venerdì 14 dicembre 2012

Losërat dhe lodrat në traditën popollore të Fermës

(a cura di Ambrogio Bellizzi)



Nel corso dell'anno scolastico 2011/2012 gli alunni della Scuola Primaria di Firmo hanno partecipato alla realizzazione del progetto R.U.G.A. (Ringjallja Udhesuese Gjuhes Arbereshe - Rinascita pianificata della lingua Arbereshe) per lo studio e la valorizzazione della storia, della cultura e delle tradizioni della  minoranza linguistica: la Lingua Arbereshe.
Il progetto è stato finanziaro dal MIUR con i fondi della legge 15 Dicembre 1999, N°482, art.5 ed è stato realizzato in rete con gli Istituti Comprensivi "E. Koliqi" di Frascineto e "G. Pascoli" di Villapiana.
"ll nostro Istituto ha inteso, così, dare continuità alle attività di insegnamento della lingua arbereshe, già avviate con successo negli anni precedenti, al fine di perservare la stessa dai pericoli di una società globalizzata e globalizzante nella quale si impongono idiomi e modelli ad essi correlati, che mettono in grave pericolo aspetti relativi all'identità degli appartenenti alla minoranza linguistica"  sottolinea il Dirigente Scolastico Prof. G. B. Di Marco.
Come tutti sanno, i nonni hanno una grande importanza nella nostra vita. Infatti, dopo i genitori, sono le figuri più presenti e assumono un aspetto carismatico legato alla loro disponibiltà, alla serenità e alla tranquillità che trasmettono.
Le nonne e i nonni sono importanti anche perchè rappresentano le radici vive della nostra vita, della nostra cultura, della nostra lingua, per questo il Preside ha voluto che la scuola realizzasse un progetto nel quale, attraverso l'opera dei nonni, si educasse l'alunno a conoscere il passato per comprendere meglio il presente e organizzare il proprio futuro.
Questi due percorsi didattici spesso si intrecciavano e quindi abbiamo deciso di farli camminare insieme. Abbiamo scelto in particolare di conoscere la nostra storia, dei nostri nonni e attraverso loro quella della nostra comunità.

Il gioco stimola l'inventiva, la curiosità, l'ingegno, la manualità, la creatività; abitua alla competizione, alla riflessione, al rispetto delle regole; contribuisce a formare la mente e potenzia le ablità fisiche e motorie; inoltre rappresenta un vero e proprio allenamento che il bambino compie inconsapevolmente per avvicinarsi ed addattarsi alla società degli adulti.
Nei tempi passati, il gioco era di tipo creativo, collettivo, di alto valore sociale. Infatti, i nostri nonni stavano sempre in compagnia in mezzo alla strada, ka gijtonia, ka ruga, nei vicoli del paese, nei campi, dalla mattina alla sera.
La gijtonia e la ruga rappresentavano la prosecuzione naturale dell'ambiente domestico , spesso povero ed angusto; erano il luogo ideale, soprattutto nelle belle giornate primaverili ed estive, alla vita comunitaria degli adulti e dei bambini. Erano questi i luoghi di incontro privilegiati, teatro dei giochi infantili di un tempo, dove ragazzini e ragazzine vocianti e gioiosi si confrontavano in giochi collettivi; erano il laboratorio deputato alla realizzazione di nuovi giocattoli ricavati con mezzi di fortuna e costruiti spesso in modo rozzo e poco resistenti. Infatti, il più delle volte, erano i bambini stessi, spesso assieme agli adulti, che dovevano costruire i loro giocattoli: piruçet, karroçulli, paluni (pallone costruito con gli stracci), frexi (la fionda), con materiali che riuscivano a reperire in casa o fuori.
Abbiamo scoperto come con semplici mezzi, parole, suoni e immagini, si divertivano i nostri nonni e i nostri genitori; apprezzato la bellezza e la semplicità dei giochi di una volta, sperimentandoli direttamente con grande divertimento di tutti. Grazie a loro abbiamo riscoperto il valore e l'autenticità del gioco e del giocare, divenendo coscienti dell'importanza dello stare insieme, acquisendo la consapevolezza dell'attività ludica, intesa come coinvolgimento di tutte le attitudini psico - fisiche della persona.
Pensiamo che la scuola dovrebbe promuovere progetti di studio sui giochi, sul modo di divertirsi, di vivere e di lavorare di una volta; non come ricerca episodica e fine a se stessa, ma come importante scelta didattica per la formazione delle giovani generazioni. Queste ricerche hanno avuto, nel corso dell'anno, un valore etno-antropologico, non certo marginale per lo studio e la conoscenza delle tradizioni, della cultura e della storia locale.
A conclusione dell'intero percorso, lo studio effettuato, ha reso possibile la realizzazione di una serie di lavori e manufatti di alcuni giocattoli e la stesura del presente testo, a memoria e testimonianza delle attività svolte.
  
