Matteo Mandalà, professore all'Università di Palermo
riporta un pò di verità sulla 'fantastica' storia degli arbreshe d'Italia. Chi
di noi non ha sentito dire che gli arbreshe erano militari al servizio degli
Aragonesi ? Chi di noi non ha sentito dire che i primi venuti in Sicilia erano
parenti, cugini, congiunti di Scanderbergh ? Col suo interessante libro Mandalà
ci fa sapere che il "mito" è opera di un lavoro a tavolini del
Settecento. Riportiano di seguito un breve stralcio delle 238 pagine del libro
che, comunque, dà l'idea di come gli arbreshe, gli intellettuali degli
arbreshe, nel '700 si sono costruita una identità 'credibile' che potesse
metterli al riparo dall'emarginazione sociale, economica, religiosa e culturale
in cui quei difficili tempi tendevano a spingerli.
Il testo: Matteo Mandalà
MUNDUS VULT DECIPI
I miti della storiografia arbereshe
Il Contessioto
Mundus arberiscus vult decipi
I miti della storiografia arbereshe
Il Contessioto
Mundus arberiscus vult decipi
2.6- Nel corso del primo quarto di secolo del
settecento le comunità albanesi in Italia non disponevano ancora di una loro
tradizione storiografica. La loro “memoria” e, con essa, la loro identità,
erano affidate alla trasmissione orale, ma non erano sostenute da fonti
storiche, avvolte com’erano da un impenetrabile silenzio. Le loro origini
etnico-culturali e, persino, linguistiche erano misconosciute; e la loro
professione religiosa sottoposta a continue censure e, a volte, a violente
azioni di repressione da parte delle autorità cattoliche. Sino all’approvazione
della Bolla “Etsi pastoralis” (1742), che nel bene e nel male segnò una svolta
nella storia culturale degli arbreshe, non esisteva una tradizione di studi che
potesse finalmente dimostrare sul piano della narrazione storiografica le
ragioni della loro presenza in Italia, delucidare la loro illustre genealogia
etnica, rivelare al mondo che non era affatto corretto l’appellativo col quale
si finiva per identificarli con i “greci”; che parlavano una lingua
antichissima da non confondersi col più prestigioso greco; che le loro
tradizioni antropologiche costituivano un patrimonio non meno prestigioso
perché ereditato dalle più remote popolazioni pregreche che abitarono i
Balcani; che il loro eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbergh era stato il
principale difensore del Cristianesimo durante le guerre turco-ottomane; che la
loro non era stata una semplice fuga dall’Albania sottomessa “ai cani Turchi”,
bensì l’espressione più profonda del loro attaccamento alla fede e alla
libertà; che la loro condizione rivestiva in quel frangente storico una
dimensione ecumenica perché mirava a ricondurre a Cristo le derelitte
popolazioni vessate dall’Isla. Si trattava di una complessa operazione di
ricostruzione storica che, pur stimolata da una questione religiosa (la difesa
del rito greco), finì col tempo con l’acquisire caratteri autenticamente laici
e a promuovere e sostenere il decisivo processo culturale di costruzione
dell’identità di cui ancora oggi sono portatrici le comunità albanesi d’Italia.
Tutto questo costituiva l’architettura del sistema
ideologico o, meglio, dell’ideologia albanista che alcuni intellettuali
arbereshe siciliani –tra i quali è d’obbligo menzionare padre Giorgio Guzzetta
(1682-1756) e il suo allievo prediletto Paolo Maria Parrino (1711-1765)-
tentarono di “codificare” scrivendo corpose opere storiche, sfortunatamente
rimaste inedite, sulla base di una documentazione che iniziarono a raccogliere
in vari fondi archivistici siciliani, aiutati dai tanti “papades” che vivevano
nelle diverse diocesi dell’Isola e nelle comunità albanesi.
Il fatto di ritrovare –tra i tanti diversi documenti
che riuscirono a raccogliere- cedole e diplomi regi, lettere patenti e altro
materiale di così alta e rinomata provenienza, non solo poterono soddisfare il
loro profondo desiderio di nobilitare le origini delle loro comunità, ma
poterono coronare di successo la realizzazione di un disegno intellettuale
tanto ambizioso quanto complesso: avviare un processo di costruzione
dell’identità culturale delle comunità albanesi avvalendosi dei procedimenti in
auge nell’Europa settecentesca, allora pervasa da una profonda crisi d’identità
–procedimenti che Eric J. Hobsbawn ha magistralmente descritto nella sua
introduzione al libro significativamente intitolato “l’invenzione della
tradizione”.
