Così G. Romeo Pavone, nel suo libro su Gioacchino Gaudio e su gli ultimi rivolgimenti in Calabria Citra, parla di Domenico Mauro: " Uomo di profondo ingegno e di ricchissima dottrina, apparteneva all'antica e nobile famiglia dei Mauro, che per valore e in armi e in lettere rifulse ed onorò la sua amate terra d'Arberia"e la lode non è affatto esagerata, perchè il Mauro, oltre che un buon letterato e, come disse il De Sanctis, il poeta  del suo tempo, " dalle più sincere impressioni e dalla più viva e calda immaginazione", fu veramente un grande amante della Patria e un gran galantuomo, e per quanto lo si lodi, non lo si loda mai abbastanza.
Nacque in San Demetrio Corone il 13 gennaio del 1812 da Angelo e Caterina Lopez; studiò, dopo le prime scuole nel Collegio Italo Albanese di S. Adriano dal 1823  al 1830, e, compiuti gli studi filosofici  e classici, si recò a Napoli per studiarvi legge. Nato, però, da un uomo che era l'anima dei Carbonari, che in San Demetrio si riunivano in casa di Giuseppe Barone, ed educato in un Collegio che era la fucina del liberalismo, egli si impose la nobile missione di destare e accendere a sensi di libertà i giovani di quella metropoli, e dopo i primi anni, aprì a tale scopo,  una scuola privata gratuita, a cui accorsero in molti. Ma la polizia, che ben presto prese a spiarlo, dopo poco tempo lo arrestò, e imprigionatolo per quattro mesi, con fiere minacce cercò di spegnere il suo ardore.
Egli, però proseguì la sua opera nei convegni privati, nei caffè, passeggiando, dovunque potesse, e arrestato nuovamente nel 1837,  pensò, da allora, di servirsi della stampa per i suoi fini e, nel 1840, pubblicò il libro " Allegorie e Bellezze della Divina Commedia". Nello stesso anno fondò a Napoli un giornale letterario " Il Viaggiatore", che dopo poco tempo fu soppresso per i suoi alti contenuti patriottici.
Proseguendo poi l'ideale della " Giovine italia", a cui, con Damis ed altri, si era ascritto, e, convintosi che sarebbe bastato dare il segnale della rivolta, per vedere insorgere, come un solo uomo i popoli del Regno di Napoli contro l'aborrita tirranide borbonica, egli decise di scendere in campo ed agire  direttamente, e spiegata la sua attività in speciale modo nei paesi albanofoni del cosentino, dove egli, albanese di nascita, era tenuto in grande considerazione,  aveva perfino  fissato il giorno in cui doveva scoppiare il primo moto liberale calabrese, ma la polizia borbonica lo arrestò in san Demetrio rinchiudendolo nelle carceri di Cosenza.  L'insurrezione fu però solo differita, non impedita, poichè anche dal carcere, Domenico Mauro trovò modo di comunicare con gli amici..il 15 marzo il moto cosentino scoppiò egualmente, e se fallì e costò la vita a parecchi giovani italo albanesi generosi, valse anche a richiamare di lì a poco in Calabria i Frateli Bandiera e i  loro compagni; iniziò così l'azione che sedici anni pù tardi, ci fece entrare in Napoli da trionfatori.
Domenico Mauro si salvò allora per miracolo, perchè chiuso in carcere, non si trovò a combattere con gli altri. Ma il Borbone sapeva, che tutto ciò che era avvenuto, era da ascrivere a lui,e, mancando le prove di complicità per condannarlo, lo tenne in prigione fino al gennaio del 1845, facendolo passre da Cosenza a Santa Maria Apparente in Napoli.  Appena rilasciato libero, il Nostro ricominciò la sua opera di propaganda con più ardore di prima...nuovamente fu arrestato.
Venuto però il'48, ed uscito di prigione con il fratello Vincenzo che, l'anno prima, dopo la repressione dei moti di Messina e di Reggio, aveva con altri Italo Albanesi ordito una congiura contro il Re, egli fu il principale promotore della dimostrazione del 27 gennaio che strappò al Borbone la Costituzione, e quando questa fu concessa, e nell'aprile si fecero le elezioni, gli elettori del suo collegio lo elessero con più do ottomila voti.