Ambrogio Bellizzi
Docente Referente del Progetto 

martedì 11 dicembre 2012

Sirku: il baco da seta

(di Pietro Napoletano ) 
 

Quando avevo otto anni la mia curiosità di bambino venne in contatto con la bachicoltura (sirku). E fu anche l'ultima volta che vidi mia madre impegnata in quel lavoro, pare che mia nonna, che io non ho mai conosciuto, fosse una " maestra nell'arte della bachicoltura, e mia madre ne aveva appreso i segreti del miestere.

Baco da steta (Sirku)
La gelsicoltura - mi raccontava mia madre - era molto fiorente nel secolo scorso e gran parte del territorio intorno al paese era coltivata a gelsi (men), gelseti puri o a coltivazione promiscua. Anche noi avevamo due tomolate di gelseto, che poi tuo padre ha tagliato.
E perchè l'ha tagliato? - chiesi con malcelato interesse, dato che dei piccoli frutti (korronxeze), sia bianchi che neri, ne ero ghiotto.
-Perchè ormai la bachicoltura è in crisi - mi rispose, con un velo di rammarico negli occhi luminosi e chiari - e nessuno viene più a comprare i bozzoli (kukulet). I gelseti sono stati quasi tutti tagliati. Sono rimaste delle piante soltanto lungo i confini dei campi, soprattutto per i frutti.
"Menariqi", un piccolo gelso rachitico che sorgeva lungo il ciglio della strada detta "la Variante", ora via Cavour, rappresentava un punto di riferimento dove i ragazzi si davano appuntamento per i loro giochi: "Shihemi ka menariqi".
Anche se praticato in modo rudimentale, quello della bachicoltura era stato, fino agli anni Venti, uno dei più fiorenti e redditizi settori dell'economia locale che garantiva alla gente un sicuro introito in denaro liquido, ma sul finire degli anni Trenta, ebbe la sua scomparsa quasi definitiva. Nell'immediato dopoguerra qualcuno praticò ancora la bachicoltura, ma finalizzata soltanto alla produzione di seta (sitadhoprit) per il fabbisogno personale o familiare.
L'allevamento del filugello (Krymbi mendafshit) comprendeva varie fasi e richiedeva molta cura e perizia. Il seme si acquistava, ma si produceva anche localmente. L'incubazione delle uova, che durava circa diciotto giorni, doveva avvenire in luogo caldo, di modo che venisse garantita una tempertura uniforme intorno ai venti gradi, perciò si preferiva sistemarle vicino al caminetto ( vatra) o nella stalla, tra la paglia. Allo schiudersi delle uova, i piccoli vermi venivano posti in ceste di paglia (kufe) e alimentati con foglie di gelso tagliuzzate minutamente.