2.7 Più che una “riforma”, come quella che nello
stesso periodo fu avviata da Muratori, l’iniziativa promossa da Guzzetta e da
Parrino mirava alla vera e propria fondazione ex-novo di una tradizione
storiografica dotata di fisionomie, di metodi e di finalità propri, di forme e
di contenuti originali, di una stabilità ideologica tanto inalterabile e
longeva quanto convincente e documentata. Ne conseguì una sistematica indagine
che esplorò, oltre agli archivi, le fonti narrative storiografiche classiche,
medievali e moderne, preparò la stesura di brevi monografie sulle singole
comunità albanesi, avviò l’elaborazione di un discorso storiografico inedito,
seguendo modalità che gli avrebbero consentito di strutturarsi secondo regole
formali inconfondibili e di avvalersi di uno schema logico-semantico assai
semplice ma, nel contempo, funzionale alla realizzazione del disegno ideologico
che aprioristicamente lo precedeva e che, altrettanto aprioristicamente, lo
orientava.
2.8 L’idea di fondo risiedeva nel tentativo di fornire
un’interpretazione storica della “diaspora” che la mettesse al riparo da ogni
contestazione preconcetta, salvaguardando i protagonisti dall’accusa –infamante
e gravissima per quei tempi- di appartenere alla cultura religiosa scismatica
dei “greci” e dimostrando, al contrario, che essi appartenevano alle più
rinomate classi sociali albanesi, tutte rigorosamente fedeli alla ortodossia
cattolica: capi militari di indiscusso valore, sacerdoti cattolici anche se di
rito orientale, nobili e aristocratici, quasi tutti “geneticamente”
consanguinei del loro eroe nazionale, di quel Giorgio Castriota Scanderbergh
che li aveva guidati nell’epica lotta contro gli infedeli ottomani. Anzi,
proprio la figura del condottiero albanese, passato alla Storia d’Europa come
“defensor fidei” e “atleta Christi”, colui il quale, bloccando per cinque
lustri l’avanzata militare musulmana, consentì al Vecchio Continente di
allontanare lo spettro del terrore, di acquisire rinnovata fiducia sulle sue
forze e di sperare in un destino diverso da quello funesto che spazzò via la
capitale della cristianità orientale (Bisanzio), godeva di una così alta
considerazione che la sola evocazione delle sue imprese rendeva ulteriormente
più realistiche e, quindi, più credibili le narrazioni storiografiche che
tentavano di riempire il fragoroso silenzio storico che, ancora agli albori del
Settecento, circondava la storia dell’emigrazione a cui diedero vita gli
albanesi nel medioevo e, conseguentemente, le origini delle numerose comunità
sorte nel Mezzogiorno italiano.
2.9 – La funzione ‘mitopoetica’ assegnata dalla
nascente storiografia arbereshe alla figura di Castriota, oltre che consentirle
di lanciare lo sguardo nel più remoto passato della storia degli albanesi – le
cui origini etnico-linguistiche venivano connesse direttamente agli antichi
popoli balcanici, tra i quali i pelasghi di Omero e i macedoni di Alessandro
Magno, e la cui fedeltà all’ortodossia cattolica veniva direttamente fatta
risalire all’apostolato di San Paolo- le permise di fissare la pietra di volta
all’edificio che avrebbe custodito, almeno sino alla prima metà del secolo
scorso, la “sacra verità” inventata dalla tradizione storiografica arbereshe
settecentesca. Si trattava di un edificio che si sorreggeva su tre pilastri
concettuali, i quali, a loro volta e fuor di metafora, formavano il seguente
sillogismo:
1) gli albanesi giunsero in Italia o quando
Scanderbergh era ancora in vita oppure immediatamente dopo la sua morte;
2) ad eccezione di questi ultimi, i primi erano
imparentati con il principe albanese e quindi appartenevano o alla casta
militare oppure a quella aristocratica e, pertanto,
3) godettero di speciali concessioni o di consistenti
privilegi, reali o ecclesiastici o baronali, nelle terre italiane in cui furono
accolti.
