Domenico Cassiano
Angelo Masci appartiene – per dirla col Croce – “a quella classe
intellettuale che rappresentava la nazione in formazione o in germe e
sol essa era veramente la nazione; a quella classe che validamente
concorse all’epoca rivoluzionario‐riformatrice dei re napoleonici, e che
si sentì anche in diritto di condannare all’abominio la memoria di un
Nelson, venuto a proteggere quanto tra noi era di vecchio e di
pessimo, e a soffocare nel sangue quanto vi era stato di nobile e di
generoso”.
Era nato a Santa Sofia d’Epiro il 7 dicembre 1758 da Noè e da Vittoria
Bugliari; probabilmente la famiglia era originaria di S. Giorgio
Albanese, ove esiste anche una località denominata “Colle Masci”. Il
suo primo precettore e maestro fu lo zio Pasquale Baffi (1749‐1799),
uno dei grandi intellettuali del Mezzogiorno nella seconda metà del
Settecento di fama europea, futuro ministro della Partenopea,
afforcato dalla restaurazione borbonica, che “non aveva altre lettere
che il sapere sottoscrivere una sentenza di morte”.
Perfezionò la sua preparazione nel Collegio italo‐greco albanese, alla cui
ammissione si accedeva solo se si era “in grammatica latina versati” e se
si sapeva “leggere il greco convenientemente”. Nell’Istituzione scolastica,
principalmente destinata all’educazione della gioventù italo‐albanese,
i giovani ricevevano una preparazione culturale qualitativamente elevata. Svrive il Cassiano: Angelo Masci fu versatile negli studi e soprattutto nelle materie umanistiche, oltre che filosofiche e
teologiche.
Terminati gli studi nel Collegio Italo Greco Albanese, si trasferì a Napoli per conseguire, in
quella Università, la laurea in giurisprudenza. Ivi fu ospitato dallo zio
materno, Don Giuseppe Bugliari, cappellano del Reggimento Real
Macedone, costituito in massima parte da soldati ed ufficiali di origine
albanese in omaggio e per i servizi, resi da Skanderbeg agli Aragonesi
nella guerra contro i baroni pugliesi ribelli. Don Giuseppe Bugliari era
anche un intellettuale conosciuto nell’ambiente dei letterati napoletani
come cultore della lingua greca in cui la sua bravura si evidenziava
per la composizione di poesie. Egli fu, infatti, autore di una poesia,
dedicata alla zarina Caterina II, sottoscritta col nome di Josif Bouliàrios.
Si deve, pertanto, ritenere che appartenesse a quel discreto gruppo di
intellettuali filo‐ellenici che speravano nella rinascita della Grecia e ne
vedevano uno strumento nella politica estera della zarina, ma che
contestualmente costituivano anche quella intellighenzia napoletana e
meridionale, attestata su posizioni progressiste, anticipatrici del
Risorgimento nazionale.
In Napoli, il Masci ritrovò anche Pasquale Baffi, suo primo maestro,
ormai assai conosciuto nei circoli intellettuali e progressisti per la
meritata fama – anche internazionale ‐ di studioso della letteratura
greca e di interprete dei papiri di Ercolano. Naturalmente l’assidua
frequenza con tali personalità ed il contatto con i circoli intellettuali
napoletani furono assai utili alla maturazione della sua personalità ed
Cassiano: Angelo Masci
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alla progressiva acquisizione di una cultura riformistica, liberale e
progressista.
Ancora giovane, si distinse ben presto nell’esercizio della professione
forense nelle aule austere di Castel Capuano. I curiali napoletani
costituivano – numerosi com’erano – una vera e propria classe che
incuteva rispetto e timore alla stessa Corte. Il loro potere derivava
dalla abilità e dalla sottigliezza dialettica con cui riuscivano a piegare
alle loro tesi le numerose ed ingarbugliate leggi del Regno,
diventando così i veri e propri arbitri della legislazione feudale.