Pianta di Gelso
Man mano che crescevano, poi, venivano sistemati su rudimentali cannicci (kanicolle) e nutriti (tagjisur) con abbondante fogliame fresco di gelso. Chi non disponeva di magazzini (katoqe) o stalla, riduceva tutta la casa a bigatteria. Il periodo larvale durava circa trenta giorni e si svolgeva nel mese di giugno; la sbozzolatura, ovvero l'uscita delle farfalle dai bozzoli, avveniva ai primi di luglio.
I bozzoli venivano accuratamente selezionati e, prima della sbozzolatura, quelli di migliore qualità venivano venduti, mentre lo scarto era destinato alla trattura domestica.
Per la vendita esisteva la figura del mediatore, o sensale,  che acquistava per conto di un commerciante che arrivava solo a fine campagna, quando era pronto tutto il carico di bozzoli.
La mia memoria focalizza in modo particolare il giorno della trattura; c'erano mia madre, mia zia, donna C., una vecchietta molto cordiale e particolarmente disponibile a rispondere alle mie continue domande, ed alcune ragazze del vicinato (gjitonia venute a curiosare.
La trattura è l'operazione di svolgimento dal bozzolo del filo di cui è formato ed il conseguente suo avvolgimento in matasse.
C'era sul fuoco una grossa caldaia di rame (halkome) dove, poco prima che l'acqua iniziasse a bollire, venivano immersi i bozzoli. Perchè il soffocamento della crisalide avveniva per immersione nell'acqua bollente.
Per rinvenire i capi dalle bave, mia madre soffregava la massa dei bozzoli mediante una piccola ramazza, poi acchiappava i fili e li faceva passare attraverso i buchi di una grossa schiumarola di rame, precedentemente attaccata ad una sedia, di modo che venisse a trovarsi alla stessa altezza della caldaia, così il filato si amalgamava e diventava più omogeneo ed uniforme. Intanto, con movimento lento e ritmato, donna C. o qualche altra delle persone presenti, girava l'aspo intorno al quale si avvolgeva il filato in una grossa matassa. Durante il tiraggio, mia madre, con abile movimento delle dita, cercava di eliminare delicatamente nodi e garbugli.
Il filato di seta (mendafshi) era di colore giallastro e, successivamente, prima della lavorazione - mi spiegò donna C. - veniva sottoposto a candeggio per renderlo più morbido e più bianco, ed eventualmente a tintura.
Fu in quell'occasione che arricchii il mio lessico concernente sia "sirkun"( il baco da seta) che argali (il telaio): il vocabolo "kukule" indicava sia il bozzolo sia il cascame di seta, ovvero il prodotto meno pregiato; " palaçe e kukulte" era una coperta di seta grezza; la seta di prima qualità aveva ormai perso il vocabolo appropriato, " mendafsh" (stolì mendafshi = vestiti di seta), e veniva chiamata "sitadhopir"; la stoffa grezza di cotone era detta " pilhure"; la rascia, un grossolano tessuto di lana, era chiamata " follondine".
Donna C. mi invitò poi a casa sua e mi fece vedere il telaio (argalia), il naspo (tiligadhi), l'arcolaio (anemi), la girella (qertulla), la navetta (zhgjeteza), il subbio (shuli), il pettine invergatore (cungrana), la matassa  (alisidja ), il fuso (boshti). E sempre parlando con donna C. appresi il verbo " yenj", (tessere) ed il vocabolo " skamengje" (batufolo di cotone).

Estratto da " Il volto della memoria" Pietro Napoletano, edizioni il Coscile, 1995.
Foto diGiardinaggio.efiori.com;
Laboratorioantispecista.org













 
 
 

lunedì 10 dicembre 2012

L' Eparchia degli Italo Albanesi dell'Italia continentale celebra il Centenario dell'Indipendenza dell'Albania




In occasione della Festa  di San Nicola di Myra, patrono di Lungro e dell'Eparchia degli Italo Albanesi dell'Italia Continentale, Sua Eccellenza, l'Eparca Donato Oliverio, ha voluto ricordare il primo centenario dell'Indipendenza  dell'Abania.
L'Eparca ha voluto ricordare che il popolo Italo Albanese è sempre rimasto legato alla madre patria, soprattutto per il legame linguistico che per il Rito Bizantino degli antichi Padri. Questa forma di fedeltà - ha continuato Mons. Oliverio - è stata premiata con la istituzione, nel 1919, voluta da Papa BenedettoXV, dell'Eparchia degli Italo Albanesi a Lungro. Infine è stato ricordato il compianto Mons. Giovanni Stamati, che nel 1968 ha introdotto nella Divina Liturgia Bizantina di San Giovanni Crisostomo la lingua Albanese, che tutt'oggi, nei paesi che formano l'Eparchia,  viene cantata a Gloria di Dio. Noi siamo fiduciosi- ha concluso - che sacerdoti, laici e giovani possano oggi recarsi in Albania,  come studiosi, per meglio conoscere la lingua e la letteratura del posto, in maniera tale che la Nostra Arberia possa vivere e nel contempo rinascere.

