Ernesto Scura
Col mio primo viaggio in Albania credevo di aver assolto il compito di
arbëresh, quasi un dovere, di visitare la mia terra d’origine. In verità provai
una grande emozione, come un pellegrino in visita ai santuari della propria
fede. Mi si spiegò, con dovizia di particolari, che il mio cognome è originario
di Skuraj, un villaggio del circondario di Kruja, legato all’epopea di
Skanderbeg.
Non mancò l’omaggio di un opuscolo, con dedica del direttore del
Museo di Kruja, in cui appunto si parla di Kruja e di Skuraj e del perché
quella regione ha preso il nome di «Kurbini» (= Quando cadete?), volendo
significare l’ostinata resistenza di quegli abitanti agli accaniti e lunghi
assedi dei Turchi.
Oggi Skuraj è un villaggio di pochi abitanti con poderosi resti di antiche
fortificazioni. Il cognome Skura, sporadicamente riscontrabile in altre regioni
dell’Albania, è qui inesistente.
Fu a questo punto che maturai la convinzione che noi arbëresh abbiamo tre
Patrie legate appunto all’itinerario del nostro esodo. I nostri ricordi non
vanno oltre gli avvenimenti italiani; solo le usanze ed il rito religioso ci
riconducono fino alla Grecia (E bukura Morè : il bel Peloponneso).
Unico filone, comune alle tre Patrie, il mito di Skanderbeg e,
naturalmente, la lingua.
Volli percorrere a ritroso il villaggio dei nostri antenati, visitando
appunto la Patria intermedia, la Grecia.
Se per l’Albania ho parlato di emozione, per la Grecia devo dire
commozione. Prima grande sorpresa, gli albanesi arbërorë sono milioni sparsi in
villaggi, paesi e città del Peloponneso, dell’Argolide, dell’Attica,
dell’Eubea, della Beozia, della Corinzia. Altri, non più ,albano, foni, sono
mescolati con i greci, forse ignari della loro origine.
I cognomi, Skuras, Stamatis, Musakion, Prifti, Bellushi, Zoga, ecc. sono
tra i più diffusi in Grecia, al punto che, ogni qualvolta esibivo il passaporto
in albergo, non mancava il commento compiaciuto : «tu greco», accompagnato da
un ampio sorriso che subito spariva quando, con decisione, precisavo: «io
arbëresh, ossia come voi dite, arvanitis».
Evidentemente la mia qualifica di arvanitis non suscitava lo stesso
entusiasmo che accendeva il mio cognome.
Mi dovetti subito rendere conto che, presso i greci, il termine arvanitis
ha un velato significato dispregiativo. Senz’altro un antico retaggio di
xenofobia, risalente forse all’epoca dell’immigrazione dei pelasgi.
Per fortuna questo inconveniente viene automaticamente compensato dalla
presenza di numerosi arvaniteis nei quali ci si può imbattere percorrendo la
Grecia, a caso, senza un programma preordinato.
Porthoelli sulla punta estrema dell’Argolide, è una ridente cittadina sul
mare, centro di turismo internazionale, al quale si perviene, partendo da
Corinto, dopo aver attraversato un lungo corollario di paesi albanesi.
Fugaci scambi di battute lungo il percorso, diffidenza iniziale seguita da
sorrisi di gioia ed inviti a rimanere tra quella gente che si riconosce
perfettamente nella nostra lingua e, finalmente, siamo a Portohelli.
La certezza di essere in Grecia vacilla di ora in ora, man mano che aumenta
l’impatto con la gente e il dialogare si fa più lungo e più … albanese. Si
accende da ambo le parti una curiosità inappagata da secoli, un domandare e
rispondere veloce e preciso nella comune lingua, non privo di battute
spiritose, il più delle volte sorseggiando un caffè o un bicchierino di «uzo».
Chiedo ad un vecchio abbronzato e rugoso se apprezza la presenza di tanta
bella gioventù in mostra sulla spiaggia e mi risponde : «Nani Çë deti u bë kos
(yogurt), s’kam lugen» (ora che il mare è diventato yogurt non ho … il
cucchiaio).
In effetti la mia domanda era volutamente maliziosa.
Jannis è un giovane insegnante arvanita di Iliokastro che, d’estate,
arrotonda lo stipendio lavorando nell’albergo. Conoscendoci riscopre il suo
patrimonio culturale, quasi acquistasse una nuova dimensione.
E’ ansioso di imparare a scrivere in albanese e gli promettiamo di farlo
invitare al corso di lingua a Prishtina.
Ovviamente gli spieghiamo che Prishtina è la capitale del Kosovo, in
Jugoslavia, dove altri milioni di albanesi parlano e scrivono la nostra lingua.
Rimane frastornato. Per lui gli albanesi erano solo gli abitanti
dell’Albania e di “alcuni” paesi della Grecia. Forse non sa nemmeno che ce ne
sono milioni in Grecia e in Turchia e tanti in Siria dove si chiamano
«Arnauti», e poi in Egitto, nel Libano, in Bulgaria e perfino nell’Unione
Sovietica, concentrati in un paese della Bessarabia, Karakut, ed in tre
villaggi sul mar d’Azov (Gammovka, Georgievka, Devnenskoe).
Naturalmente gli parlo degli albanesi d’Italia e dei milioni di albanesi
che si trovano in America. Infine gli faccio rilevare che il suo cognome,
Drugas, deriva da «druga» (matterello).