Ogni processo doveva diventare una guerra interminabile di
disquisizioni taglienti e sottili. Dal complicato intrico, però, delle
dispute pro e contro il fondamento giuridico e logico dei “diritti”
feudali, prendeva piede, nel Mezzogiorno e, particolarmente, in
Napoli, e si sviluppava, nel secolo dei lumi e del movimento
riformatore, la progressiva consapevolezza della illogicità e della
sostanziale inconsistenza di quei “diritti” che, alla luce della
razionalità, non trovavano plausibile giustificazione. Sicchè
apparivano ed erano essenzialmente degli abusi. Da questa
consapevolezza sul piano filosofico‐giuridico, il Masci trae il
convincimento della necessità di una profonda e radicale riforma
agraria per vincere il sottosviluppo meridionale e suscitarne le forze
della rinascita.
II
La polemica antifeudale ha, nel Masci, uno dei più lucidi protagonisti.
Egli pubblica nel 1792, presso la Stamperia Simoniana di Napoli,
Cassiano: Angelo Masci " l’Esame politico‐legale de’ diritti e delle prerogative de’baroni nel Regno di
Napoli, “piccolo di mole ma denso di idee”, che è una acuta e serrata
requisitoria contro le pretese baronali e che precede cronologicamente
la Storia degli abusi feudali del Winspeare e, probabilmente, ne
costituisce l’antecedente storico se non proprio il modello. Esso consta
di un discorso preliminare, sei capitoli ed una conclusione.
Nel “libricciuolo” Angelo Masci manifesta subito il proposito di
parlare ardito e forte, “senza far pompa di belle parole”, sottoponendo
a dura e realistica critica l’assetto economico e sociale del Regno, ma
insistendo soprattutto nella ricerca e nella analisi delle ragioni
profonde del malessere.
“Le miserie sono certe – scrive il Masci – le cause s’ignorano.
Quantunque molto si sia scritto, e molto si sia detto intorno a questo
punto interessantissimo, tuttavia quando seriamente si voglia entrare
nell’esame, non altronde dovrassi, almeno per la massima parte,
ripeter l’origine de’ mali, che nella cattiva ripartizione de’ terreni. Se
questi son oggi tutti ridotti in potere delle mani morte, cioè de’ Baroni,
e delle Chiese, dov’è che il cittadino possa avere i fondi della sua
sufficienza? Dov’è che possa con affezione impiegare la sua industria?
Dov’è insomma che possa godere pacificamente e con diletto de’ frutti
delle sue fatiche? Sono incredibili le vessazioni, gli spogli, le scorrerie,
le imposizioni che le nostre Provincie soffrivano nel IX e X secolo non
meno dall’Impero di Costantinopoli, che dai Barbari; eppure la
proprietà de’ terreni alleniva allora e compensava questi disagi”.
Cassiano: Angelo Masci
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Se una “legge agraria” per l’intero Regno, al momento, non sarà
ritenuta possibile e, comunque, una “siffatta operazione” ha bisogno
di tempi lunghi per dispiegare suoi vantaggi, è estremamente urgente
e necessario al presente “avere un pronto sollievo colla diminuzione
delle vaste tenute delle mani morte” e l’agricoltura dovrà riprendere
vigore “1) col togliere i tanti ostacoli che avviliscono il colono; 2) col
procurare le dovute sovvenzioni alle indigenze di lui”.
Tali “ostacoli” sono costituiti dai “diritti e prerogative baronali…che
nel mentre empiono il Barone di vane idee e d’insulsi pregiudizi, lo
rendono tiranno di sé stesso e tiranno de’ suoi concittadini; ed ecco
scissi perciò gl’interessi tra il proprietario, ed il coltivatore…si
abbandona di leggieri la campagna, quando si vide che l’uomo
dabbene…è più soggetto alle vessazioni provenienti da detti diritti e
prerogative…che abbattono il coraggio de’ coloni, spengono in essi
l’affezione al travaglio ed all’industria, ed ingoiano i miserabili
prodotti de’ loro sanguinosi sudori”.
Lo scopo dell’”operetta” è, pertanto, “di provare l’ingiustizia de’
pretesi diritti e prerogative baronali”. Si illude il Masci che, facendo
“toccare con mani” ai grandi baroni del Regno, l’origine
dell’ingiustizia, “spontaneamente” essi si asterranno dall’esigerli,
dall’intraprendere lunghe liti e dall’opprimere i contadini che ,
conseguentemente, si solleveranno dalla povertà e dalla depressione.