lunedì 3 dicembre 2012

La religione dei Pelasgi è viva in Albania


domenica 2 dicembre 2012

Finja: il bucato

(di Pietro Napoletano)

 
Era uno dei mestieri esercitati abitualmente in ogni casa, con frequenza quindicinnale o, al massimo, mensile, ma tra i meno graditi, che neppure nel ricordo conserva alcunchè di poetico. Il bucato (finja), infatti, veniva fatto per necessità, più che per piacere,  ed era una operazione collettiva a cui partecipavano più persone, consistente nella lavatura della biancheria mediante un processo di lisciviazione. L'attrezzo più caratteristico era la "skorca" (scorza), un rustico corbello rottondo ottenuto intrecciando fasci di rami di ginestra, sul cui piatto fondo veniva lasciato un grosso foro per lo scolo dell'acqua.
Chi poteva permetterselo, chiamava in aiuto, soprattutto per il risciacquo, che veniva eseguito al fiume. C'erano, a tal fine, tante donne che lo facevano a pagamento, portandone sulle mani evidenti segni, perchè il ranno iiruvidisce la pelle e la screpola.
 Il giorno prima si metteva a bagno la biancheria nell'acqua saponata. I panni con lo sporco più resistente venivano insaponati abbondantemente e trattati con il battitoio, (me kopanin). Venivano poi sistemati a strati nella " skorca", avendo cura di non andare oltre i quindici, venti centimetri dall'orlo, dopo di che vi si stendeva sopra la "shtruamja" , un rozzo panno che faceva da filtro al ranno, proteggendo la biancheria da possibili danneggiamenti. Si preparava quindi la cenere. Ricordo che mia madre la cerneva con un vecchio setaccio adibito appositamente a tale uso. La si scioglieva in una grossa caldaia piena d'acqua, rimestando con un bastone, e si attizzava il fuoco, aspettando che arrivasse ad ebolllizione. Era così pronta la liscivia che, presa con un mestolone, veniva cersata nella "skorca", sopra la "shtruamja" che tratteneva l'impasto melmoso di cenere, facendo filtrare soltanto il ranno bollente che agiva come efficace detergente sui panni.
La mattina seguente, poi, sollevata "shtruamja", con la poltiglia di cenere, si traeva la biancheria che aveva bisogno di essere risciacquata in abbondante acqua. E questa operazione, in mancanza di grosse vasche, in genere, veniva compiuta al fiume. Mia madre, per tale servigio, chiamava sempre due sorelle, di cui aveva molta fiducia. " Perchè -diceva- la biancheria delicata deve essere risciacquata molte volte e con cura, altrimenti si può macchiare, strappare, o vi resta la puzza della liscivia".
Le donne avvolgevano tutta la biancheria in un involucro di tela, se la caricavano sulle spalle, legandola con una corda (me telin), e la portavano al fiume distante circa un chilometro dal paese.
Il posto preferito per le lavandaie era in un tratto in pianura, vicino a un ponticello, ove la fiumara si allargava e l'acqua scorreva con minore  impeto, insinuandosi lentamente nell'ampia ansa cosparsa di grossi macigni levigati dall'uso. Ognuna di quelle lavandaie, frequentatrici abituali, aveva il suo posto, ad una certa distanza l'una dall'altra, per non intralciarsi; e immergendosi fino al ginocchio, avevano l'opportunità di sciacquare e risciacquare la biancheria, specie le lenzuola. Al fine di liberare i panni da qualche macchia residua o dall'alone della liscivia, li sfregavano sulla pietra o su un asse di legno con scannalature (derraza) con movimento verticale in su e in giù, per poi risciacquarli, strizzarli e sciorinarli al sole, sopra cespugli di ginestra, di luzule o di lentisco, mentre l'acqua continuava a scorrere, portando seco crucci ed affanni, sudori e ranno.



foto di: gozlinusvalva. wordpress.com;
             www.sanmarcoinlamis.org




sabato 1 dicembre 2012

Poçia

( di Pietro Napoletano)


