e la rivoluzione, dietro a cui parevami stare un avvenire di fortune a perdita di vedute." (Gerolamo De Rada)
Busto di De Rada. Chiostro del collegio San Adriano
Indiscutibilmente la Letteratura Italo
Albanese ebbe i suoi albori grazie ai primi scritti atti alla divulgazione
religiosa. I primi profughi albanesi sopraggiunti nel Regno di Napoli, non
possedevano una cultura letteraria tradizionale, ma, forse, solo orale.
L'istruzione era retaggio di pochi e, per la maggior parte dei casi,
esclusivamente della classe clericale, la quale, in poco tempo, raggiunse il
grado più alto della società del tempo. La mancanza di istruzione e di Collegi
- scrive Angelo Masci - fece giacere il popolo Arbëreshe per più di duecento
anni nell'ignoranza, il che aumentò in loro barbarie. Nel
1734, con la erezione del Collegio Corsini, in San Benedetto Ullano (Cs),
voluta dalla famiglia Rodotà, poi trasferito, per opera del vescovo Bugliari,
nel 1794, a
San Demetrio Corone, la condizione socio culturale degli Italo Albanesi inizia
a decollare e la stessa struttura educativa diventa rinomata come una delle più
importanti dell'Italia meridionale. Nel Collegio egli studia e insegna la
lingua albanese e dai più viene tutt'ora considerato, con Naim Frasheri, il
padre della letteratura e della nazione albanese, ormai consapevole della
propria identità.
Collegio greco italo albanese San Adriano - San Dementrio Corone (CS)
Gerolamo
De Rada venne alla luce a Macchia Albanese, frazione di San Demetrio Corone, il
29 novembre del 1814, piccola colonia epirotica di Calabria, scrive il poeta
nella sua autobiografia, “sito sopra un colle aprìco d'incontro al mare Jonio. Mia madre di casta Braile, allora erede di due
antiche famiglie, Avati e Skiglizi, era nata nella vicina colonia di Strigari
(San Cosmo Albanese). Gli antenati di mio padre erano forse da un Pietro
Antonio Rada d'Albania."
Il
padre era parroco di rito greco bizantino e professore di Lingua e Letteratura
Greca nel Collegio Italo Albanese di San Adriano, dove egli, giovinetto fu
avviato agli studi classici. Vi ebbe, qui, compagni di studi, Domenico Mauro,
Demetrio Strigari e Achille Frascino, personaggi che come egli diedero lustro
all'Arberia nel corso di diversi decenni.
Quando
il De Rada entrò per compiervi gli studi, quel Collegio, per via delle stragi borboniche
avvenute nel 1799, era divenuto - come scrive il De Cesare - " un
vivaio di giovani esaltati di sentimenti di libertà, da reminiscenze classiche,
da un senso di idolatria per la rivoluzione francese e da un desiderio
indistinto di tempi nuovi".
In
quello stabilimento di educazione, quindi oltre ai libri strettamente
scolastici, veniva venivano letti anche testi di letteratura straniera, ove
prediletti erano quelli di epica, di filosofia transalpina e della poesia del
Byron. L'influenza byroniana nel Collegio fu determinante perché valse ad
aprire le menti di quei giovani studenti; lo stesso De Rada attraversò la sua testimonianza autobiografa ci informa
che il Collegio Italo Greco agì da tramite alla conoscenza ed alla diffusione
della cultura europea. L'apertura ai "libri nuovi" comprese le opere
del Byron; fu determinante anche per la nascita, in quel luogo del
"Romanticismo Calabrese": infatti la maggior parte di quella corrente
era stata educata fra quelle mura: Giannone, Miraglia, Baffi e Mauro,
quest'ultimo considerato da Francesco De Sanctis il caposcuola.
In
quel periodo, giovanissimo, compose in lingua italiana in terzine il poemetto
"Odissea" in quattro canti, purtroppo andato perduto. Terminati gli
studi al San Adriano, decise, saggiamente, prima di intraprendere gli studi universitari,
di distendersi, meditando nella sua Macchia. Questo periodo - scrive G. Carlo
Siciliano - si dimostrò di fondamentale importanza sia sotto l'aspetto
esistenziale che sotto quello artistico. Affinò gli studi di cultura orale
albanese, compilando una ricca serie di canti tradizionali raccolti dalla viva
voce delle donne e dei contadini delle limitrofe comunità arbëreshe.
Nel
1834 si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza a Napoli, dove nel 1836,
scrisse e pubblicò il "Milosao", poesie albanesi del XV secolo, Canti
del Milosao figlio del signore di Scutari. Nella capitale del Regno venne
accolto dai suoi amici e compagni di studio al liceo, Achille Frascino di Firmo
e Demetrio Strigari di San Demetrio Corone. Attraverso costoro conobbe
Benedetto Musolino, fondatore dei "Figliuoli della Giovane Italia",
che lo stesso De Rada considerò, in un primo tempo, come collaboratore del
Mazzini nella capitale del Regno delle Due Sicilie.
Nel
1848 fondò il giornale "L'Albanese d'Italia", primo organo di stampa
albanese, attraverso il quale si prodigò a divulgare, con veemenza, le idee
liberali per la difesa dei diritti sociali e della giustizia nell'Italia
Meridionale.
Le
relazioni che intercorsero fra lui e liberali in Napoli e l'attività politica
antiborbonica, gli cagionarono un mese di carcere. Liberato, lasciò Napoli per
raggiungere la sua terra natia, dove un anno dopo, nel 1849 ottenne la
istituzione e la cattedra di Lingua Albanese nel Collegio San Adriano, che gli venne
tolta da lì a poco per avere cospirato nei moti del '48. Iniziò intanto, in
questo periodo, una intensa attività propagandistica per l'affermazione dei
diritti del popolo albanese e per la sua rinascita politica e culturale, considerandola
utile ai fini dell’indipendenza della madrepatria ancora soggiogata dal dominio
turco. Oltre all'attività politica, il De Rada, si prodigò molto anche sotto il
profilo strettamente letterario, trovando nuovi impulsi creativi, sa negli
studi di albanologia, che in quelli di carattere storico. Nel 1861 gli viene
conferita la Croce
di Cavaliere dell'Ordine Mauriziano per i servigi alla causa italiana. L'anno
successivo pubblica i " Principi di Estetica".
Nel
periodo fra il 1883 - 87, fondò e pubblicò a Cosenza la rivista politica e
letteraria "Fjamuri Arberit" (il Vessilo Albanese), il primo organo
stampato che iniziò a denunciare le irregolarità politiche delle potenze
europee, dopo il Congresso di Berlino, riguardo la spartizione del territorio
albanese. Il De Rada - aggiunge Carlo G. Siciliano - gridò con sdegno contro la
logica spartitoria delle superpotenze europee e dell'imperialismo serbo,
facendosi portavoce della mortificazione del popolo albanese, che si vedeva,
ancora dopo secoli di dominazione e vessazioni, soggiogato e diviso.