Ma, come si sa, le cose non ebbero l’evoluzione ottimisticamente
sperata dal Masci. I fedecommessi e la primogenitura saranno
abrogati, con la legge del 29 gennaio 1799, dal governo repubblicano
Cassiano: Angelo Masci
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napoletano. Con provvedimento del successivo 25 aprile saranno
abrogati “tutti i diritti di feudalità”, quelli “di servizio personale”;
sarà proclamata l’uguaglianza di tutti i cittadini. Ma queste leggi,
travolte dalla reazione sanfedista, non entreranno in vigore.
Il Masci contesta le tesi che i cosiddetti diritti feudali derivino dalla
conquista regia e che la plebe ed i vassalli traggano origine dalla
schiavitù. Si tratta di allegazioni della giurisprudenza forense, che è
un “ammasso di assurdità”. I terreni italiani, al tempo della
Repubblica e dell’Impero di Roma, “furono liberi, anzi goderono
dell’immunità”. I Greci non conobbero il feudalesimo “e perciò i
sudditi delle Provincie a loro soggette goderono e nei beni e nelle
persone quella libertà che conveniva sotto il governo di un Monarca;
anzi moltissime città di Calabria, egualmente che il litorale da Amalfi
a Gaeta ebbero negli ultimi tempi una piena libertà, ed appena un
apparente dominio vi esercitava l’Imperatore di Costantinopoli. I
barbari non occuparono che i terreni vacui; e questi stessi divisi fra
loro restarono liberi, non già vettigali allo Stato”.
Il normanno re Ruggiero, “con un formidabile editto”, dispose che
non fossero vessate né le persone, laiche e/o ecclesistiche, né i loro
beni. Anzi, “rimise nella pristina libertà” le usurpazioni e le
occupazioni, fatte prima a danno dei legittimi proprietari. Le parole
del summenzionato editto – continua il Masci – non contengono alcun
accenno ad una ipotetica “general servitù”: “ivi si distinguono le
persone ecclesiastiche, i lavoratori dei campi, i villani, ed il popolo,
intendendosi per quest’ultimo i Burgensi, o sia gentiluomini, ed i
Cassiano: Angelo Masci
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liberi possessori di terre, mentre appunto per denotarlo questo
possesso si aggiunge cum rebus eorum”. Il re Federico, “con generale ed
espressa sanzione”, dispose una severa punizione contro chiunque
avesse preteso di esercitare diritti senza la sua preventiva
autorizzazione o senza quella dei suoi predecessori.
Solo la concessione del Principe può essere causa e origine dei diritti
feudali; ove essa manchi, “qualunque jus che possa vantare il
feudatario, deve riputarsi usurpazione ed abuso”. Nello Stato, che
tutti gli individui concorrono a costituire per “il loro maggiore
comodo”, tutti hanno uguale diritto ad essere difesi e protetti nelle
persone e nei loro beni. Poiché, nella realtà è accaduto ed accade,
com’è di comune esperienza, che vi è disuguaglianza nel possesso dei
beni, ne consegue che questa si riflette nell’organizzazione delle
società civili, che “son sempre disuguali” e “così avviene che della
protezione medesima chi più chi meno partecipa”. In buona sostanza,
il Masci constata ed afferma che la disuguaglianza fra i cittadini
dipende direttamente dalla reale situazione del possesso di beni
materiali. Ovviamente tale dato di fatto di natura economica
inevitabilmente riverbera i suoi riflessi negativi anche nei rapporti fra
lo Stato e gli individui e, di conseguenza, i ricchi godono del
riconoscimento di tutti i diritti, di fatto negati alle classi povere ed
emarginate, in contrasto con quella giustizia distributiva “che è la
perfetta uguaglianza” e costituisce la “eterna durata” degli Stati. E,
“dunque, gravare più i poveri che i ricchi, i quali dallo Stato hanno
maggiore protezione è ingiustizia manifesta…La disuguaglianza che
Cassiano: Angelo Masci
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noi vediamo nei diversi luoghi di questo regno, altri de’ quali sono
più gravati, altri meno di dazi feudali, induce presunzione non già
della poca politica de’ Sovrani, ma dell’abuso e della violenza de’
Baroni”. Infatti, essendo il principe espressione e strumento dello
Stato, fondato sulla Giustizia, non può permettere la “differenza
improporzionata” fra i cittadini “tutti soci” dello Stato stesso con
uguali diritti.