E’ raggiante. Ci lasciamo nella certezza di rivederci a Prishtina.
Risaliamo l’Argolide attraversando una lunga teoria di paesi albanesi e
finalmente siamo a Prohimi.
Ci riveliamo subito per Arbërorë e la piazzetta del paese si riempie di
gente.
Mi chiedono come mi chiamo. Scandisco Scu-ra. Dozzine di mani mi afferrano
per abbracciarmi. Sono gli Skuras del paese. Man mano che l’entusiasmo cresce,
ne arrivano altri, chiamandomi «Kushëri», cioè cugino.
Nasce spontaneo un confronto linguistico. L’identità è quasi perfetta.
A fatica riusciamo a partire, vincendo l’insistenza di tutti quelli che ci
vogliono ospitare, non prima di aver promesso di ritornare.
Attraversiamo la Corinzia e la Beozia e le scene di entusiasmo si ripetono.
Arriviamo di domenica pomeriggio a Pili, un villaggio vicino a Tebe.
Dopo i primi convenevoli, davanti al bar si raccoglie una folla di vecchi e
di giovani. Le manifestazioni di affetto si intrecciamo alle bevute di birra e
si materializzano con vigorose strette di mano. I bambini ci guardano con occhi
smarriti quando gli chiediamo l’età o la classe che frequentano. Capiscono ma
non parlano la nostra lingua albanese.
I grandi ci spiegano che cosi vogliono i maestri, a scuola, agitando lo
spettro di gravi difficoltà nell’apprendimento della lingua greca.
L’albanese lo impareranno dopo … da grandi.
Spiego che io non ho avuto alcuna difficoltà ad imparare la lingua italiana
nella quale, anzi, mi distinguevo nei confronti dei mie coetanei italiani.
Segue un silenzio imbarazzante e finalmente un giovane, pur esprimendosi in
albanese, cerca di farmi capire che questa lingua non serve in quanto non è di
alcuna utilità nei rapporti con gli stranieri, quindi sarebbe meglio imparare
l’inglese ed il francese.
Incalzo dicendo che io parlo anche l’inglese, il francese ed il rumeno e
tuttavia non disdegno parlare albanese.
Mentre scuote la testa gli chiedo: «Ka të vdes kjo gjuhë?»(Deve morire
questa lingua?). La risposta è agghiacciante: «ka të vdes!» (deve morire).
Un mormorio di disapprovazione si leva da tutti gli astanti che si sentono
quasi in colpa per l’infelice sortita del giovane e, come per farsi perdonare,
aumentano la stretta della fratellanza proponendoci di andare a visitare, su
per i dirupi delle montagne, la cosa più sacra ai loro ricordi di arvaniti.
Montiamo sul cassone di un furgone che per un sentiero sconnesso e angusto,
sballottandoci, ci porta ad una chiesetta bizantina incastonata tra le rocce.
Tutt’intorno si notano i ruderi di qualcosa che doveva essere molto più grande.
Ci raccontano di un grande monastero con trecento monaci che furono tutti
torturati e massacrati dai turchi dopo aver distrutto la chiesa e il monastero.
La chiesetta fu ricostruita, in seguito, dagli stessi abitanti di Pili,
utilizzando in parte i materiali residuati.
Nel frattempo arrivano gli altri che erano presenti al bar e tutti fanno a
gara nel darci delucidazioni sui ruderi.
C’è anche il giovane che voleva la morte della nostra lingua.
«Këtu ish pusi» dice, «dreposht kallo; gjeret punojnë dherat», cioè : «qui
c’era il pozzo. Laggiù i monaci lavoravano i terreni».
Gli chiedo: «Është e bukur kjo gjuhë?» (= E’ bella questa lingua?).
Risponde senza incertezze: «Shumë e bukur!» (= molto bella!).
(da LIDHJA N°2-3/1981)
Note sull’autore
Ernesto Scura nato a Corigliano nel 1933 da genitori arbëreshe di
Vaccarizzo Albanese, scrive correntemente la lingua albanese avendo partecipato
ai Seminari Internazionali di Lingua e Cultura Albanese di Prishtine (Kosovo –
Jugoslavia). Pur essendo ingegnere Ernesto Scura è un cultore di albanesità,
proteso a scavare ed attingere dai suoi viaggi elementi universali unificatori
validi per l’ARBERIA, intesa come diaspora. Ha pubblicato in LIDHJA : “Viaggio
a ritroso in albania e in Grecia”, (n.2-3, 1981, pp. 10-11); “Albanesità:
indagini e deduzioni” (n.4, 1981, pp. 1-2); “Genesi di una diaspora”, (n.5,
1982, p.77).”Gli Illiri nell’Afghanistan” (N°8/1982).
Ho conosciuto l'ing.e sapevo e ammiravo la sua cultura e il suo amore disinteressato per il mondo arbresh.Con il cugino ing. e il suo inseparabile amico prof.Librandi ho seguito un corso di lingua in kossovo.Una delusione totale.E' servita solo come esperienza individuale e convincimento sostanziale che troppe notizie sono delle vere e proprie favole ad uso e consumo di esaltati.L'articolo di vita vissuta ribadisce,comunque,l'appartenenza più di qualsiasi altro studio antropologico o filologico di tanti circolanti pro domo propria.Grazie a Vincenzino che lo ha voluto rievocare.
RispondiEliminaEmozionante...vërteta
RispondiEliminaQuando ne parlermo insieme?
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