Avvenuti poi i luttuosi fatti di Napoli del 15 maggio, quando il Borbone  abolì la costituzione,  fu dei 64 che firmarono la protesta dettata da Pasquale Stanislao Mancini, e dopo aver strenuamente combattuto sulle barricate, corse con il Damis a sollevare le Calabrie. Raccolsero uomini, denari e armi; il Comitato di Cosenza presieduto da Giuseppe Ricciardi, nominò commissari con pieni poteri per il Distretto di  Castrovillari i deputati Domenico Mauro e Muzio Giuseppe , anch'egli Italo Albanese di Frascineto; e a Spezzano Albanese e a S. Elia, gli insorti respinsero valorosamente le  truppe regie. Ma poi l'incertezza che allora era in tutti, l'abbandono delle altre province del Regno e l'inesperienza dei capi puerilmente discordi, da una parte; e la sconfitta di monte S. Angelo, la perdita di Mormanno da cui venivano i viveri agli insorti accampati nella valle di San Martino, e il sospetto temporeggiare del generale Ribotty, daal'altra, produssero, il primo luglio, lo sbandamento delle truppe del  Mauro a Campotenese, e così le truppe regie del generale Lanza,scese in Calabria attraverso la Basilicata, poterono ricongiungersi con quelle del brigadiere Busacca, che si era rinchiuso in  Castrovillari. La rivoluzione fu così spenta da loro, così come, contemporaneamente, e per le stesse cause, fu spenta dai generali Nunziante e Nicoletti, nel distretto di Nicastro e di Reggio.
Costretto quindi a fugire, lasciando il fratello Vincenzo, che in una simulata fuga del Lanza, si era spinto fino a Rotonda, dove poco dopo fu preso e barbaramente ucciso con altri cinque, il Mauro si recò a Cosenza, passò con i membri del Comitato, i Siciliani e gi avanzi delle bande degli insorti calabresi a Tiriolo, poichè Cosenza non era atta a sostenere un assedio; e quando, saputo della capitolazione conclusa fra il Nunziante e Stocco, e riusciti vani tutti i tentativi fatti per ritentare la sorte delle armi, Ribotty e i Siciliani vollero tornarsene in patria, egli e parecchi altri, tra cui Nicotera, Miceli e Musolino, presero la via del mare e l'8 luglio si imbarcarono  Botricello Jonico per Corfù. Seguendo poi le esortazioni di un comitato romano, del quale facevano parte Giovanni Andrea omeo e suo figlio Pietro,  Domenico Mauro si reco da Corfù in Albania e raccoltavi con Francesco Sprovieri, una folta schiera di baldi giovani ,si tenne pronto per sbarcare in Calabria, per prendere in mezzo i borbonici con Garibaldi e Fanti, che dovevano entrare nel Regno delle Due Sicilie attraverso gli Abruzzi.
Ma,  per i tumulti di Genova e per altre ragioni,  non essendosi potuto effettuare quel disegno, corse a Roma con Nicotera, Sprovieri, Miceli e  De Riso a combattere per quella Repubblica, e caduta questa,  corse il pericolo di cadere nelle mani della famigerata polizia borbonica, poichè rifiutatosi di obbedire con gli altri ora nominati, di obbedire all'ordine del generale Oudinot di partire subito da Roma, fu con loro arrestato il 4 dicembre e condotto a Civitavecchia per essere consegnato al governo napoletano.
Ma munito, come gli altri, di passaporto inglese, potè anche lui imbarcarsi su una nave francese per Marsiglia, e sceso con un pretesto a Genova, riuscì a rifugiarsi a Torino, dove già si trovavano altri illustri dissidenti meridionali.
In Piemonte visse modestamente con i soli frutti del suo lavoro;  ed ecco come parlò  Francesco De Sanctis della vita che egli conduceva, nella commemorazione che fece di lui nella Cattedra dell'Università di Napoli: " Lo rividi a Torino, un caffè che tutt'ora esiste, il Caffè della Perla, era il convegno degli emigranti napoletani e siciliani.  Mancando la vita reale, si viveva in fantasia: gli uomini tanto più sono accesi nelle discussioni sull'avvenire, quanto più il presente è triste. E non potrò mai dimenticare - prosegue il De Sanctis -  quell'uomo che si infuocava nella disputa e, tenacemente convinto delle sue opinioni, credeva impossibile che la verità non fosse quella. I suoi occhi scintillavano, batteva il pugno sul tavolo, parea rivivesse in quelle dispute e scordasse la miseria:- perchè era il più povero degli emigrati meridionali, e tale era la sua dignità, che riusciva impossibile, anche ai più famigliari, fargli accettare qualche cosa co' mezzi più ingegnosi. Dopo egli sparve, erasi dato al lavoro, perchè fu di quegli uomini che, mentre la mediocrità mena rumore, non si fanno sentire e si trovano sempre innanzi nei momenti più decisivi". ( Francesco De Sanctis Napoli 24 gennaio 1873).