I “grandi Baroni” che affliggevano il Mezzogiorno, essendo sprovvisti
della “speciale concessione” regia, non hanno titolo di richiedere ai
cittadini “proventi e diritti che vantano”, perché essi sono nient’altro
che “usurpazione e violenza”. A tale proposito, il Masci non manca di
sottolineare l’ignoranza o la malafede di certi magistrati che,
nonostante “una verità così lampante”, hanno dato retta alle “strane
pretensioni” baronali. “Eppure (ho vergogna di dirlo) – egli scrive – si
è veduto con orrore nel Foro codeste intraprese favorirsi. Ah! Che io
non avrei il coraggio di raccomandare la giustizia e la verità a siffatti
Tribunali, se i lumi sparsi del Secolo XVIII, la vigilanza dell’ottimo
Ferdinando IV, ed il zelo degli odierni ministri, non mi animassero.
Miei Concittadini…ricorrete con franchezza all’integrità dei nostri
Giudici, e siate sicuri, che sapendo esser loro dovere di custodire le
leggi…e far argine alle oppressioni, sapranno ancora con animo forte
levar via le prepotenze”.
III
Già il Genovesi aveva scritto parole di fuoco contro la nobiltà
parassitaria meridionale, mettendo giustamente in rilievo come “la
Cassiano: Angelo Masci
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grandezza dei Grandi è sostenuta e alimentata dall’Agricoltore, dal
Pastore, dal Filatore, dal Tessitore, dal Mercante, dall’Arti insomma
che mettono in valore la terra e il mare e i loro prodotti”.
Il Masci, attraverso uno studio analitico delle istituzioni feudali e delle
cosiddette prerogative baronali, perviene alla dimostrazione, su basi
storiche e giuridiche, che i pretesi diritti baronali si fondano solo ed
esclusivamente sulla ingiustizia, sui soprusi e sulla violenza. Essi non
trovano, infatti, giustificazione alcuna “né secondo i dettami della
politica, ma anche secondo la storia e la vera giurisprudenza”.
A questo punto, non è inopportuno evidenziare e sottolineare
l’influenza, esercitata sulla formazione giuridica e politica del giovane
Masci dallo zio Pasquale Baffi. Questi, pur non prendendo mai
“licenza dalle IX sorelle”, contestualmente esercitava la professione
forense ed aveva aperto il proprio studio, in Napoli, alla via S.
Sebastiano. Baffi, da rinomato filologo e provetto ed esperimentato
conoscitore dei codici medioevali, trattava delicate questioni proprio
relative ai rapporti tra la Corte e l’aristocrazia meridionale oppure tra
lo Stato e la Chiesa. In quest’opera di interpretazione di tutta una
aggrovigliata documentazione, dissepolta dagli archivi pubblici e/o
privati, più che da giurista, aveva buon gioco come filologo esperto e
navigato, capace di sciogliere – proprio attraverso la scienza filologica
– sottili questioni di diritto feudale, sulla base di documentazioni
giustificative delle pretese baronali od ecclesiastiche, che, alla
stringente ed oggettiva analisi del Baffi, si dimostravano del tutto false
ed inconferenti. Com’era avvenuto tra il 1783 ed il 1792, quando il
Cassiano: Angelo Masci
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Baffi, sostenne vittoriosamente le ragioni del governo napoletano in
delicati processi, insorti tra il Fisco e la Camera Apostolica.
Dopo il conseguimento della laurea in giurisprudenza, il Baffi associò
nello studio legale il nipote Angelo Masci, che, sotto la guida di tale
maestro, conseguì brillanti successi nell’esercizio della professione
forense.
Le minuziose e puntuali analisi sui diritti feudali e sulle pretese
baronali, contenute nell’Esame politico‐legale, il richiamo alle fonti, alla
letteratura ed alla giurisprudenza, lo studio della genesi di tali “diritti
feudali ingiusti”, la loro progressiva estensione ad opera di una
malaccorta giurisprudenza, che aveva fatto malgoverno della
interpretazione delle leggi in favore dei baroni, presumendo per
acquisiti titoli invero inesistenti, e – soprattutto – la scrupolosa
accuratezza nell’indagine critica e filologica, nel loro complesso,
evidenziano la bontà e la incisività della lezione del Baffi, fatta propria
dal discepolo.