Attraverso
la rivista "Fjamuri Arberit", il Nostro ripubblicò le Rapsodie di
un poema albanese raccolte nelle colonie del Napoletano, già pubblicate nel
1866 nella tipografia Bencini di Firenze e La Caduta della Reggia d'Albania.
Nel
1889 viene ripristinata la cattedra di Lingua Albanese al San Adriano ed egli
ne ridivenne titolare fino agli ultimi giorni della sua esistenza.
Nel
1899, in
occasione del XII Congresso degli Orientalisti, svoltosi a Roma, il Vate
dell'Arberia, pur avanti con l'età, offrì un notevole contributo con la sua
relazione: "Caratteri della Lingua Albanese nell'età preistorica".
Nello stesso anno fu costretto, per cagioni di salute, a rifiutare la cattedra
di Lingua e Letteratura Albanese presso l'Orientale di Napoli.
Nel
1884 pubblica il suo ultimo libro dello Skanderbeg; nel '91 il dramma storico
"Sofonisba"; nel '98 il poema "Specchio di umano
transito".
Fu
organizzatore e presidente dei due Congressi degli Albanesi d'Italia, svoltisi
a Corigliano nel 1895 e due anni dopo a Lungro.
Un
aspetto particolare mi ha folgorato leggendo la sua autobiografia: "Quando
entrai da alunno al San Adriano, nulla io sapea della lingua italiana; per
molto tempo fui sempre l'ultimo della classe!" Sì era un vero
Arbereshe!
La
tradizione popolare - come scrive il Cassiano - ancora ricorda che, quando la
bara del Poeta veniva trasportata al cimitero di San Demetrio Corone e passava
nei pressi della palazzo di Domenico Mauro, il mandorlo fiorito dal soprastante
orto dei Mauro, gli riversò tutti i suoi fiori, come se la stessa natura
volesse onorare il Poeta, morto povero e in solitudine.
Bibliografia
essenziale
Cassiano
D., Risorgimento in Calabria, Figure e pensiero dei protagonistiItalo
Albanesi, Marco Editore Cosenza, 2003.
De
Rada G., Opera Omnia VIII (Autobiografia), Rubbettino Editore, 2007.
Siciliano
G.C., La
Diversità Arbereshe, Falco Editore, Cosenza, 2009.
Anche quest'anno la tradizione del Carnevale degli Albanesi d'Italia , verrà grandiosamente rinnovata, come ormai da sempre a Lungro. Da sabato 9 febbraio fino al 12 le vie, i vicoli, le piazze della importante comunità degli Arbereshe di Calabria, verrànno gioiosamente invase dalla intera popolazione in festa. La manifestazione ricopre una notevole importanza riguardo l'aspetto socio culturale; un carnevale rigorosamente improntato sulle avite tradizioni popolari e folcloristiche della etnia arbereshe, dove ognuno nella sua estemporaneità è uguale all'altro esteriorizzando il proprio stato d'animo e dove il dolore si trasmuta in gioia donando forza alla continuità.
Nel corso della celebrazione della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, trasmessa in diretta Ra1, dalla Cattedrale di San Nicola di Myra di Lungro, S. E. Donato Oliverio, Eparca degli Albanesi dell'Italia Continentale,ha evidenziato come fattore primario l'universalità delle Chiese Cristiane di Occidente e di Oriente. A tal proposito ha espresso l'importanza del ruolo della Chiesa Italo Albanese di Rito Bizantino, la quale, oltre che essere di adorno, rappresenta,in maniera determinante, un vettore di riavvicinamento fra la civiltà cristiane. La Chiesa italo Albanese, inoltre, ha aggiunto l'Eparca, respira con due polmoni, quello della spiritualità latina e quello della spiritualità orientale.
..Nella eroica Lungro, obliata dal governo Piemontese, da Domenico Cortese e Maria Teresa De Marco, il 22 febbraio del 1899 nacque Salvatore Cortese " Pilivju". Essendo l'unico figlio maschio, i genitori decidono di istruire l'unico figlio maschio. Salavtore comincia a frequentare le scuole elementari sotto la guida del Maestro Camillo Vaccaro, pedagogo e filosofo che con Cesare Lombroso e Filippo Turati, fu il padre del positivismo italiano. Egli consegue la VI elementare. Fin da giovane manifestò idee libertarie sicuramente inculcategli dal Vaccaro. Nel 1922 aderì al Partito Comunista fondato appena da un anno da Antonio Gramsci. Con l'avvento del fascismo fu subito segnalato come agitatore e quindi vittima di persecuzioni. Costretto ad emigrare in Argentina, entrò subito in contatto con le organizzazioni comuniste locali dove grande rilievo personale aveva il suo compaesano Vincente Vaccaro. Dal paese latino americano non mancò di far giungere agli amici lungresi la stampa clandestina internazionale. Nel 1929 entrato in contatto con le organizzazioni anarchiche, restò affascinato dalle loro idee rivoluzionarie ed aderì al gruppo "Umanità Nuova", Nel 1930 l'Argentina conobbe la ferocia fascista con il colpo di stato di Uburu. A Buenos Aires fu creata una speciale sezione per la repressione del movimento di sinistra e molti furono coloro che precipitosamente dovettero abbandonare il paese, ma la repressione più violenta avvenne allorchè, in seguito ad un attentato dinamitardo alla Banca dell'Agricoltura di buenos Aires, molti militanti della sinistra furono arrestati e glli stranieri espulsi. Salvatore Cortese era fra questi. Espulso dall'Argentina il 2 marzo del 1932, giunse a Napoli il 23 dello stesso mese e qui immediatamente arrestato e rinviato al giudizio della Commissione per i provvedimeni di polizia di Cosenza, la quale, il 4 aprile, lo condannò al confino politico per l'attività sovversiva svolta all'estero. Confinato a Ponza con una condanna di 5 anni, si trovò al fianco dei massimi dirigenti della sinistra italiana, tra cui Sandro Pertini, Pio Turoni e il cosentino Nino Malara. Il 3 aprile del 1937, scontata la pena, tornò nella sua Lungro dove riprese immediatamente l'attività politica. Fu, quindi, nuovamente assoggettato al controllo di polizia e più volte preso di mira dalle squadracce fasciste che lo purgarono sistematicamente. Alla caduta del fascismo, continuò l'attività di propaganda delle idee anarchiche. Lavorò volontariamente alla locale Camera del Lavoro, dove organizzò i contadini e gli operai della Salina. Ritenuto unanimemente uomo di forti principi morali e di inossidabile onestà, fu proposto alla carica di sindaco della comunità arbereshe, ma, deluso dal comportamento di alcuni, decise di declinare la candidatura e di continuare nella sua solitaria battaglia per l'affrancamento dei popoli. Pur solo con la VI elementare, Salvatore Cortese, fu uomo di vasta cultura e, da autodidatta, amante delle lingue straniere, tra le quali il francese, l'inglese e lo spagnolo, oltre le lingue che aveva appreso fin dalla nascita, l'italiano e l'albanese ( arberisht). Di indole silenziosa e riservata, era sempre al fianco dei deboli e dei bisognosi. Si racconta che, durante le giornate trascorse in campagna, lasciva che alcuni bamni in estrema povertà gli rubassero il companatico e, a chi gli faceva notare il furto, rispondeva che sicuramente , mentre quei ladruncoli non avrebbero trovato altro di cui sfamarsi. Dopo un'intera vita dedicata agli ideali, fu colpito da un tumore al rene che, in poco tempo, ne provocò la morte, avvenuta in Lungro il 27 luglio del 1951. Per volontà della famiglia i funerali si svolsero con il rito civile, in un sventolìo di bandiere rosse e al canto dell'Internazionale. La cerimonia si concluse con il necrologio pronunciato dal suo fraterno amico Pasquale Laurito, direttore del periodico "Velina Rossa" davannti all'intera comunità in lutto.