Da novembre a maggio, questo benemerito utensile di terracotta a forma cilindrica, dalla pancia arrotondata, non mancava mai al focolare. E il suo caratteristico brontolìo prodotto dal gorgoglìo dell'acqua in ebollizione che trascinava i fagioli o i ceci in un vorticoso saliscendi, faceva parte della colonna sonora del viver quotidiano intorno al focolare. No la si poteva lasciare sola perchè c'era il rischio di vederla crepare per mancanza d'acqua, e la mamma, sacra vestale addetta al culto della pignatta, attizzava il fuoco, aggiungeva l'acqua, metteva il coperchio per accelerare l'ebollizione, la schiumava, la scaricava debitamente, se si accorgeva che era troppo piena. Le riservava, insomma, particolare premurosa attenzione e, se proprio era costretta ad allontanarsi, non  mancava di raccomandare a qualcuno di stare attento alla pignatta.
Ve ne erano di diverse dimensioni: grosse, medie piccole, piccolissime, da usare a seconda delle necessità. Le più grosse venivano impiegate in particolari occasioni, per cuocere la carne per il brodo (vi si conteneva una gallina intera), o semplicemente per avere sempre pronta l'acua calda; le medie e le piccole, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, erano adibite alla cottura dei fagioli, dei ceci, lenticchie, cicerchie; le piccolissime venivano usate per preparare l'infuso di camomilla ( peçorriqe hamumilit).
Anche oggigiorno, laddove è ancora d'uso il focolare, non è raro trovare la pignatta accanto al fuoco. Ma la sua presenza ha una funzione diversa. Oggi esaudisce un desiderio, contribuisce alla realizzazione di una variante culinaria, partecipa alla riscoperta di antichi sapori. Ieri, invece, era un punto di riferimento, una colonna portante dell'alimentazione, tanto da rappresentare il simbolo di un'epoca.
La prima colazione costituiva un momento particolarmente piacevole, perchè le ali della fantasia delle nostre madri riuscivano a diradare le ombre della miseria e avevano il merito di elevare a rango di leccornia umili cibi e intingoli d'occasione.
E chi, tra quelli della mia generazione, può dire di non avere più volte gustato il prelibato sapore della pasta fatta in casa ( shtridela, tumac, strangula, rrashekatjel), riscaldata il mattino seguente? Ma il piatto più caratteristico e ricorrente della nostra prima colazione era la colatura della pignatta.
Io detestavo i borlotti, varietà di fagioli rossi e tondi, i "fagioli dellocchio ( fasullelet), piccoli e rosei, dall'ilo nero, non gradivo ceci e lenticchie, perchè non si prestavano alla colatura, in quanto la loro brodaglia nera era disgustosa. Andavo invece in solluchero alla vista della pignatta con i bei fagioli tondi e appetitosi.
Si mettevano in un piatto fondo o in una scodella pezzeti di pane raffermo e, quando la pignata aveva concluso la prima bollitura, vi si versava il suo brodo, si insaporiva con olio, sale e pepe rosso e, con l'immancabile condimento dell'appetito, rappresentava,quel piatto un manicaretto squisito, prelibato, di cui ancora m'è grato il ricordo.
.


Foto di Francesco Fusca Tempesta

mercoledì 14 novembre 2012


Fondi destinati alla cultura arbëreshe gestiti e incautamente spesi da personaggi senza scrupoli.
 
Essere ripetitivo, con sintagmi discontinui, molte volte, può far sembrare che, il latore riservi odi di carattere personale nei confronti del ricevente. Chi vuol mettere in rilievo tale indebita sembianza, in questa circostanza, è complice di una viziata realtà abbarbicata sul malcostume e sdegnante latrocinio.

La legge 482/99, ideata e fatta promulgare da “Arbëreshe” veraci, in questi ultimi tempi, in cui imperversante si manifesta la crisi economica, è divenuta “ folè me vet të arta” (nido con le uova d’oro), per una squallida categoria di persone (anche non arbëreshe).

E’ turpe e immorale che, persone in pensione (e che pensione!) si rendano paladine della Nostra Cultura solo per il fatto che ad apparecchiare il tutto sia il dio denaro. Turpe è anche il fatto che tali pirati abbiano inculcato ai propri figli la tesi che essere e parlare arbëreshe è, in maniera netta, controproducente.

La vigliaccheria di tali individui è così palese da indurli a manifestare, in maniera “sgradevole,” il Nostro Essere, fuori dalle mura di cinta…ribadisco è necessario che la legge 482/ 99 venga al più presto abrogata….gli Arbëreshe nell’Arberia!!!

 (Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)