L’opera del Masci non può considerarsi soltanto l’espressione o la
manifestazione della pura e semplice ideologia del dissenso o una
rassegna nuda e cruda degli abusi feudali. Essa ha come presupposto
della rivoluzionaria proposta della necessità e della urgenza di una
“legge agraria” e, cioè, di un nuovo assetto della proprietà fondiaria
nel Mezzogiorno, di cui il Masci si fa promotore, ‐ convinto che fino a
quando i terreni saranno monopolizzati dalle “mani morte” non vi
sarà progresso nell’agricoltura ed, in genere, nella società ‐ il
principio di uguaglianza fra cittadini dello stesso Stato.
Cassiano: Angelo Masci
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Questa “legge agraria” sarà emanata soltanto successivamente, al
tempo della Repubblica Partenopea, ma con quel colpevole ritardo,
rilevato dal Cuoco, che per “il timore di disgustare diecimila potenti”,
aveva fatto “perdere” alle Istituzioni repubblicane ed ai patrioti
“l’occasione di guadagnarsi gli animi di cinque milioni” di non
privilegiati.
L’opera del Baffi non è – come tante – una sorta di denunzia del
parassitismo nobiliare meridionale tardo‐feudale. Essa, invece, pur
partendo dal dato oggettivo della sussistenza di una situazione di
sostanziale ingiustizia in danno della maggioranza della popolazione,
propone, in alternativa, un programma concreto, sia pure graduale, di
riforme nel campo dell’agricoltura.
Assume l’esercizio dell’avvocatura come strumento per “esaminare la
verità e difendere la giustizia”e non come costruzione di sofismi e di
paralogismi finalizzati a garantire il potere baronale. Esplicita il Masci
il proprio distacco dai “Dottori” dell’epoca, sottolineandone il profilo
morale negativo, che aveva caratterizzato il loro esercizio della
professione forense. “Non è pensiero, né insegnamento il più strano, ‐
scrive – che non sia uscito dalla penna dei nostri Dottori, i quali pur di
favorire la causa ben poco han curato della verità e della giustizia. Più
di tutto si osserva ciò nella giurisprudenza toccante i Baroni, poiché
siccome questi han sempre avuto più comodo di arricchire i loro
Avvocati, così la dottrina forense composta non da altri che da
costoro, non mai si è posta nel giusto tuono di dire la verità”. Per tale
motivo – sottolinea il Masci ‐ sarà costretto, nell’Esame politico‐legale,
Cassiano: Angelo Masci
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dalla “necessità di confutare i nostri Dottori”, proprio per la ragione
che, il più delle volte, consapevolmente, “al falso, non mai al vero,
eccetto che per casualità, si sono appigliati”.
La forte e ardita denunzia della consapevole mistificazione forense in
favore della sopravvivenza dei baronali “diritti ingiusti” non altro
significa che il Masci si poneva in difesa di quei ceti produttivi,
rappresentati soprattutto dalla piccola e media e grande borghesia
rurale del Mezzogiorno, che pure c’erano e costituivano una
oggettiva potenzialità di progresso e di civile sviluppo, ma erano
impediti nella loro libera evoluzione dal vecchio establishment. Se ne
deve dedurre che Masci si pone in antitesi con i gruppi sociali
dominanti dell’epoca; si attesta sulle posizioni d’avanguardia
progressiste e riformatrici del tempo; non gli interessano l’astratta e
teorica uguaglianza od altre formule consimilari. Per lui – come, del
resto, per i filosofi riformatori napoletani da Filangieri a Mario Pagano
– il diritto deve avere una sua funzione pratica e strumentale a
garanzia del vero e del giusto.
Il carattere di novità dell’opera masciana consiste nell’assunzione di
un programma riformatore delle campagne, che riveste naturalmente
non solo una valenza economica di distribuzione della ricchezza, ma
anche sociale e politico in quanto presuppone una visione nuova del
rapporto tra politica e diritto.
La tesi in forza della quale “tutti gli individui che compongono lo
Stato hanno uguale diritto di essere difesi e protetti dallo Stato
medesimo”, non può non avere conseguenze dirompenti e
Cassiano: Angelo Masci
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rivoluzionarie in quanto affida al diritto, all’ordinamento ed, in ultima
analisi, alle leggi positive, la finalità di eliminare le discriminazioni fra
i cittadini e l’oppressione di una classe sulle altre; il che, peraltro, era
anche tema ricorrente fra i riformatori napoletani, per esempio, lo si
ritrova nei “saggi politici” di Mario Pagano, amico di Pasquale Baffi.