Fonti: Salvatore Cortese, un antifascista arbereshe di Lungro; D. Cortese Istituto Calabrese per la Storia dell'antifascismo dell'italia Contemporanea. Cosenza 2007.
"La mia famiglia fu quella che più di tutte patì le conseguenze del post unitarismo" (Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)
Nato a Lungro nel 1875, due anni dopo si trasferì a Buenos Aires, in Argentina, dove il padre inseguì l'antico sogno di una vita più agiata, lontano dalla miseria, voluta dalla politica crispina e damisiana, del suo paese natale.
Ancor giovinetto, in terra starniera, lavorò come venditore di giornali. Autodidatta, dopo aver imparato a leggere e scrivere , si apposionò allo studio e alla diffusione della letteratura.
Ancora giovanissimo, assieme al fratello Luigi ( Lligi), fondò la "Casa Vaccaro", un negozietto dove vendeva libri, giornali e riviste. Ben presto l'azienda si allargò, giungendo a fungere da ufficio cambio per gli emigrati e casa editrice di alcune riviste locali, tra le quali " Los Sucesos Ilustrados", il primo periodico illustrato d'Argentina donando il proprio contributo per la nascita della "Revista de Derecho, Historia y Letras" diretta da E. Zeballos e della "Revista de Filosofia", diretta da J.Ingeneros. A queste aggiunse due iniziative che riscossero notevole successo di pubblico, la stampa e la diffusione dell'opera " La Cultura Argentina" in 135 volumi, curata da J. Ingegneros e distribuita a prezzi popolari, e il "Giornale d'Italia", che aveva l'intento di mantenere inalterati i legami tra gli emigrati e la madrepatria. Egli, lentamente, divenne un punto di riferimento della stampa e della cultura argentina, anche perchè ben presto si collocò tra quegli intellettuali che si opponevano alla censura sulla stampa perpetrata dal governo. Scrittore egli stesso di numerosi articoli di vario genere, raccolti in una pubblicazione postuma nel 1946 dal titolo "Pagina dispersas", fu anche un filantropo della cultura, distribuendo fra i giovani argentini centomila copie dell'opera di Smiles "El Caracter", con l'intento di contrastare l'analfabetismo giovanile e diffondere la cultura. Attratto sempre da nuove esperienze, fu fra i fondatori dell'Aereo Club Argentino, dove per dieci anni ricoprì la carica di tesoriere. Nel 1946, ancora in piena efficienza, improvvisamente morì, lasciando un incolmabile vuoto nella cultura Argentina. In suo onore, il fratello Vincentino, fondatore del partito comunista Argentino, nel 1950 fondò il "Museo della Caricatura Severo Vaccaro" e la fondazione culturale " Severo Vaccaro", che ancora oggi ha lo scopo di premiare con una medaglia d'oro ed un contributo in denaro la migliore opera editoriale dell'anno e che, in Argentina, viene considerato un premio nazionale simile al Nobel. Tra i vincitori di questo premio basti citare Louis Federico Leloir ( premio Nobel). il pittore Raul Soldi, il medico Renè Favaloro e lo storico Felix Luna. Un'altra grande anima della mia Arberia.
"In un angolo della Calabria Citeriore le correnti della storia civile e politica spiravano con l'impeto e la generosità dei grandi fenomeni epocali. I migliori uomini dell'Arberia ne furono scossi e coinvolti, dando seguito a una straordinaria stagione intellettuale."
