Di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro
Il
sistema feudale, alla fine del 700, oltre a trovarsi in difficoltà
per l’aumento delle spese e una sempre maggiore difficoltà nella riscossione
delle entrate, si trovò ad affrontare un nascente ceto, quello della piccola
nobiltà locale, con una forza economica non indifferente e quindi capace di tenere
testa al suo strapotere. Si trattava di un ceto le cui origini erano prettamente
rurali, ovvero costituito per la maggior parte da imprenditori agricoli, i
quali in qualche maniera, anche se succubi del potere baronale, riuscirono ad
emergere e a conseguire cospicui guadagni in forza del proprio lavoro.
Questi
imprenditori agricoli locali non erano altro che i “massari”, figure che,
erroneamente, oggi, secondo taluni poco accorti, rappresentavano il ceto inetto
o più povero nell’organigramma della società del Settecento.
In
verità, nel contesto della civiltà contadina calabrese del XVIII secolo, i
massari ricoprivano un ruolo di notevole importanza e, nella maggior parte dei
casi, costituivano una nuova classe imprenditoriale agricola.
Il
termine massaro trae origine da quello di masseria, che è il risultato della
colonizzazione feudale di vasti latifondi calabresi abbandonati e resi incolti
nel corso dei secoli XVI e XVII. Attorno a questo complesso organico, notevole
importanza ricopriva il massaro, il quale, oltre ad organizzare la vita
quotidiana, aveva il compito di gestirne la produzione agricola, sia egli fosse
affittuario, sia responsabile incontrastato su licenza del feudatario.
A
differenza dei semplici braccianti agricoli, non era raro che facessero uso di
moneta contante, considerati i loro rapporti economici con intermediari e
mercanti. Alcuni di essi, come Nicola Candreva di Cerzeto, raggiungevano
patrimoni che superavano le 400 once di imponibile e per tale motivo, molte
volte, si confondevano con il ceto civile, inseguendo l’ottenimento di forme di
riconoscimento nella società del tempo, avviando i propri figli alla carriera
ecclesiastica e alle professioni liberali; di esempio ci sono, attraverso i
relativi catasti onciari, le famiglie Rodotà di San Benedetto Ullano e quella
dei Camodeca di Castroregio, dove i figli dei massari divennero eminenti ecclesiastici
e distinti professionisti. Per le loro capacità economiche e quindi di fare uso
della moneta contante, in alcuni casi riuscivano ad acquistare vasti
possedimenti ad uso agricolo, appartenuti alla decadente e indebitata nobiltà
feudale.
“L’agricoltore possidente – scrive Vincenzo Padula – è presso noi chiamato massaro. E’ massaro chi possiede una masseria, e dicesi masseria un campo seminato. Il campo è suo, sue le capre o le pecore, che lo stabbiano, suoi i buoi che lo arano, suo l’asino che ne trasporta i prodotti; e nei tempi dei lavori campestri ha denaro che basta a pagare l’opera dei braccianti, che lo aiutano.” (1)
Dai documenti di archivio, in questo
caso dai Catasti Onciari, però, non tutti i figli dei massari venivano avviati
agli studi, molti di loro si adoperavano per la conduzione dell’azienda
familiare evitando, in tal modo, l’esborso di denari assumendo manodopera
estranea. Generalmente il nucleo familiare dei massari era costituito dalle
sette alle otto unità, dove, in alcuni casi, vi erano inseriti anche i garzoni
e i foresi. La loro attività non era caratterizzata dal medio o piccolo
possesso, ma dalla capacita di produzione che era diversificata; il massaro
oltre che agricoltore era soprattutto un allevatore. Tra le sue attività
spiccava quello della pastorizia, che pur se esercitata in maniera irrazionale,
costituiva una fonte di guadagno e di sopravvivenza necessaria, attraverso la
produzione del latte, dei formaggi, della carne e della lana. Nella sua azienda
il massaro allevava i buoi, che potevano essere utilizzati per il traino e la
trebbiatura del grano, lavorare i propri terreni ed anche quelli di terzi; la
presenza nelle loro proprietà dei querceti destinati alla produzione delle
ghiande, ci fanno desumere che fossero anche allevatori di suini.
Con la eversione della feudalità (1806), conseguentemente con l’abolizione degli usi civici, i beni e le terre tenute in piena proprietà dagli ecclesiastici divennero retaggio di pochi. Crebbero gli affitti delle terre e con esse l’erbaggio dei pascoli e i massari fallirono. A costoro non rimase altra alternativa che vendere tutti i loro averi, investendo i ricavati con l’avvio dei propri figli agli studi o ad altre arti produttive come quelle dei sartori o dei calzolai, attività queste che sostituirono la antica figura del massaro. (2)
Vincenzo Padula, Industria Terreni e stato delle persone in Calabria (dal Bruzio). Introduzione di Attilio Marinari. Carlo M. Padula Editore, Roma 1978.pag. 51
Estratto da : V. Vaccaro, Aspetti sociali e demografici nella Calabria citra durante il Regno di Carlo III di Borbone. Selfpubblishing Amazon 2021
Foto Francesco Lofrano ( Ngiku)
Sarebbe stato il caso di leggere G. Galasso più che citare il Padula.
RispondiElimina