Il diritto – contrariamente a quanto riterranno i romantici – non nasce
per germinazione spontanea come espressione dello spirito di un
popolo. Esso origina, invece, e presuppone l’esistenza della società
civile con i suoi interessi, magari contrastanti. Ne segue che, prima del
diritto e della legge, vi è la politica; solo attraverso e per mezzo dello
scioglimento dei nodi politici, si perviene alla formazione della legge,
che regola le istituzioni pubbliche ed i rapporti tra queste ed i cittadini
nonché le relazioni intersoggettive. Ove mai si dovessero disgiungere
politica e diritto, non si vede con quale strumento e per quale via, se
non l’arbitrio, si potrebbe garantire quell’”uguale diritto” fra i
cittadini, che Masci assume ed ipotizza come compito fondamentale
dello Stato.
La dialettica, quindi, fra diritto e politica rende possibile la
realizzazione del principio di giustizia che – come assai noto – sta alla
base della moderna concezione dello Stato e che – come scrive il Masci
– garantisce “eterna durata” a quegli Stati “dove si osserva questa
proporzione, che è la perfetta uguaglianza richiesta dalla giustizia
distributiva”, della quale “ogni Sovrano è l’incorruttibile esecutore”.
L’opera del Masci ‐ che, all’apparenza, sembra un pamphlet di
polemica antifeudale – contiene una visione dialettica della società e
Cassiano: Angelo Masci
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dei gruppi sociali che vi interagiscono e che sono rappresentati dagli
ecclesiastici, dai lavoratori dei campi, dai villani, dai borghesi e dai
liberi possessori di terre, oltre ai nobili. E’ intuitivo che, per realizzare
la “giustizia distributiva” e, cioè, in definitiva, la distribuzione della
ricchezza, vanno eliminati, sul piano politico‐sociale, gli “ostacoli”
che, all’epoca, erano rappresentati dai privilegi e dagli abusi baronali,
ma, in prospettiva, saranno rappresentati da tutte le concentrazioni di
interessi, che dominano la politica e ne determinano le leggi, e che
storicamente sono destinate a mutare oggettivamente e
soggettivamente.
Masci supera, quindi, il confine dell’ormai antiquata diatriba tra
esperti nella scientia juris perché lega l’affermazione del principio
d’uguaglianza e del diritto alla reale prassi politica in una sorta di
dialettica tra diritto e politica, che – anche se ancora ruvida – è
destinata a fecondare il dibattito politico nel secolo successivo.
IV
Nel trambusto, seguito al crollo della Repubblica Partenopea, insieme
allo zio Pasquale Baffi – già membro dell’Assemblea Legislativa e
ministro della Educazione Pubblica – e a Domenico Bellusci (1774‐1833),
futuro vescovo‐presidente del Collegio di S. Adriano, cercò riparo
nella campana napoletana. I tre furono arrestati: il Baffi fu condannato
alla pena capitale, eseguita nel novembre del 1799; il Masci ed il
Bellusci scontarono diciassette mesi di carcere. Il Bellusci, che era stato
mandato a Napoli dal vescovo Francesco Bugliari per aggiornarsi
culturalmente nella “scienza dei Locke, dei Condillac e dei Genovesi”,
Cassiano: Angelo Masci
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ritornò all’insegnamento nel Collegio italo‐greco. Masci ritornò
all’esercizio dell’avvocatura per poi riemergere alla caduta dei
Borbone.
Nel Decennio, per la consolidata fama di giurisperito, di pubblicista e
di intellettuale impegnato sul fronte delle riforme
dell’Amministrazione Pubblica, ebbe a ricoprire, dapprima, la carica
di Consigliere dell’Intendenza di Napoli e, successivamente, nel 1809,
per decreto di Gioacchino Murat, fu nominato Procuratore Regio del
Tribunale di Appello delle Due Calabrie con sede a Catanzaro,
istituito nel gennaio dello stesso anno.