(Costantino Marco)
Ripensando ai grandi rivolgimeti della Storia risorgimentale calabrese, non si può non rendere doveroso omaggio alla figura di Attanasio Dramis, legato oltre che alla rivoluzione del 1848 e alla impresa dei Mille, anche, alla attiva presenza da protagonista alle evoluzioni politche post-unitarie. Fu uno degli attori principali, fra i giovani intellettuali meridionali, nella seconda metà del XIX secolo, a rendere tentabile la formazione e l'organizzazione di un grande movimento democratico di massa ed alla costituzione della sezione napoletana dell'Internazionale di Londra. Egli, infatti, apparteneva ad una famiglia di cospiratori e di chiara matrice democratica, una delle tante, come scrive G. Isnardi, tra le popolazioni albanesi in Calabria Citra, la cui avversione al regime autoritario dei borboni fu estremamente decisa e massiccia, tanto da costituire una delle componenti più forti della rivoluzione calabrese del 1848; la popolazione arbershe, inoltre, aggiunge il Prof. Nino Cortese, costituì il supporto del movimento radicale nella provincia di Cosenza. Nacque Attanasio Dramis a San Giorgio Albanese il 1° maggio del 1829 da Giuseppe, noto cospiratore, e da Teresa De Simone. Nel 1842, tredicenne, varca le mura del Collegio Italo Albanese del San Adriano, dove, scrive Giuseppe Mazziotti, la consolidata tradizione liberale e giacobina, è impressa anche nelle pietre, che formava gli eroi del libero pensiero e delle azioni gloriose. Nessuna scuola calabrese poteva vantare le tradizioni illuministe, giacobine, carbonare e di rinnovamento culturale del Collegio Italo Albanese ( Gaetano Cingari). In questo Convitto, la prima educazione politica che il Dramis aveva ricevuto dalla sua famiglia, venne ulteriormente irrobustita e quì consolidò l'amicizia con gli altri giovani italo albanesi, Agesilao Milano, Angelo Nociti e Nicodemo Baffa. Vi ebbe come professori il sacerdote di Rito Greco Antonio Marchianò , definito dai borboni " Settatore e divulgatore degli infernali disegni di rivolta" e i liberali Francesco Saverio Elmo, Raffaele Maida, Michele Rodotà e Raffaele Vaccaro. Dopo il fallimento dei moti del '48, il giovane Dramis, battendosi valorosamente in battaglia, essendo ricercato, si diede alla latitanza cercando, invano, di arruolarsi nelle fila dell'esercito della Repubblica Romana. Nel 1851, fu imprigionato nelle carceri del Castello di Cosenza, dove per il suo spirito indomabile, capeggiò una sommossa per fare evadere i prigionieri politici e dare inizio alle "guerre per bande". L'evasione riuscì, ma poco dopo il Dramis fu reinternato e a tal propsito così scrisse: "se i duecento congiurati che dovevano seguirci e sostener quel buon primo esito, non si fossero terrorizzati dalla feroce lotta, sostenuta corpo a corpo con pugnali in mano, tutto si sarebbe risolto in maniera diversa." Dopo il tentato regicidio operato dal suo amico di studi e di fede, Agesilao Milano, egli fu uno dei primi su cui la reazione borbonica infierì; infatti venne rinchiuso nelle carceri di Santa Maria Apparente, dove senza processo, venne liberato soltanto il 6 giugno del 1860. Di sicuro, Attanasio, sapeva che qualcosa Agesilao stava meditando e ciò si evince da una missiva che egli inviò al regicida: " Ti prego ardentemente di non muoverti ed attendermi alle prossime feste natalizie, in cui mi è stata promessa una lunga licenza." La lettera non venne recapitata d'urgenza al latore, il quale aveva già deciso di attentare alla vita di Ferdinando II di Borbone. L'attentato- scrive il Dramis- avvenne quindi contro ogni mia previsione, sicuro com'ero che Agesilao, dopo la mia lettera, avesse soprasseduto alla sua terribile decisione. Questi sono i fatti nudi, la cui verità storica, fino ad un certo punto documentata dal processo che ne seguì. Nel giugno del 1860, come sopra ricordato, venne, dopo quattro anni di detenzione, liberato dal carcere di Santa Maria Apparente in Napoli e a bordo della nave sarda "Mozambano", con l'aiuto di alcuni suoi amici, salpò per Palermo, dove da Garibaldi ricevette precise istruzioni per la sua infiltrazione nelle Calabrie. In Cosenza prese contatti con il Comitato Rivoluzionario. Organizzato un battaglione di albanesi del suo paese, San Giorgio Albanese, al passaggio di Garibaldi venne inquadrato nella Divisione degli Albanesi Damis, dove raggiunse il Volturno battendosi con inaudito ardimento. Sciolto il battaglione dei volontari Garbaldini prese congedo dal colonnello Sprovieri e come lui scrive: appianai tutti i conti amministrativi del mio battaglione". Nel giugno del 1862 si ritrovò nuovamente con Garibaldi a Palermo, ma conosciamo che l'impresa per la presa di Roma ebbe i suoi risvolti negativi in Aspromonte. Partecipò in prima persona per la repressione del brigantaggio riuscendo con i suoi albanesi a catturare il brigante Serravalle. nel 1864 si trasferì a Napoli, dove un suo fratello studiava ingegneria civile, entrando a fare parte della redazione del " Popolo d'Italia". Qui conobbe illustri personaggi della politica e della cultura fra cui Giorgio Mileti e Giuseppe Fanelli. Cominciò a fare politica attiva tanto da essere avvicinato da Mikail Bakunin, allora soggiornante in Napoli. L'amicizia contratta con il russo lo fece allontanare dalla sua antica fede: il mazzinianesimo, considerandolo ormai come insufficiente e ideologicamnte inattuale rispetto all'evolversi dei tempi. Pur avendo, con Bakunin fondato la Sezione napoletana dell'Intrenazionale di Londra le sue idee miravano speditamente verso una concezione di un socialismo democratico, ritenuto come unico rimedio per il risanamento dell'endemico stato di malcontento delle popolazioni meridionali. Egli riteneva, deluso dalla politica post unitaria, ipotizzando una allenza organica tra la piccola borghesia e la massa degli operai e dei contadini, da usare come arma efficace contro un Stato, ritenuto nemico ed accentratore. In sostanza abbandonando il socialismo anarchico del Bakunin egli ritorna alle origine del socialismo risorgimentale ed in particolare quello del Pisacane. Riguardo la politica del governo post unitario egli così scrive sul Popolo d'italia: "Il popolo vive più di sensazioni e di memorie, che di astrazioni e di idee generose, a primo slancio, confronta, paragona, giudica; e quando vuolsi che ami, curi, adori un nuovo sistema, è mestieri che questi gli sembri migliore e più utile e vantaggioso. Che cosa ha fatto i governo perchè il popolo senti e tocchi la differenza e trovi un effettivo miglioramento? Nulla, nulla, nulla: anzi violando la morale e la giustizia, e nulla utilizzando, si è corso a mille doppi nel peggio, e tuttora si corre nel pessimo". Molto importante fu per il Bakunin la figura del Dramis che lo teneva in alta considerazione, infatti, dopo il Congresso di Berlino del 1868 della Internazionale della Democrazia Socialista, lo stesso ideologo russo, lo volle fra i sei membri del Comitato Centrale per l'Italia. Ma questo atteggiamento del Bakunin non influì sul ritorno alle antiche idee imperniate, come gà scritto prima, al sociaismo risorgimentale di Pisacane e Falconedi del Nostro. Molto ne risentì di questo allontanamento il russo che così scriveva con impeto al Gambuzzi: " Caro Amico, te ne supplico, scrivimi al più presto e prega i nostri amici di scrivermi, quando avrai lasciato Napoli...Perchè De Luca non mi manda il giornale? e Mileti non mi manda il "Popolo"? Attanasio tu dormi! Vergogna! tempo di alzarti e rifarti uomo! Ma temo di essere ingiusto col povero amico e taccio..." Ma Attanasio - come scrive Cassiano - non dormiva affatto ne era per temperamento un dormiglione; si andava semmai addormentandosi il suo "bakunanismo" che aveva abbracciato o creduto di abbracciare. Infatti in tal maniera si esprimeva l'Italo Albanese: << della rivoluzione profonde sono le cause ed il corso lungo, irresistibile; niun uomo si vanti di averla promossa e niuno presuma a sua voglia di dominarla.>> Alla luce dei nuovi tempi e della mutata realtà, il Dramis riteneva opportuno che bisognava sostenere una nuova formula democratica della questione sociale. Un'altro grande personaggio dell'Arberia Italiana, un altro grande Eroe e non solo in battaglia, ma anche in politica sociale che va a congiungersi con le idee del socialismo del filosofo Alberto Straticò, del poeta sodato Vincenzo Stratigo, per poi sfociare nel positivismo nazionale di Camillo Vaccaro.