Lo schema logico entro cui veniva collocato il
discorso storiografico era, nella sua strutturazione formale, in tutto identico
a quello che imperava nelle opere settecentesche che miravano a ricostruire la
storia dei popoli europei, cioè attraverso un’accorta selezione delle fonti
storiche, un’abile utilizzazione delle sacre scritture, il più o meno esplicito
fine di mitizzare le origini e, da ultima ma non per ultima, la rivendicazione
di una presunta superiorità morale nei riguardi degli “altri”, meno fortunati,
che non partecipavano della medesima “storia”.
2.10- Nella sua semplicità ermeneutica e al di là
degli aspetti semantici che di volta in volta hanno concorso alle ricostruzioni
delle vicende locali, lo schema logico applicato dalla narrazione storiografica
arbereshe contribuì a inventare una “tradizione”, quella appunto storiografica,
nella quale non solo è facile scorgere una straordinaria e ininterrotta
continuità garantita dalla ripetuta, immodificata e, perciò, rituale esecuzione
del sillogismo suddetto, ma è altrettanto agevole rilevare persino, e
paradossalmente, gli elementi costitutivi di tutte e tre le classi di contenuto
e delle loro successioni che, secondo Roland Barthes, permettono
all’elaborazione dell’enunciato storico di trasferirsi su un piano narrativo
più prossimo ai generi letterari del romanzo storico, dell’epopea e del poema
epico.
E’ all’interno di questo quadro ideologico, in cui
predomina fortemente il “desiderio” della dimostrazione di un assioma assunto
aprioristicamente, che si insinuarono le falsificazioni, sia quelle che furono
artatamente compiute a ridosso della svolta culturale di cui si è detto, sia
quelle, certamente le più significative, che la precedettero. Scarsi o,
addirittura, nulli furono gli effetti delle cautele adoperate nei riguardi di
quei materiali di dubbia provenienza e di assai incerta autenticità: e si
trattò di cautele che, sebbene non consigliarono di espellere immediatamente
quei documenti dal ricco materiale così rapidamente accumulato, di certo
suggerirono di procedere con grande e misurata attenzione. Ma quando
l’interesse prevalse, anche la prudenza più accorta iniziò a vacillare e, come
sovente accade in questi casi, a un certo punto svanì del tutto. Sicchè, come
accadde a Muratori che si era affidato a Tafuri, tra i tanti informatori
arbereshe mobilitati ebbero il sopravvento coloro che –vuoi per eccessiva
ingenuità o per un malinteso senso dell’amor patrio- non solo diedero credito
ai documenti falsi e, in altri, ne “inventarono” di nuovi, ma agirono in modo
tale da legittimarli agli occhi dei tanti che attendevano ansiosamente di
conoscere la storia della loro comunità.
A parte i pochi storici che se ne sono occupati, non
senza gravi difficoltà e con clamorosi insuccessi, nessun altro si è mai posto
il problema di ricercare i documenti originali e di sottoporli alle necessarie
verifiche storico-filologiche e, quindi, di stabilire una volta per tutte la
loro autenticità. Forse non se ne sentiva la necessità oppure, come si è più propensi
a ritenere, intervenne la stessa ragione alla quale si appellò Konrad Kujau,
l’oscuro commerciante di anticaglie militari naziste di stoccarda che fabbricò
i diari di Adolf Hitler, quando gli fu prospettato di rifondere i nove milioni
di marchi versati dalla rivista di Amburgo che si aggiudicò l’esclusiva
dell’edizione dei falsi: Kujau non intendeva restituire un centesimo perché
“aveva fatto un buon lavoro” e perché, a suo avviso, un’eventuale
responsabilità era, semmai, da attribuirsi ai comportamenti dei truffati, che
avrebbero mostrato disponibilità addirittura istigatrice nel farsi ingannare.