Un anno dopo, per la specifica competenza che aveva in materia
agraria, fu nominato Commissario Regio per la ripartizione dei
demani nella Calabria Ulteriore ed in Basilicata. In tale compito,
profuse tutto il suo impegno e la sua passione civile in favore della
popolazione contadina di quelle zone, superando oggettive difficoltà e
– non ultime – quelle frapposte dagli stessi “villani (che) si dimostrano
volgo istupidito dalla passata tirannia feudale e dalla mancanza di
qualsiasi buon istituto, non capace nemmeno della idea di bene
pubblico e dello spirito nazionale”.
Ad ogni modo, nonostante tutto, in una relazione al Ministro
dell’Interno, sottolineava come “finalmente queste infelici popolazioni
vanno ad escitarsi dal lungo letargo in cui sono giaciute. Appena
incominciate le operazioni della ripartizione, è incredibile
l’entusiasmo che anima tutti i villani a correre per profittare dei
Cassiano: Angelo Masci
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salutari effetti della legge e benedire il Sovrano che ha spezzato il
giogo della servitù”.
Tuttavia – contrariamente alle aspettative – i “villani” non
usufruirono realmente dei benefici effetti della legge eversiva della
feudalità. Le assegnazioni a contadini poveri e braccianti di quote di
terreni demaniali – da un minimo di quattro ad un massimo di trenta
tombolate – non furono sufficienti a determinare la costituzione di un
solido ceto medio contadino, fedele alle istituzioni.
Gli assegnatari, non assistiti economicamente almeno per avviare la
trasformazione dei fondi ricevuti e metterli in produzione,
nell’impossibilità di potervi provvedere con mezzi propri o per essersi
sproporzionatamente indebitati, trovarono più economico vendere le
rispettive quote. Queste furono, perlopiù, acquistate dalla borghesia
rurale di recente formazione, oggettivamente agevolata nel processo
di accumulazione delle ricchezze dalla contingenza politica.
La successiva soppressione degli ordini ecclesiastici – in Calabria,
secondo la stima del Caldora, ne furono ben 202 ‐ , l’incameramento e
la vendita all’asta del complessivo e consistente patrimonio
immobiliare erano destinati a ridisegnare il quadro sociale e politico a
tutto vantaggio degli homines novi della emergente borghesia rurale
che, in buona parte, furono gli acquirenti di quei beni, riuscendo, così,
a costituire solide e durature fortune economiche, diventando
protagonisti della vita sociale e politica.
Questa classe, con la sua ambivalenza – rivoluzionaria in politica, ma
conservatrice in economia, schierata in difesa del “sacro” principio di
Cassiano: Angelo Masci
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proprietà – caratterizzerà col suo protagonismo tutto il periodo
risorgimentale. La sua egemonia svuoterà di contenuto il principio di
uguaglianza; da qui, matureranno nuovi processi politici.
Nel 1807, il Masci dà alle stampe il Discorso sull’origine, i costumi e lo
stato attuale degli Albanesi nel Regno di Napoli per contestare alcune
affermazioni, contenute nel Rapporto di Francesco Lomonaco al cittadino
Carnot, a proposito degli Albanesi del Molise (Ururi, Portocannone,
Campomarino) che, nei fatti del 1799‐1800, si erano distinti
dedicandosi “all’assassinio e al contrabbando, per l’esca del bottino
formarono orde furiose, portando dappertutto l’infamia, la
desolazione e la morte”. Si dava ad intendere nella predetta relazione
la sussistenza di un dato razziale, tipica della popolazione albanese,
quasi che la ferinità dei costumi dipendesse da una caratteristica
etnica e non trovasse, invece, una più plausibile e storica spiegazione
nelle particolari condizioni di ignoranza, di miseria, di superstizione e
di oppressione in cui, per circa quattro secoli, quelle popolazioni
erano state costrette a vivere, alla pari, del resto, della popolazione
indigena del Mezzogiorno.
Il Masci, da buon conoscitore dei processi storici, individua
giustamente le “cause del picciolo progresso” degli albanesi, non in
astratte ed infondate ragioni di razza, ma nell’emarginazione e nello
sfruttamento in cui erano state costrette a vivere per secoli dal loro
insediamento nel regno; nella “falsa politica dei vicerè”, che avevano
disperso gli albanesi in ghetti, in piccoli e sperduti villaggi per meglio
servirsene come manodopera agricola, poco o nient’affatto retribuita,
Cassiano: Angelo Masci
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con estremo vantaggio dei feudatari, grandi proprietari parassitari in
difficoltà per la carenza di manodopera; nella “privazione di ogni
commercio”; nel precario possesso di terreni “sterili” ed
“insignificanti”; nell’assoggettamento, nonostante la loro povertà, al
pagamento di balzelli ingiusti; nella “mancanza di Collegi e
d’istruzione (che) li fecero giacere nell’ignoranza per più di duecento
anni”.