Bibliografia essenziale: Attanasio Dramis, Democrazia e Socialismo nella Comunità Calabro Albanese, Marco editore Lungro 2004; G. Isnardi, Stranieri in Calabria durante il Risorgimento, in Atti del II Congresso Storico Calabrese. Napoli 1961 pag. 159; N. Cortese, La Calabria nel Risorgimento Italiano, in Atti del II congresso Storico Calabrese, Napoli 1961, pag. 13.
Nel primo decennio del XX sec. la Turchia, la “grande ammalata d’Oriente”, attraversa gravi crisi interne ed esterne come la rivolta dei Giovani Turchi (1908), che depongono il sultano Abdul Hamid a favore del proprio fratello conservatore Mehmet, e la guerra con l’Italia (1911-’12) che la mutilerà della Libia e di alcune isole dell’Egeo.
Fu proprio in occasione di questa guerra, che impegnò la Turchia in risorse economiche ed umane, che le popolazioni albanesi, in tumulto da alcuni anni, si ribellarono costringendo le guarnigioni ottomane a ritirarsi dai territori occupati da oltre cinque secoli.
L’Albania, infatti, fu l’ultimo stato balcanico ad affrancarsi dal giogo turco e, soprattutto nel XIX sec., si vide privata di territori che furono ceduti agli stati slavi confinanti ogni qualvolta questi, sostenuti dalla potenza zarista, entravano in guerra con la Turchia sconfiggendola.
A Valona, il 28 novembre 1912, l’anziano Ismail Qemali bej Vlora, proclamò l’indipendenza dell’Albania sventolando la rossa bandiera schipetara con l’aquila nera bicipite su un popolo prostrato da secolari rivolte, represse sanguinosamente, da un’economia arretrata e dalla negazione di ogni espressione di identità culturale e linguistica.
Nel XIX sec., eminenti figure albanesi – N. Veqilharxhi, P. Vasa, i fratelli Frashëri ed altri non meno importanti – svilupparono un’intensa attività patriottica e culturale mirante a sensibilizzare i clan albanesi e a far conoscere all’Europa ed al mondo intero la “questione albanese”.
Il grido di aiuto di questi intellettuali non cadde a vuoto ma fu accolto dagli Albanesi d’Italia – gli Arbëreshë – presenti nell’Italia Meridionale dal XV sec., i cui discendenti mantenevano un legame ideale e culturale con l’antica patria.
Fra le figure arbëreshë citiamo Girolamo De Rada (1814-1903) che con le sue opere e la sua attività patriottica fece conoscere all’Italia e all’Europa la presenza della nostra minoranza etnica e la terribile situazione in cui vivevano gli Albanesi. De Rada, durante la sua lunga ed ammirevole esistenza, profuse alla causa albanese ogni forza fisica ed economica spegnendosi nella povertà e nella solitudine. De Rada, con la sua prima rivista “L’Albanese d’Italia” (1848 –’49) propugnava l’idea di liberazione dell’antica patria e pubblicava i contributi politici e culturali degli Albanesi d’Italia.
Non meno importante fu il contributo dato da altri intellettuali e patrioti arbëreshë come F. A. Santori, Zef Serembe, Gabriele Dara, Giuseppe Crispi, Gerardo Conforti, p. Leonardo De Martino, ….
L’eco delle rivoluzioni europee, intanto, ebbe ripercussioni anche nella Balcania dove gli stati sottomessi ai Turchi lottarono per la propria indipendenza, come la Grecia nel 1821, mentre altri ottennero maggiore autonomia in seno all’impero ottomano mentre all’Albania venivano negate le più elementari richieste.
e G
Fu dopo l’indipendenza bulgara (1878), che vide tra l’altro l’Albania privata dei territori di Plava e Gucia cedute dai Turchi al Montenegro, che le personalità della politica e della cultura schipetari cercarono di unificare le forze per darsi una piattaforma comune di lotta.
Fu così che, il 10 giugno 1878, Abdyl Frashëri convocò a Prizren tutti i capi clan e le personalità di rilievo della nazione albanese nell’omonima lega, superando ogni credo religioso ceto sociale, che si unirono con la parola d’ordine «Një gjak – një gjuhë – nje komb». La storica iniziativa fu salutata con entusiasmo dagli Arbëreshë e da note personalità dell’epoca attraverso gli organi di stampa nazionali ed esteri.
La piattaforma rivendicativa, mirante alla liberazione ed emancipazione dell’intero popolo albanese giacente sotto l’impero ottomano, constava di questi punti essenziali: maggiore autonomia politica ed amministrativa, apertura di scuole e formulazione di un unico alfabeto, denuncia del Trattato di S. Stefano (1878) e difesa dell’integrità territoriale albanese.
La Sublime Porta, inizialmente, fece finta di ignorare questa presa di posizione, ma in seguito intervenne energicamente quando, nel 1881, gli Albanesi guidati da Sulejman Vokshi, difesero Plava ucia.
La Lega venne sciolta dai Turchi nel 1881, ma ciò non impedì il rifiorire ed il propagarsi di un’intensa attività politica e culturale in Albania e nella Diaspora nel trentennio 1880-1912.
Un passo importante fu fatto in Italia quando, con decreto ministeriale, venne istituita la cattedra di lingua e letteratura albanese, nell’ormai Liceo-ginnasio italo-greco di S. Demetrio Corone, che venne affidata all’anziano Gerolamo De Rada, che avrà come suoi alunni eminenti personalità della cultura schipetara: il prof. Xhuvani, Luigj Gurakuqi, Avni Rustemi, il pittore Ndoc Martini, ….
Il De Rada, inoltre, era riuscito a legare a sé, ed alla causa nazionale, alcune eccellenti figure di albanesi come la principessa rumena, di origine schipetara, come Elena Gjika (Dora d’Istria), la baronessa austriaca Giuseppina Knorr, Thimi Mitko, che dirigeva i circoli albanesi di Alessandria d’Egitto.
Tra le attività più concrete degli Arbëreshë, nel periodo della Rilindja, furono la nascita di riviste in lingua albanese, l’organizzazione di congressi e la nascita dei comitati Pro Patria a Roma, Napoli e nei paesi arbëreshë che annoveravano decine di iscritti.
