lunedì 28 maggio 2018

Mundus arberiscus vult decipi. La caduta dei miti




Matteo Mandalà, professore all'Università di Palermo riporta un pò di verità sulla 'fantastica' storia degli arbreshe d'Italia. Chi di noi non ha sentito dire che gli arbreshe erano militari al servizio degli Aragonesi ? Chi di noi non ha sentito dire che i primi venuti in Sicilia erano parenti, cugini, congiunti di Scanderbergh ? Col suo interessante libro Mandalà ci fa sapere che il "mito" è opera di un lavoro a tavolini del Settecento. Riportiano di seguito un breve stralcio delle 238 pagine del libro che, comunque, dà l'idea di come gli arbreshe, gli intellettuali degli arbreshe, nel '700 si sono costruita una identità 'credibile' che potesse metterli al riparo dall'emarginazione sociale, economica, religiosa e culturale in cui quei difficili tempi tendevano a spingerli.



Il testo: Matteo Mandalà

MUNDUS VULT DECIPI
I miti della storiografia arbereshe
Il Contessioto

Mundus arberiscus vult decipi

2.6- Nel corso del primo quarto di secolo del settecento le comunità albanesi in Italia non disponevano ancora di una loro tradizione storiografica. La loro “memoria” e, con essa, la loro identità, erano affidate alla trasmissione orale, ma non erano sostenute da fonti storiche, avvolte com’erano da un impenetrabile silenzio. Le loro origini etnico-culturali e, persino, linguistiche erano misconosciute; e la loro professione religiosa sottoposta a continue censure e, a volte, a violente azioni di repressione da parte delle autorità cattoliche. Sino all’approvazione della Bolla “Etsi pastoralis” (1742), che nel bene e nel male segnò una svolta nella storia culturale degli arbreshe, non esisteva una tradizione di studi che potesse finalmente dimostrare sul piano della narrazione storiografica le ragioni della loro presenza in Italia, delucidare la loro illustre genealogia etnica, rivelare al mondo che non era affatto corretto l’appellativo col quale si finiva per identificarli con i “greci”; che parlavano una lingua antichissima da non confondersi col più prestigioso greco; che le loro tradizioni antropologiche costituivano un patrimonio non meno prestigioso perché ereditato dalle più remote popolazioni pregreche che abitarono i Balcani; che il loro eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbergh era stato il principale difensore del Cristianesimo durante le guerre turco-ottomane; che la loro non era stata una semplice fuga dall’Albania sottomessa “ai cani Turchi”, bensì l’espressione più profonda del loro attaccamento alla fede e alla libertà; che la loro condizione rivestiva in quel frangente storico una dimensione ecumenica perché mirava a ricondurre a Cristo le derelitte popolazioni vessate dall’Isla. Si trattava di una complessa operazione di ricostruzione storica che, pur stimolata da una questione religiosa (la difesa del rito greco), finì col tempo con l’acquisire caratteri autenticamente laici e a promuovere e sostenere il decisivo processo culturale di costruzione dell’identità di cui ancora oggi sono portatrici le comunità albanesi d’Italia.

Tutto questo costituiva l’architettura del sistema ideologico o, meglio, dell’ideologia albanista che alcuni intellettuali arbereshe siciliani –tra i quali è d’obbligo menzionare padre Giorgio Guzzetta (1682-1756) e il suo allievo prediletto Paolo Maria Parrino (1711-1765)- tentarono di “codificare” scrivendo corpose opere storiche, sfortunatamente rimaste inedite, sulla base di una documentazione che iniziarono a raccogliere in vari fondi archivistici siciliani, aiutati dai tanti “papades” che vivevano nelle diverse diocesi dell’Isola e nelle comunità albanesi.

Il fatto di ritrovare –tra i tanti diversi documenti che riuscirono a raccogliere- cedole e diplomi regi, lettere patenti e altro materiale di così alta e rinomata provenienza, non solo poterono soddisfare il loro profondo desiderio di nobilitare le origini delle loro comunità, ma poterono coronare di successo la realizzazione di un disegno intellettuale tanto ambizioso quanto complesso: avviare un processo di costruzione dell’identità culturale delle comunità albanesi avvalendosi dei procedimenti in auge nell’Europa settecentesca, allora pervasa da una profonda crisi d’identità –procedimenti che Eric J. Hobsbawn ha magistralmente descritto nella sua introduzione al libro significativamente intitolato “l’invenzione della tradizione”.



