domenica 24 gennaio 2016

Angelo Masci ed il principio di eguaglianza al tramonto del feudalesimo

Domenico Cassiano


Angelo Masci appartiene – per dirla col Croce – “a quella classe intellettuale che rappresentava la nazione in formazione o in germe e sol essa era veramente la nazione; a quella classe che validamente concorse all’epoca rivoluzionario‐riformatrice dei re napoleonici, e che si sentì anche in diritto di condannare all’abominio la memoria di un Nelson, venuto a proteggere quanto tra noi era di vecchio e di pessimo, e a soffocare nel sangue quanto vi era stato di nobile e di generoso”. Era nato a Santa Sofia d’Epiro il 7 dicembre 1758 da Noè e da Vittoria Bugliari; probabilmente la famiglia era originaria di S. Giorgio Albanese, ove esiste anche una località denominata “Colle Masci”. Il suo primo precettore e maestro fu lo zio Pasquale Baffi (1749‐1799), uno dei grandi intellettuali del Mezzogiorno nella seconda metà del Settecento di fama europea, futuro ministro della Partenopea, afforcato dalla restaurazione borbonica, che “non aveva altre lettere che il sapere sottoscrivere una sentenza di morte”. Perfezionò la sua preparazione nel Collegio italo‐greco albanese, alla cui ammissione si accedeva solo se si era “in grammatica latina versati” e se si sapeva “leggere il greco convenientemente”. Nell’Istituzione scolastica, principalmente destinata all’educazione della gioventù italo‐albanese, i giovani ricevevano una preparazione culturale qualitativamente elevata. Svrive il Cassiano: Angelo Masci  fu versatile negli studi e soprattutto nelle materie umanistiche, oltre che filosofiche e teologiche.   Terminati gli studi nel Collegio Italo Greco Albanese, si trasferì a Napoli per conseguire, in quella Università, la laurea in giurisprudenza. Ivi fu ospitato dallo zio materno, Don Giuseppe Bugliari, cappellano del Reggimento Real Macedone, costituito in massima parte da soldati ed ufficiali di origine albanese in omaggio e per i servizi, resi da Skanderbeg agli Aragonesi nella guerra contro i baroni pugliesi ribelli. Don Giuseppe Bugliari era anche un intellettuale conosciuto nell’ambiente dei letterati napoletani come cultore della lingua greca in cui la sua bravura si evidenziava per la composizione di poesie. Egli fu, infatti, autore di una poesia, dedicata alla zarina Caterina II, sottoscritta col nome di Josif Bouliàrios. Si deve, pertanto, ritenere che appartenesse a quel discreto gruppo di intellettuali filo‐ellenici che speravano nella rinascita della Grecia e ne vedevano uno strumento nella politica estera della zarina, ma che contestualmente costituivano anche quella intellighenzia napoletana e meridionale, attestata su posizioni progressiste, anticipatrici del Risorgimento nazionale. In Napoli, il Masci ritrovò anche Pasquale Baffi, suo primo maestro, ormai assai conosciuto nei circoli intellettuali e progressisti    per la meritata fama – anche internazionale  ‐  di studioso della letteratura greca e di interprete dei papiri di Ercolano. Naturalmente l’assidua frequenza con tali personalità ed il contatto con i circoli intellettuali napoletani furono assai utili alla maturazione della sua personalità ed Cassiano: Angelo Masci 3 alla progressiva acquisizione di una cultura riformistica, liberale e progressista. Ancora giovane, si distinse ben presto nell’esercizio della professione forense nelle aule austere di Castel Capuano. I curiali napoletani costituivano – numerosi com’erano – una vera e propria classe che incuteva rispetto e timore alla stessa Corte. Il loro potere derivava dalla abilità e dalla sottigliezza dialettica con cui riuscivano a piegare alle loro tesi le numerose ed ingarbugliate leggi del Regno, diventando così  i veri e propri arbitri della legislazione feudale.   Ogni processo doveva diventare una guerra interminabile di disquisizioni taglienti e sottili. Dal complicato intrico, però, delle dispute pro e contro il fondamento giuridico e logico dei “diritti” feudali, prendeva piede, nel Mezzogiorno e, particolarmente, in Napoli, e si sviluppava, nel secolo dei lumi e del movimento riformatore, la progressiva consapevolezza della illogicità e della sostanziale inconsistenza di quei “diritti” che, alla luce della razionalità, non trovavano plausibile giustificazione. Sicchè apparivano ed erano essenzialmente degli abusi. Da questa consapevolezza sul piano filosofico‐giuridico, il Masci trae il convincimento della necessità di una profonda e