Risulta chiaro che, al di là dell’aspetto anedottico e burlesco della vicenda
Kujau, esaminando il singolare rapporto tra truffatori e truffati emerge, direi
paradossalmente, che i secondi dal punto di vista pratico hanno le idee meno
chiare dei primi o, se consideriamo la questione da un’altra angolazione,
parrebbe effettivamente che aspettino che qualcuno li possa ingannare, per
potersi compiacere –finalmente- della soddisfazione di avere potuto esaudire un
loro desiderio. Da qui l’acuta riflessione di Horst Fuhrmann che ha costituito
il filo conduttore di questo libro:
“Evidentemente esiste a volte nei truffati una disponibilità, influenzata
dai propri desideri, a considerare autentiche le falsificazioni; alla volontà
del truffatore corrisponde la disponibilità del truffato e sulla bocca di un
Konrad Kujau non sarebbe poi così fuori luogo il detto proverbiale circolato a
partire al più tardi dal XVI secolo: “Mundus vult decipi, ergo decipiatur”.
2.11- Nei prossimi capitoli si avrà modo di constatare
quanto sia stata perniciosa nel passato la “sindrome di Kujau” per la salute
degli italo-albanesi, mentre per quanto riguarda la sua attualità è il caso di
riportare sotto forma anedottica un episodio illuminante e, nel suo genere,
gustoso. Tra le altre falsificazioni circolate nel corso dei secoli, ha goduto
di particolare fortuna la “memoria” attribuita ad Agostino Tocci. Pubblicato da
Girolamo De Rada a più riprese nella seconda metà del XIX secolo, quel
documento, scritto in un perfetto italiano ottocentesco, risalirebbe al 1650.
Vi si narra l’epopea di Giovanni Castriota e degli albanesi al suo seguito, i
quali dopo estenuanti peregrinazioni in Italia, si sarebbero insediati
definitivamente nelle regioni meridionali della Penisola, compresa la Sicilia,
fondando un imprecisato numero di colonie arbreshe. La palese falsificazione
(per quanto possa apparire, come ha sostenuto Paolo Petta, una vera e propria
“invenzione della tradizione”) ebbe notevole successo letterario nel corso del
secolo del romanticismo, tanto che alcuni scrittori arbreshe, tra i quali
Gabriele Dara junior e Giuseppe schirò, la citarono come autentica fonte
storica. Sull’inattendibilità della “memoria” oggi non vi sono dubbi: Paolo Petta
ne ha parlato in termini di “una ingenua Eneide italo-albanese, priva di
fondamento storica e zeppa, del resto, di incongruenze: ma che corrisponde
all’immagine di migrazione creata da una tradizione orale, che amava ricordarla
come un grande movimento del popolo albanese, organizzato sotto la guida dei
suoi capi naturali”. In tempi più vicini, la “memoria” di Tocci è stata
ripescata da Domenico Cassiano che in due distinti lavori storiografici le ha
affibbiato due giudizi diametralmente opposti: col primo, dopo una serie di
singolari arzigogola ture interpretative, le si negava “probante valore sotto
il profilo storico” e, anzi, si ribadiva che si tratterebbe della “narrazione
fantastico-epica della quarta (?) emigrazione”; col secondo, formulato di recente,
la si riconosceva, invece, come “documento storico di rilevante valore”, al
punto di considerarla “una silloge del ricordo popolare. Oralmente tramandato
di generazione in generazione” che obbligava a “rivedere il giudizio (…) sulla
storicità del documento dato altrove”. Un così incredibile e disinvolto
mutamento di opinione non poteva che essere spiegato prendendo in
considerazione la “sindrome di Kujau”. Incaricato dall’Amministrazione comunale
di Strigari, poteva Domenico Cassiano non affidarsi alla “memoria” di Agostino
Tocci, che a Strigari ebbe i natali ? Non era forse un preciso dovere dedicare
un capitolo del suo libro (“Le immigrazioni e la memoria di Agostino Tocci”) e
appagare così il duplice desiderio del committente di assistere alla celebrazione
di un intellettuale locale e di vedere riconosciute alla sua comunità siffatte
nobili e antiche discendenze storiche ? Quando ho chiesto a Cassiano una
spiegazione, la risposta del mio sornione interlocutore è stata esplicità, ma
non ha smentito, come pure mi auguravo, la mia previsione: “questo volevano che
io scrivessi !”. Insomma: Mundus vult decipi, ergo decipiatur.
Pubblicato da horaContessa
Entellina a 14:37
Etichette: CULTURA E SOCIETA',
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