2.7 Più che una “riforma”, come quella che nello stesso periodo fu avviata da Muratori, l’iniziativa promossa da Guzzetta e da Parrino mirava alla vera e propria fondazione ex-novo di una tradizione storiografica dotata di fisionomie, di metodi e di finalità propri, di forme e di contenuti originali, di una stabilità ideologica tanto inalterabile e longeva quanto convincente e documentata. Ne conseguì una sistematica indagine che esplorò, oltre agli archivi, le fonti narrative storiografiche classiche, medievali e moderne, preparò la stesura di brevi monografie sulle singole comunità albanesi, avviò l’elaborazione di un discorso storiografico inedito, seguendo modalità che gli avrebbero consentito di strutturarsi secondo regole formali inconfondibili e di avvalersi di uno schema logico-semantico assai semplice ma, nel contempo, funzionale alla realizzazione del disegno ideologico che aprioristicamente lo precedeva e che, altrettanto aprioristicamente, lo orientava.



2.8 L’idea di fondo risiedeva nel tentativo di fornire un’interpretazione storica della “diaspora” che la mettesse al riparo da ogni contestazione preconcetta, salvaguardando i protagonisti dall’accusa –infamante e gravissima per quei tempi- di appartenere alla cultura religiosa scismatica dei “greci” e dimostrando, al contrario, che essi appartenevano alle più rinomate classi sociali albanesi, tutte rigorosamente fedeli alla ortodossia cattolica: capi militari di indiscusso valore, sacerdoti cattolici anche se di rito orientale, nobili e aristocratici, quasi tutti “geneticamente” consanguinei del loro eroe nazionale, di quel Giorgio Castriota Scanderbergh che li aveva guidati nell’epica lotta contro gli infedeli ottomani. Anzi, proprio la figura del condottiero albanese, passato alla Storia d’Europa come “defensor fidei” e “atleta Christi”, colui il quale, bloccando per cinque lustri l’avanzata militare musulmana, consentì al Vecchio Continente di allontanare lo spettro del terrore, di acquisire rinnovata fiducia sulle sue forze e di sperare in un destino diverso da quello funesto che spazzò via la capitale della cristianità orientale (Bisanzio), godeva di una così alta considerazione che la sola evocazione delle sue imprese rendeva ulteriormente più realistiche e, quindi, più credibili le narrazioni storiografiche che tentavano di riempire il fragoroso silenzio storico che, ancora agli albori del Settecento, circondava la storia dell’emigrazione a cui diedero vita gli albanesi nel medioevo e, conseguentemente, le origini delle numerose comunità sorte nel Mezzogiorno italiano.



2.9 – La funzione ‘mitopoetica’ assegnata dalla nascente storiografia arbereshe alla figura di Castriota, oltre che consentirle di lanciare lo sguardo nel più remoto passato della storia degli albanesi – le cui origini etnico-linguistiche venivano connesse direttamente agli antichi popoli balcanici, tra i quali i pelasghi di Omero e i macedoni di Alessandro Magno, e la cui fedeltà all’ortodossia cattolica veniva direttamente fatta risalire all’apostolato di San Paolo- le permise di fissare la pietra di volta all’edificio che avrebbe custodito, almeno sino alla prima metà del secolo scorso, la “sacra verità” inventata dalla tradizione storiografica arbereshe settecentesca. Si trattava di un edificio che si sorreggeva su tre pilastri concettuali, i quali, a loro volta e fuor di metafora, formavano il seguente sillogismo:

1) gli albanesi giunsero in Italia o quando Scanderbergh era ancora in vita oppure immediatamente dopo la sua morte;

2) ad eccezione di questi ultimi, i primi erano imparentati con il principe albanese e quindi appartenevano o alla casta militare oppure a quella aristocratica e, pertanto,

3) godettero di speciali concessioni o di consistenti privilegi, reali o ecclesiastici o baronali, nelle terre italiane in cui furono accolti.