radicale riforma agraria per vincere il sottosviluppo meridionale e suscitarne le forze della rinascita. II La polemica antifeudale ha, nel Masci, uno dei più lucidi protagonisti. Egli pubblica nel 1792, presso la Stamperia Simoniana di Napoli, Cassiano: Angelo Masci " l’Esame politico‐legale de’ diritti e delle prerogative de’baroni nel Regno di Napoli, “piccolo di mole ma denso di idee”, che è una acuta e serrata requisitoria contro le pretese baronali e che precede cronologicamente la Storia degli abusi feudali del Winspeare e, probabilmente, ne costituisce l’antecedente storico se non proprio il modello. Esso consta di un discorso preliminare, sei capitoli ed una conclusione. Nel “libricciuolo” Angelo Masci manifesta subito il proposito di parlare ardito e forte, “senza far pompa di belle parole”, sottoponendo a dura e realistica critica l’assetto economico e sociale del Regno, ma insistendo soprattutto nella ricerca e nella analisi delle ragioni profonde del malessere.   “Le miserie sono certe – scrive il Masci – le cause s’ignorano. Quantunque molto si sia scritto, e molto si sia detto intorno a questo punto interessantissimo, tuttavia quando seriamente si voglia entrare nell’esame, non altronde dovrassi, almeno per la massima parte, ripeter l’origine de’ mali, che nella cattiva ripartizione de’ terreni. Se questi son oggi tutti ridotti in potere delle mani morte, cioè de’ Baroni, e delle Chiese, dov’è che il cittadino possa avere i fondi della sua sufficienza? Dov’è che possa con affezione impiegare la sua industria? Dov’è insomma che possa godere pacificamente e con diletto de’ frutti delle sue fatiche? Sono incredibili le vessazioni, gli spogli, le scorrerie, le imposizioni che le nostre Provincie soffrivano nel IX e X secolo non meno dall’Impero di Costantinopoli, che dai Barbari; eppure la proprietà de’ terreni alleniva allora e compensava questi disagi”. Cassiano: Angelo Masci 5 Se una “legge agraria” per l’intero Regno, al momento, non sarà ritenuta possibile e, comunque, una “siffatta operazione” ha bisogno di tempi lunghi per dispiegare  suoi vantaggi, è estremamente urgente e necessario al presente “avere un pronto sollievo colla diminuzione delle vaste tenute delle mani morte” e l’agricoltura dovrà riprendere vigore “1) col togliere i tanti ostacoli che avviliscono il colono; 2) col procurare le dovute sovvenzioni alle indigenze di lui”.   Tali “ostacoli” sono costituiti dai “diritti e prerogative baronali…che nel mentre empiono il Barone di vane idee e d’insulsi pregiudizi, lo rendono tiranno di sé stesso e tiranno de’ suoi concittadini; ed ecco scissi perciò gl’interessi tra il proprietario, ed il coltivatore…si abbandona di leggieri la campagna, quando si vide che l’uomo dabbene…è più soggetto alle vessazioni provenienti da detti diritti e prerogative…che abbattono il coraggio de’ coloni, spengono in essi l’affezione al travaglio ed all’industria, ed ingoiano i miserabili prodotti de’ loro sanguinosi sudori”. Lo scopo dell’”operetta” è, pertanto, “di provare l’ingiustizia de’ pretesi diritti e prerogative baronali”. Si illude il Masci che, facendo “toccare con mani” ai grandi baroni del Regno, l’origine dell’ingiustizia, “spontaneamente” essi si asterranno dall’esigerli, dall’intraprendere lunghe liti e dall’opprimere i contadini che , conseguentemente, si solleveranno dalla povertà e dalla depressione. Ma, come si sa, le cose non ebbero l’evoluzione ottimisticamente sperata dal Masci. I fedecommessi e la primogenitura saranno abrogati, con la legge del 29 gennaio 1799, dal governo repubblicano Cassiano: Angelo Masci 6 napoletano.    Con provvedimento del successivo 25 aprile saranno abrogati “tutti i diritti di feudalità”, quelli “di servizio personale”; sarà proclamata l’uguaglianza di tutti i cittadini. Ma queste leggi,   travolte dalla reazione sanfedista, non entreranno in vigore. Il Masci contesta le tesi che i cosiddetti diritti feudali derivino dalla conquista regia e che la plebe ed i vassalli traggano origine dalla schiavitù. Si tratta di allegazioni della giurisprudenza forense, che è un “ammasso di assurdità”. I terreni italiani, al tempo della Repubblica e dell’Impero di Roma, “furono liberi, anzi goderono dell’immunità”. I Greci non conobbero il feudalesimo “e perciò i sudditi delle Provincie a loro soggette goderono e nei beni e nelle persone quella libertà che conveniva sotto il governo di un Monarca; anzi moltissime città di Calabria, egualmente