Fra le riviste citiamo “Fiamuri i Arbërit” (dal 1883 al 1887), con De Rada fondatore ed editore, che accolse i contributi delle migliori menti arbëreshë, nella testata compariva il programma deradiano “L’Albania agli Albanesi”; altra rivista fu “La Nazione Albanese”(dal 1897 al 1924), fondata e diretta da Anselmo Lorecchio di Pallagorio, che pubblicava le proteste degli Albanesi contro le Grandi Potenze nonchè le corrispondenze provenienti dai vari paesi arbëreshë e della Diaspora; “Illi i Arbëreshvet” (1895-’97) con il papàs Antonio Argondizza di S. Giorgio Albanese che propugnava le esigenze di unificazione linguistica e la formulazione di un alfabeto comune; la “Nuova Albania” (1898) di Gennaro Lusi; “La Gazzetta Albanese” (dal 1904) di Manlio Bennici; “La Rivista dei Balcani” (1912) di Terenzio Tocci.
Bisogna dire i vari comitati italo-albanesi e le relative testate portavano avanti posizioni politiche contrastanti fra loro che spesso sfociavano in accese polemiche. Alcuni di loro sostenevano le tesi di una futura Albania a regime repubblicano ed altri, invece, monarchico – con la proposta di sovrani da operetta discendenti, o no, dalla famiglia Castriota – legato a casate asburgiche o italiane.
Per quanto riguarda i congressi citiamo il 1° congresso linguistico di Corigliano Calabro, dell’ottobre 1895, organizzato da De Rada; il 2°, invece, fu tenuto a Lungro, nel febbraio 1897, che vide la partecipazione di eminenti figure albanesi rifugiate in Austria ed Egitto.
A Napoli, dove era presente una numerosa colonia di Arbëreshë e Schipetari, il 24 febbraio 1897, si tenne un convegno “… con lo scopo di costituire un comitato politico albanese, che avesse la sua diramazione in tutte le colonie, per propugnare l’indipendenza degli Albanesi” (G. Laviola) mentre in Calabria operava già un altro comitato con il fine precipuo di promuovere l’unità linguistica e culturale presso gli Albanesi.
Il 3° congresso linguistico (1901) ed il 4° si tennero a Napoli (1903), in quest’ultimo il dott. Agostino Ribecco (Spezzano Albanese 1867-1928) propugnò energicamente i seguenti punti:
“1) che venga riconosciuto ufficialmente la Nazionalità albanese; 2) che non si più permesso allo straniero di impacciarsi di ciò che succede tra gli Albanesi in casa propria; 3) che sia riconosciuto all’albanese il diritto di progredire coltivando la madre lingua e che questa sia autorizzata ad usarsi negli uffici religiosi; 4) che si tenga in massimo conto della capacità personale dei funzionari albanesi incaricati di assicurare il buon funzionamento delle leggi; 5) che una parte delle imposte prelevate in Albania si spendano per la costruzione di scuole nazionali e di vie di comunicazione in Albania, allo scopo di civile progresso nazionale e di facilitare il commercio”.
A margine di queste vicende, mi corre l’obbligo di inserire il testo del telegramma, senza data ma del 1897-‘98, inviato al Comitato Politico Albanese di Napoli da parte di alcuni studenti arbëreshë del liceo-ginnasio di Cosenza: “Studhentrat shqipë te Kosencës me gjithë zëmër bashkoghen me ju, mëmëdhetarë shpirt-mëdhenj, me shpresë t’afroni kohen e luftes, se pa gjak liri nuk llambaris”. L’ardente ma prezioso dispaccio è firmato da: Cosmo Serembe, Flavio e Guido Tocci (S. Cosmo Albanese), Giovanni Rinaldi e Salvatore Guaglianone (Spezzano Albanese), Delfino Fazio (S. Giacomo di Cerzeto), Angelo Troiano (Plataci), Nicola Vaccaro di Aquilano (Lungro), Salvatore Braile (S. Demetrio Corone), Ludovico Placco e Francesco Castellano (Civita) e Oreste Musacchio (Cerzeto).
Ma anche la Diaspora schipetara fu molto attiva in questo periodo in varie parti del mondo. Citiamo a tal proposito l’attività letteraria di Thimi Mitko (Bleta shqiptare, 1878) presso le comunità albanesi di Alessandria d’Egitto; quella instancabile di mons. Fan Noli che, con la società «Vatra» di Boston e la rivista “Dielli”, riuniva attorno a se la Diaspora albanese presente negli USA; la società «Dituria» di Sofia che aveva una propria tipografia che dava alle stampe la rivista “Drita” e pubblicava le opere di autori arbëreshë e schipetari; la società “La Giovine Albania” di Bucarest e poi le riviste “Lajimtari i Shqiperise”, “Kombi”, “Shpresa e Shqiperisë” …
Ma quali furono i frutti di questi sforzi comuni?
In Italia, oltre alla citata cattedra di lingua e letteratura albanese di S. Demetrio Corone, venne istituito, a Napoli, il prestigioso Istituto Orientale comprensivo della cattedra di Lingua e letteratura albanese; in Albania, invece, e precisamente a Korça, venivano aperte le scuole «Mësonjëtorja shqipe» (1887) e «Shkolla e Vajzave» (1893), nonostante le persecuzioni e le minacce messe in atto dalle autorità ottomane contro gli insegnanti.
Un fatto di portata storica fu, con certezza, il Congresso di Monastir (14-22 novembre 1908), in cui i rappresentanti albanesi si riunirono per dare alla propria nazione un alfabeto comune che non risentisse delle influenze culturali e religiose presenti allora in Albania. Il Congresso, diretto da Gurakuqi, Mjeda, Grameno ed altri esponenti di rilievo, presero in considerazione anche le istanze mosse precedentemente dagli Arbëreshë. L’unificazione dell’alfabeto permise un’agevole diffusione delle idee e fece acquisire alle Grandi Potenze che l’Albania si stava avviando, seppur con enormi difficoltà oggettive, alla sua piena autonomia culturale, preludio di quella politica.
Agli inizi del 1911, l’arbëresh Terenzio Tocci, sbarcato in Albania, giunto nella Mirdizia, con l’aiuto dei clan di Oroshi, proclama un’effimera repubblica albanese. Il fallimento di questa forma politica fu imputato al mancato coordinamento dei clan e, soprattutto, al governo italiano che impedì la partenza delle forze volontarie che dovevano sbarcare in Albania in aiuto del Tocci. In effetti l’Italia non voleva creare problemi con le altre potenze in quanto stava meditando già di appropriarsi della Libia, protettorato turco.