Lo schema logico entro cui veniva collocato il discorso storiografico era, nella sua strutturazione formale, in tutto identico a quello che imperava nelle opere settecentesche che miravano a ricostruire la storia dei popoli europei, cioè attraverso un’accorta selezione delle fonti storiche, un’abile utilizzazione delle sacre scritture, il più o meno esplicito fine di mitizzare le origini e, da ultima ma non per ultima, la rivendicazione di una presunta superiorità morale nei riguardi degli “altri”, meno fortunati, che non partecipavano della medesima “storia”.



2.10- Nella sua semplicità ermeneutica e al di là degli aspetti semantici che di volta in volta hanno concorso alle ricostruzioni delle vicende locali, lo schema logico applicato dalla narrazione storiografica arbereshe contribuì a inventare una “tradizione”, quella appunto storiografica, nella quale non solo è facile scorgere una straordinaria e ininterrotta continuità garantita dalla ripetuta, immodificata e, perciò, rituale esecuzione del sillogismo suddetto, ma è altrettanto agevole rilevare persino, e paradossalmente, gli elementi costitutivi di tutte e tre le classi di contenuto e delle loro successioni che, secondo Roland Barthes, permettono all’elaborazione dell’enunciato storico di trasferirsi su un piano narrativo più prossimo ai generi letterari del romanzo storico, dell’epopea e del poema epico.

E’ all’interno di questo quadro ideologico, in cui predomina fortemente il “desiderio” della dimostrazione di un assioma assunto aprioristicamente, che si insinuarono le falsificazioni, sia quelle che furono artatamente compiute a ridosso della svolta culturale di cui si è detto, sia quelle, certamente le più significative, che la precedettero. Scarsi o, addirittura, nulli furono gli effetti delle cautele adoperate nei riguardi di quei materiali di dubbia provenienza e di assai incerta autenticità: e si trattò di cautele che, sebbene non consigliarono di espellere immediatamente quei documenti dal ricco materiale così rapidamente accumulato, di certo suggerirono di procedere con grande e misurata attenzione. Ma quando l’interesse prevalse, anche la prudenza più accorta iniziò a vacillare e, come sovente accade in questi casi, a un certo punto svanì del tutto. Sicchè, come accadde a Muratori che si era affidato a Tafuri, tra i tanti informatori arbereshe mobilitati ebbero il sopravvento coloro che –vuoi per eccessiva ingenuità o per un malinteso senso dell’amor patrio- non solo diedero credito ai documenti falsi e, in altri, ne “inventarono” di nuovi, ma agirono in modo tale da legittimarli agli occhi dei tanti che attendevano ansiosamente di conoscere la storia della loro comunità.



A parte i pochi storici che se ne sono occupati, non senza gravi difficoltà e con clamorosi insuccessi, nessun altro si è mai posto il problema di ricercare i documenti originali e di sottoporli alle necessarie verifiche storico-filologiche e, quindi, di stabilire una volta per tutte la loro autenticità. Forse non se ne sentiva la necessità oppure, come si è più propensi a ritenere, intervenne la stessa ragione alla quale si appellò Konrad Kujau, l’oscuro commerciante di anticaglie militari naziste di stoccarda che fabbricò i diari di Adolf Hitler, quando gli fu prospettato di rifondere i nove milioni di marchi versati dalla rivista di Amburgo che si aggiudicò l’esclusiva dell’edizione dei falsi: Kujau non intendeva restituire un centesimo perché “aveva fatto un buon lavoro” e perché, a suo avviso, un’eventuale responsabilità era, semmai, da attribuirsi ai comportamenti dei truffati, che avrebbero mostrato disponibilità addirittura istigatrice nel farsi ingannare. Risulta chiaro che, al di là dell’aspetto anedottico e burlesco della vicenda Kujau, esaminando il singolare rapporto tra truffatori e truffati emerge, direi paradossalmente, che i secondi dal punto di vista pratico hanno le idee meno chiare dei primi o, se consideriamo la questione da un’altra angolazione, parrebbe effettivamente che aspettino che qualcuno li possa ingannare, per potersi compiacere –finalmente- della soddisfazione di avere potuto esaudire un loro desiderio. Da qui l’acuta riflessione di Horst Fuhrmann che ha costituito il filo conduttore di questo libro:

“Evidentemente esiste a volte nei truffati una disponibilità, influenzata dai propri desideri, a considerare autentiche le falsificazioni; alla volontà del truffatore corrisponde la disponibilità del truffato e sulla bocca di un Konrad Kujau non sarebbe poi così fuori luogo il detto proverbiale circolato a partire al più tardi dal XVI secolo: “Mundus vult decipi, ergo decipiatur”.

2.11- Nei prossimi capitoli si avrà modo di constatare quanto sia stata perniciosa nel passato la “sindrome di Kujau” per la salute degli italo-albanesi, mentre per quanto riguarda la sua attualità è il caso di riportare sotto forma anedottica un episodio illuminante e, nel suo genere, gustoso. Tra le altre falsificazioni circolate nel corso dei secoli, ha goduto di particolare fortuna la “memoria” attribuita ad Agostino Tocci. Pubblicato da Girolamo De Rada a più riprese nella seconda metà del XIX secolo, quel documento, scritto in un perfetto italiano ottocentesco, risalirebbe al 1650. Vi si narra l’epopea di Giovanni Castriota e degli albanesi al suo seguito, i quali dopo estenuanti peregrinazioni in Italia, si sarebbero insediati definitivamente nelle regioni meridionali della Penisola, compresa la Sicilia, fondando un imprecisato numero di colonie arbreshe. La palese falsificazione (per quanto possa apparire, come ha sostenuto Paolo Petta, una vera e propria “invenzione della tradizione”) ebbe notevole successo letterario nel corso del secolo del romanticismo, tanto che alcuni scrittori arbreshe, tra i quali Gabriele Dara junior e Giuseppe schirò, la citarono come autentica fonte storica. Sull’inattendibilità della “memoria” oggi non vi sono dubbi: Paolo Petta ne ha parlato in termini di “una ingenua Eneide italo-albanese, priva di fondamento storica e zeppa, del resto, di incongruenze: ma che corrisponde all’immagine di migrazione creata da una tradizione orale, che amava ricordarla come un grande movimento del popolo albanese, organizzato sotto la guida dei suoi capi naturali”. In tempi più vicini, la “memoria” di Tocci è stata ripescata da Domenico Cassiano che in due distinti lavori storiografici le ha affibbiato due giudizi diametralmente opposti: col primo, dopo una serie di singolari arzigogola ture interpretative, le si negava “probante valore sotto il profilo storico” e, anzi, si ribadiva che si tratterebbe della “narrazione fantastico-epica della quarta (?) emigrazione”; col secondo, formulato di recente, la si riconosceva, invece, come “documento storico di rilevante valore”, al punto di considerarla “una silloge del ricordo popolare. Oralmente tramandato di generazione in generazione” che obbligava a “rivedere il giudizio (…) sulla storicità del documento dato altrove”. Un così incredibile e disinvolto mutamento di opinione non poteva che essere spiegato prendendo in considerazione la “sindrome di Kujau”. Incaricato dall’Amministrazione comunale di Strigari, poteva Domenico Cassiano non affidarsi alla “memoria” di Agostino Tocci, che a Strigari ebbe i natali ? Non era forse un preciso dovere dedicare un capitolo del suo libro (“Le immigrazioni e la memoria di Agostino Tocci”) e appagare così il duplice desiderio del committente di assistere alla celebrazione di un intellettuale locale e di vedere riconosciute alla sua comunità siffatte nobili e antiche discendenze storiche ? Quando ho chiesto a Cassiano una spiegazione, la risposta del mio sornione interlocutore è stata esplicità, ma non ha smentito, come pure mi auguravo, la mia previsione: “questo volevano che io scrivessi !”. Insomma: Mundus vult decipi, ergo decipiatur.








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