che il litorale da Amalfi a Gaeta ebbero negli ultimi tempi una piena libertà, ed appena un apparente dominio vi esercitava l’Imperatore di Costantinopoli. I barbari non occuparono che i terreni vacui; e questi stessi divisi fra loro restarono liberi, non già vettigali allo Stato”. Il normanno re Ruggiero, “con un formidabile editto”, dispose che non fossero vessate né le persone, laiche e/o ecclesistiche, né i loro beni. Anzi, “rimise nella pristina libertà” le usurpazioni e le occupazioni, fatte prima a danno dei legittimi proprietari. Le parole del summenzionato editto – continua il Masci – non contengono alcun accenno ad una ipotetica “general servitù”: “ivi si distinguono le persone ecclesiastiche, i lavoratori dei campi, i villani, ed il popolo, intendendosi per quest’ultimo i Burgensi, o sia gentiluomini, ed i Cassiano: Angelo Masci 7 liberi possessori di terre, mentre appunto per denotarlo questo possesso si aggiunge cum rebus eorum”. Il re Federico, “con generale ed espressa sanzione”,    dispose una severa punizione contro chiunque avesse preteso di esercitare diritti senza la sua preventiva autorizzazione o senza quella dei suoi predecessori. Solo la concessione del Principe può essere causa e origine dei diritti feudali; ove essa manchi, “qualunque jus che possa vantare il feudatario, deve riputarsi usurpazione ed abuso”. Nello Stato, che tutti gli individui concorrono a costituire per “il loro maggiore comodo”, tutti hanno uguale diritto ad essere difesi e protetti nelle persone e nei loro beni. Poiché, nella realtà è accaduto ed accade, com’è di comune esperienza, che vi è disuguaglianza nel possesso dei beni, ne consegue che questa si riflette nell’organizzazione delle società civili, che “son sempre disuguali” e “così avviene che della protezione medesima chi più chi meno partecipa”.  In buona sostanza, il Masci constata ed afferma che la disuguaglianza fra i cittadini dipende direttamente dalla reale situazione del possesso di beni materiali. Ovviamente tale dato di fatto di natura economica inevitabilmente riverbera i suoi riflessi negativi anche nei rapporti fra lo Stato e gli individui e, di conseguenza, i ricchi godono del riconoscimento di tutti i diritti, di fatto negati alle classi povere ed emarginate, in contrasto con quella giustizia distributiva “che è la perfetta uguaglianza” e costituisce la “eterna durata” degli Stati. E, “dunque, gravare più i poveri che i ricchi, i quali dallo Stato hanno maggiore protezione è ingiustizia manifesta…La disuguaglianza che Cassiano: Angelo Masci 8 noi vediamo nei diversi luoghi di questo regno, altri de’ quali sono più gravati, altri meno di dazi feudali, induce presunzione non già della poca politica de’ Sovrani, ma dell’abuso e della violenza de’ Baroni”. Infatti, essendo il principe espressione e strumento dello Stato, fondato sulla Giustizia, non può permettere la “differenza improporzionata” fra i cittadini “tutti soci” dello Stato stesso con uguali diritti. I “grandi Baroni” che affliggevano il Mezzogiorno, essendo sprovvisti della “speciale concessione” regia, non hanno titolo di richiedere ai cittadini “proventi e diritti che vantano”, perché essi sono nient’altro che “usurpazione e violenza”. A tale proposito, il Masci non manca di sottolineare l’ignoranza o la malafede di certi magistrati che, nonostante “una verità così lampante”, hanno dato retta alle “strane pretensioni” baronali.  “Eppure (ho vergogna di dirlo) – egli scrive – si è veduto con orrore nel Foro codeste intraprese favorirsi. Ah! Che io non avrei il coraggio di raccomandare la giustizia e la verità a siffatti Tribunali, se i lumi sparsi del Secolo XVIII, la vigilanza dell’ottimo Ferdinando IV, ed il zelo degli odierni ministri, non mi animassero. Miei Concittadini…ricorrete con franchezza all’integrità dei nostri Giudici, e siate sicuri, che sapendo esser loro dovere di custodire le leggi…e far argine alle oppressioni, sapranno ancora con animo forte levar via le prepotenze”. III Già il Genovesi aveva scritto parole di fuoco contro la nobiltà parassitaria meridionale, mettendo giustamente in rilievo come “la Cassiano: Angelo Masci 9 grandezza dei Grandi è sostenuta e alimentata dall’Agricoltore, dal Pastore, dal Filatore, dal Tessitore, dal Mercante, dall’Arti insomma che mettono in  valore la terra e il mare e i loro prodotti”. Il Masci, attraverso uno studio analitico delle istituzioni feudali e delle cosiddette prerogative baronali, perviene