Pochi mesi dopo il tentativo di Tocci, tutte le forze albanesi – in armi da anni – insorsero, dalla Malësia e Madhe alla Çamëria e da Kaçaniku (Kosova) a Vlora, mettendo in fuga le guarnigioni turche e convergendo su Vlora, dove per la prima volta dopo cinque secoli, senza paura e con orgoglio, il rosso stendardo di Skanderbeg poteva sventolare sul libero suolo della giovane Albania.
ata d’Oriente”, attraversa gravi crisi interne ed esterne come la rivolta dei Giovani Turchi (1908), che depongono il sultano Abdul Hamid a favore del proprio fratello conservatore Mehmet, e la guerra con l’Italia (1911-’12) che la mutilerà della Libia e di alcune isole dell’Egeo.
Fu proprio in occasione di questa guerra, che impegnò la Turchia in risorse economiche ed umane, che le popolazioni albanesi, in tumulto da alcuni anni, si ribellarono costringendo le guarnigioni ottomane a ritirarsi dai territori occupati da oltre cinque secoli.
L’Albania, infatti, fu l’ultimo stato balcanico ad affrancarsi dal giogo turco e, soprattutto nel XIX sec., si vide privata di territori che furono ceduti agli stati slavi confinanti ogni qualvolta questi, sostenuti dalla potenza zarista, entravano in guerra con la Turchia sconfiggendola.
A Valona, il 28 novembre 1912, l’anziano Ismail Qemali bej Vlora, proclamò l’indipendenza dell’Albania sventolando la rossa bandiera schipetara con l’aquila nera bicipite su un popolo prostrato da secolari rivolte, represse sanguinosamente, da un’economia arretrata e dalla negazione di ogni espressione di identità culturale e linguistica.
Nel XIX sec., eminenti figure albanesi – N. Veqilharxhi, P. Vasa, i fratelli Frashëri ed altri non meno importanti – svilupparono un’intensa attività patriottica e culturale mirante a sensibilizzare i clan albanesi e a far conoscere all’Europa ed al mondo intero la “questione albanese”.
Il grido di aiuto di questi intellettuali non cadde a vuoto ma fu accolto dagli Albanesi d’Italia – gli Arbëreshë – presenti nell’Italia Meridionale dal XV sec., i cui discendenti mantenevano un legame ideale e culturale con l’antica patria.
Fra le figure arbëreshë citiamo Girolamo De Rada (1814-1903) che con le sue opere e la sua attività patriottica fece conoscere all’Italia e all’Europa la presenza della nostra minoranza etnica e la terribile situazione in cui vivevano gli Albanesi. De Rada, durante la sua lunga ed ammirevole esistenza, profuse alla causa albanese ogni forza fisica ed economica spegnendosi nella povertà e nella solitudine. De Rada, con la sua prima rivista “L’Albanese d’Italia” (1848 –’49) propugnava l’idea di liberazione dell’antica patria e pubblicava i contributi politici e culturali degli Albanesi d’Italia.
Non meno importante fu il contributo dato da altri intellettuali e patrioti arbëreshë come F. A. Santori, Zef Serembe, Gabriele Dara, Giuseppe Crispi, Gerardo Conforti, p. Leonardo De Martino, ….
L’eco delle rivoluzioni europee, intanto, ebbe ripercussioni anche nella Balcania dove gli stati sottomessi ai Turchi lottarono per la propria indipendenza, come la Grecia nel 1821, mentre altri ottennero maggiore autonomia in seno all’impero ottomano mentre all’Albania venivano negate le più elementari richieste.
Fu dopo l’indipendenza bulgara (1878), che vide tra l’altro l’Albania privata dei territori di Plava e Gucia cedute dai Turchi al Montenegro, che le personalità della politica e della cultura schipetari cercarono di unificare le forze per darsi una piattaforma comune di lotta.
Fu così che, il 10 giugno 1878, Abdyl Frashëri convocò a Prizren tutti i capi clan e le personalità di rilievo della nazione albanese nell’omonima lega, superando ogni credo religioso ceto sociale, che si unirono con la parola d’ordine «Një gjak – një gjuhë – nje komb». La storica iniziativa fu salutata con entusiasmo dagli Arbëreshë e da note personalità dell’epoca attraverso gli organi di stampa nazionali ed esteri.
La piattaforma rivendicativa, mirante alla liberazione ed emancipazione dell’intero popolo albanese giacente sotto l’impero ottomano, constava di questi punti essenziali: maggiore autonomia politica ed amministrativa, apertura di scuole e formulazione di un unico alfabeto, denuncia del Trattato di S. Stefano (1878) e difesa dell’integrità territoriale albanese.
La Sublime Porta, inizialmente, fece finta di ignorare questa presa di posizione, ma in seguito intervenne energicamente quando, nel 1881, gli Albanesi guidati da Sulejman Vokshi, difesero Plava e Gucia.
La Lega venne sciolta dai Turchi nel 1881, ma ciò non impedì il rifiorire ed il propagarsi di un’intensa attività politica e culturale in Albania e nella Diaspora nel trentennio 1880-1912.
Un passo importante fu fatto in Italia quando, con decreto ministeriale, venne istituita la cattedra di lingua e letteratura albanese, nell’ormai Liceo-ginnasio italo-greco di S. Demetrio Corone, che venne affidata all’anziano Gerolamo De Rada, che avrà come suoi alunni eminenti personalità della cultura schipetara: il prof. Xhuvani, Luigj Gurakuqi, Avni Rustemi, il pittore Ndoc Martini, ….
Il De Rada, inoltre, era riuscito a legare a sé, ed alla causa nazionale, alcune eccellenti figure di albanesi come la principessa rumena, di origine schipetara, come Elena Gjika (Dora d’Istria), la baronessa austriaca Giuseppina Knorr, Thimi Mitko, che dirigeva i circoli albanesi di Alessandria d’Egitto.
Tra le attività più concrete degli Arbëreshë, nel periodo della Rilindja, furono la nascita di riviste in lingua albanese, l’organizzazione di congressi e la nascita dei comitati Pro Patria a Roma, Napoli e nei paesi arbëreshë che annoveravano decine di iscritti.
Fra le riviste citiamo “Fiamuri i Arbërit” (dal 1883 al 1887), con De Rada fondatore ed editore, che accolse i contributi delle migliori menti arbëreshë, nella testata compariva il programma deradiano “L’Albania agli Albanesi”; altra rivista fu “La Nazione Albanese”(dal 1897 al 1924), fondata e diretta da Anselmo Lorecchio di Pallagorio, che pubblicava le proteste degli Albanesi contro le Grandi Potenze nonchè le corrispondenze provenienti dai vari paesi arbëreshë e della Diaspora; “Illi i Arbëreshvet” (1895-’97) con il papàs Antonio Argondizza di S. Giorgio Albanese che propugnava le esigenze di unificazione linguistica e la formulazione di un alfabeto comune; la “Nuova Albania” (1898) di Gennaro Lusi; “La Gazzetta Albanese” (dal 1904) di Manlio Bennici; “La Rivista dei Balcani” (1912) di Terenzio Tocci.