Altra non meno rilevante causa, che ostacolò il progresso, fu, secondo
il Masci, l’ostilità costante ed ostinata dei Vescovi di rito latino, i quali,
“invece di promuovere… gli studi, far crescere i lumi, proteggere le
scienze e le arti, per una malintesa religione non hanno avuta altra
cura che di abbattere il rito greco…da ciò sono avvenuti eterni litigi e
reciproche ostilità, che tendendo sempre alla depressione degli
Albanesi, aumentavano in loro l’aborrimento della vita civile, delle
scienze e delle arti”. Basterebbe eliminare tali ostacoli “per veder
fiorire una Nazione…e aumentare nel Regno la popolazione di gente
brava e fedele”. Ed, a tale proposto, non tralascia dal sottolineare la
recente istituzione del Collegio italo‐greco, dopo la cui erezione,
immediatamente “s’incominciò a vedere qualche lume”. Non appena
quella popolazione fu posta in grado di potere profittare della cultura,
si constatò infatti, un rapido e generale miglioramento delle
condizioni civili ed economiche ed un’appropriazione, costante e
progressiva, degli strumenti culturali. Del resto, Baffi, Bugliari,
Bellusci e lo stesso Masci non erano che figli di quel “lume”, acceso
dal Collegio.
Cassiano: Angelo Masci
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Nel periodo della Restaurazione, la monarchia borbonica con
avveduta politica mantenne l’ordinamento del Decennio; col trattato
di Casalanza, re Ferdinando si era impegnato per una generale
amnistia e per il mantenimento negli uffici e nei gradi dei funzionari
del passato regime.
Il Masci conservò la sua carica di magistrato, ma da Catanzaro fu
trasferito alla Corte d’Appello di Napoli. Nel 1820, fu nominato
Consigliere di Stato, ma il 10 luglio dell’anno seguente, cessò di
vivere, stroncato da un ictus.
Angelo Masci va collocato, dunque, a buon diritto tra quegli
intellettuali meridionali ed, in particolare, tra quelli calabro‐arberischi,
importanti e di ragguardevole numero, che al declinare del secolo
XVIII ed agli inizi del secolo seguente, furono protagonisti delle
grandi battaglie ideali per il rinnovamento della cultura, della società
e delle istituzioni politiche nel nostro Mezzogiorno, con sacrificio del
personale interesse, sopportando, a volte, persecuzioni, carcere ed
esilio, malcompresi o non compresi affatto da una massa ignorante,
servile e superstiziosa. “Ragione in più – per concludere col Croce –
per amarli e venerarli e per non troppo vituperare la terra che essi
ebbero cara e per la quale stimarono che mettesse conto di sostenere
quelle prove”.
Domenico Cassiano
Nota bibliografica
Angelo Masci, Discorso sull’origine, i costumi e lo stato attuale degli Albanesi del Regno
di Napoli, Napoli, 1807;
Cassiano: Angelo Masci
20
Id., Esame politico‐legale de’ diritti e delle prerogative de’ Baroni del Regno di Napoli,
Napoli MDCCXCII, nella Stamperia Simoniaca;
Raffaele Ajello, Arcana Juris Diritto e politica nel Settecento Italiano, Napoli, 1976;
Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, 1958;
Id., La rivoluzione napoletana del 1799, Napoli, 1998;
Antonino Catalano, Angelo Masci: la sua opera e i suoi tempi, in Risveglio‐Zgjimi, VI, n.
2, 1968, pp. 17‐29;
Domenico A. Cassiano, Angelo Masci tra borghesi e contadini al tramonto del feudalesimo
napoletano, in Il Serratore, Corigliano Calabro, 1988, a. I, n. 3. pp. 43‐44;
Gaetano Cingari, Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799, Messina, 1957;
U. Caldora, Calabria napoleonica, Napoli, 1960.
L. Villari, Bella e perduta L’Italia del Risorgimento, Bari, 2009
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