Nel soggiorno torinese, si convinse anche lui della necessità di raccogliersi sotto il vessillo di Casa Savoia per ottenere l'unificazione della patria, e nel '51 pubblicò il libro Vittorio Emanuele e Mazzini, in cui, modificando il suo programma repubblicano, indicò i mezzi per raggiungere il fine; e quando Luciano Murat cercò di raccogliere proseliti per occupare il trono di Napoli, egli  che pure era stato da poco condannato  due volte a morte dai magistrati borbonici, fece tacere ogni sentimeno di opportunismo,  e fu di quelli che firmarono una sdegnosa protesta, in cui era la minaccia che, se un Murat fosse salito al trono di Napoli, sarebbero corsi a difendere il Borbone, salvo a cospirare contro di lui a vittoria ottenuta. Ma la guerra di Crimea e l'eroica spedizione di Sapri, scongiurarono quel pericolo, e quando nel '60 Garibaldi si decise di accorrere in Sicilia,  con lui corsero anche gli altri Italo Albanesi: Francesco Crispi, Domenico Damis e suo fratello Raffaele  Mauro, che furono dei MILLE. Combattè a Calatafimi e a Milazzo, e mandato con Stocco e Bianchi  e Plutino in Calabria per preparare la strada al Dittatore, si trovò al fatto di Soveria, dove le truppe borboniche del generale Ghio, si arresero  al Damis e ai Carabinieri Genovesi. Seguì il Battaglione degli Albanesi da sempilce milite,  ed entrò con la Divisione Damis e con Garibaldi in Napoli da trionfatore.
Poi, mentre tutti chiedevano ricompense ed impieghi, egli non chiese nulla,  e pago solo del dovere compiuto, tornò ai suoi studi e alla sua solitudine. Ne uscì soltanto per rappresentare al Parlamento il collegio di Benevento, ed ebbe la soddisfazione di vedere realizzato, con Roma capitale,  anche il più ardito dei sogni vagheggiati da lui nel suo libro del 1851. Ma mentre, dopo ripubblicate le sue poesie e la sua opera su Dante, si accingeva a pubblicarne altre, per contribuire a fare gli italiani, dopo aver contribuito a fare l'Italia, colpito da un terribile male alla bocca, morì a Firenze il 19 gennaio del 1873, e con splendide esequie fu sepolto a San Miniato al Monte. Tesse l'elogio funebre, come prima accennato, Francesco De Sanctis.
Di lui, però, quasi nessuno ora legge gli scritti, lui, il padre del Romanticismo Calabrese, e pochi ne ricordano la vita intemerata; " ma quando l'Italia - come ben disse De Sanctis - avrà ricuperato il pieno possesso del suo senso morale, e si avvezzerà a guardare dietro lo scrittore uomo, a guardare gli uomini non da quello che scrivono ma da quello che fanno; allora, se vi sarà un libro d'oro dei grandi caratteri e dei grandi patrioti, non mancherà una pagina alle virtù di Domenico Mauro".

Le opere principali di Domenico Mauro

ALLEGORIE E BELLEZZE DELLA DIVINA COMMEDIA  ( Napoli 1840) opera ripubblicata e rifatta nel 1862 a Napoli Presso la Tip. degli Scienziati dei Letterati e degli Artisti;
ERRICO, Novella Calabrese ( Zurigo 1845);
VITTORIO EMANUELE E MAZZINI, Genova Tip. Pouthenier 1851;
Come giornalista, si occupò, nel Popolo d'Italia dal 1863  al 1865, di Dante, di Omero, di Shakespeare e di Aleardi.



Bibliografia essenziale: I Calabresi della Spedizione dei Mille, Pietro Camardella Acc. Cosentina 1910;
Raffaele De Cesare , Ricordi di due Rivoluzioni in Calabria, Roma, Foerzani 1898;
Francesco Crispi, i Mille ( da documenti dell'archivio Crispi), Milano fratelli Trevers 1911.