Bisogna dire i vari comitati italo-albanesi e le relative testate portavano avanti posizioni politiche contrastanti fra loro che spesso sfociavano in accese polemiche. Alcuni di loro sostenevano le tesi di una futura Albania a regime repubblicano ed altri, invece, monarchico – con la proposta di sovrani da operetta discendenti, o no, dalla famiglia Castriota – legato a casate asburgiche o italiane.
Per quanto riguarda i congressi citiamo il 1° congresso linguistico di Corigliano Calabro, dell’ottobre 1895, organizzato da De Rada; il 2°, invece, fu tenuto a Lungro, nel febbraio 1897, che vide la partecipazione di eminenti figure albanesi rifugiate in Austria ed Egitto.
A Napoli, dove era presente una numerosa colonia di Arbëreshë e Schipetari, il 24 febbraio 1897, si tenne un convegno “… con lo scopo di costituire un comitato politico albanese, che avesse la sua diramazione in tutte le colonie, per propugnare l’indipendenza degli Albanesi” (G. Laviola) mentre in Calabria operava già un altro comitato con il fine precipuo di promuovere l’unità linguistica e culturale presso gli Albanesi.
Il 3° congresso linguistico (1901) ed il 4° si tennero a Napoli (1903), in quest’ultimo il dott. Agostino Ribecco (Spezzano Albanese 1867-1928) propugnò energicamente i seguenti punti:
“1) che venga riconosciuto ufficialmente la Nazionalità albanese; 2) che non si più permesso allo straniero di impacciarsi di ciò che succede tra gli Albanesi in casa propria; 3) che sia riconosciuto all’albanese il diritto di progredire coltivando la madre lingua e che questa sia autorizzata ad usarsi negli uffici religiosi; 4) che si tenga in massimo conto della capacità personale dei funzionari albanesi incaricati di assicurare il buon funzionamento delle leggi; 5) che una parte delle imposte prelevate in Albania si spendano per la costruzione di scuole nazionali e di vie di comunicazione in Albania, allo scopo di civile progresso nazionale e di facilitare il commercio”.
A margine di queste vicende, mi corre l’obbligo di inserire il testo del telegramma, senza data ma del 1897-‘98, inviato al Comitato Politico Albanese di Napoli da parte di alcuni studenti arbëreshë del liceo-ginnasio di Cosenza: “Studhentrat shqipë te Kosencës me gjithë zëmër bashkoghen me ju, mëmëdhetarë shpirt-mëdhenj, me shpresë t’afroni kohen e luftes, se pa gjak liri nuk llambaris”. L’ardente ma prezioso dispaccio è firmato da: Cosmo Serembe, Flavio e Guido Tocci (S. Cosmo Albanese), Giovanni Rinaldi e Salvatore Guaglianone (Spezzano Albanese), Delfino Fazio (S. Giacomo di Cerzeto), Angelo Troiano (Plataci), Nicola Vaccaro di Aquilano (Lungro), Salvatore Braile (S. Demetrio Corone), Ludovico Placco e Francesco Castellano (Civita) e Oreste Musacchio (Cerzeto).
Ma anche la Diaspora schipetara fu molto attiva in questo periodo in varie parti del mondo. Citiamo a tal proposito l’attività letteraria di Thimi Mitko (Bleta shqiptare, 1878) presso le comunità albanesi di Alessandria d’Egitto; quella instancabile di mons. Fan Noli che, con la società «Vatra» di Boston e la rivista “Dielli”, riuniva attorno a se la Diaspora albanese presente negli USA; la società «Dituria» di Sofia che aveva una propria tipografia che dava alle stampe la rivista “Drita” e pubblicava le opere di autori arbëreshë e schipetari; la società “La Giovine Albania” di Bucarest e poi le riviste “Lajimtari i Shqiperise”, “Kombi”, “Shpresa e Shqiperisë” …
Ma quali furono i frutti di questi sforzi comuni?
In Italia, oltre alla citata cattedra di lingua e letteratura albanese di S. Demetrio Corone, venne istituito, a Napoli, il prestigioso Istituto Orientale comprensivo della cattedra di Lingua e letteratura albanese; in Albania, invece, e precisamente a Korça, venivano aperte le scuole «Mësonjëtorja shqipe» (1887) e «Shkolla e Vajzave» (1893), nonostante le persecuzioni e le minacce messe in atto dalle autorità ottomane contro gli insegnanti.
Un fatto di portata storica fu, con certezza, il Congresso di Monastir (14-22 novembre 1908), in cui i rappresentanti albanesi si riunirono per dare alla propria nazione un alfabeto comune che non risentisse delle influenze culturali e religiose presenti allora in Albania. Il Congresso, diretto da Gurakuqi, Mjeda, Grameno ed altri esponenti di rilievo, presero in considerazione anche le istanze mosse precedentemente dagli Arbëreshë. L’unificazione dell’alfabeto permise un’agevole diffusione delle idee e fece acquisire alle Grandi Potenze che l’Albania si stava avviando, seppur con enormi difficoltà oggettive, alla sua piena autonomia culturale, preludio di quella politica.
Agli inizi del 1911, l’arbëresh Terenzio Tocci, sbarcato in Albania, giunto nella Mirdizia, con l’aiuto dei clan di Oroshi, proclama un’effimera repubblica albanese. Il fallimento di questa forma politica fu imputato al mancato coordinamento dei clan e, soprattutto, al governo italiano che impedì la partenza delle forze volontarie che dovevano sbarcare in Albania in aiuto del Tocci. In effetti l’Italia non voleva creare problemi con le altre potenze in quanto stava meditando già di appropriarsi della Libia, protettorato turco.
Pochi mesi dopo il tentativo di Tocci, tutte le forze albanesi – in armi da anni – insorsero, dalla Malësia e Madhe alla Çamëria e da Kaçaniku (Kosova) a Vlora, mettendo in fuga le guarnigioni turche e convergendo su Vlora, dove per la prima volta dopo cinque secoli, senza paura e con orgoglio, il rosso stendardo di Skanderbeg poteva sventolare sul libero suolo della giovane Albania.
Francesco Marchianò
Çifti – Civita, 04/01/2013
Te Rrethi Kulturor “G. Placco”.