alla dimostrazione, su basi storiche e giuridiche, che i pretesi diritti baronali si fondano solo ed esclusivamente sulla ingiustizia, sui soprusi e sulla violenza. Essi non trovano, infatti, giustificazione alcuna “né secondo i dettami della politica, ma anche secondo la storia e la vera giurisprudenza”. A questo punto, non è inopportuno evidenziare e sottolineare l’influenza, esercitata sulla formazione giuridica e politica del giovane Masci dallo zio Pasquale Baffi. Questi, pur non prendendo mai “licenza dalle IX sorelle”, contestualmente esercitava la professione forense ed aveva aperto il proprio studio, in Napoli, alla via S. Sebastiano. Baffi, da rinomato filologo e provetto ed esperimentato conoscitore dei codici medioevali, trattava delicate questioni proprio relative ai rapporti tra la Corte e l’aristocrazia meridionale oppure tra lo Stato e la Chiesa. In quest’opera di interpretazione di tutta una aggrovigliata documentazione, dissepolta dagli archivi pubblici e/o privati, più che da giurista, aveva buon gioco come filologo esperto e navigato, capace di sciogliere – proprio attraverso la scienza filologica – sottili questioni di diritto feudale, sulla base di documentazioni giustificative delle pretese baronali od ecclesiastiche, che, alla stringente ed oggettiva analisi del Baffi, si dimostravano del tutto false ed inconferenti. Com’era avvenuto tra il 1783 ed il 1792, quando il Cassiano: Angelo Masci 10 Baffi, sostenne vittoriosamente le ragioni del governo napoletano in delicati processi, insorti tra il Fisco e la Camera Apostolica.   Dopo il conseguimento della laurea in giurisprudenza, il Baffi associò nello studio legale il nipote Angelo Masci, che, sotto la guida di tale maestro, conseguì brillanti successi nell’esercizio della professione forense.   Le minuziose e puntuali analisi sui diritti feudali e sulle pretese baronali, contenute nell’Esame politico‐legale, il richiamo alle fonti, alla letteratura ed alla giurisprudenza, lo studio della genesi di tali “diritti feudali ingiusti”, la loro progressiva estensione    ad opera di una malaccorta giurisprudenza, che aveva fatto malgoverno della interpretazione delle leggi in favore dei baroni, presumendo per acquisiti titoli invero inesistenti, e – soprattutto – la scrupolosa accuratezza nell’indagine critica e filologica,    nel loro complesso, evidenziano la bontà e la incisività della lezione del Baffi, fatta propria dal discepolo. L’opera del Masci non può considerarsi soltanto l’espressione o la manifestazione della pura e semplice ideologia del dissenso o una rassegna nuda e cruda degli abusi feudali. Essa ha come presupposto   della rivoluzionaria proposta della necessità e della urgenza di una “legge agraria” e, cioè, di un nuovo assetto della proprietà fondiaria nel Mezzogiorno, di cui il Masci si fa promotore, ‐  convinto che fino a quando i terreni saranno monopolizzati dalle “mani morte” non vi sarà progresso nell’agricoltura ed, in genere, nella società  ‐    il principio di uguaglianza fra cittadini dello stesso Stato. Cassiano: Angelo Masci 11 Questa “legge agraria” sarà emanata soltanto successivamente, al tempo della Repubblica Partenopea, ma con quel colpevole ritardo, rilevato dal Cuoco, che per “il timore di disgustare diecimila potenti”, aveva fatto “perdere” alle Istituzioni repubblicane ed ai patrioti “l’occasione di guadagnarsi gli animi di cinque milioni” di non privilegiati.     L’opera del Baffi non è – come tante – una sorta di denunzia del parassitismo nobiliare meridionale tardo‐feudale. Essa, invece, pur partendo dal dato oggettivo della sussistenza di una situazione di sostanziale ingiustizia in danno della maggioranza della popolazione, propone, in alternativa, un programma concreto, sia pure graduale, di riforme nel campo dell’agricoltura. Assume l’esercizio dell’avvocatura come strumento per “esaminare la verità e difendere la giustizia”e non come costruzione di sofismi e di paralogismi finalizzati a garantire il potere baronale. Esplicita il Masci il proprio distacco dai “Dottori” dell’epoca, sottolineandone il profilo morale negativo, che aveva caratterizzato il loro esercizio della professione forense. “Non è pensiero, né insegnamento il più strano, ‐  scrive – che non sia uscito dalla penna dei nostri Dottori, i quali pur di favorire la causa ben poco han curato della verità e della giustizia. Più di tutto si osserva ciò nella giurisprudenza toccante i Baroni, poiché siccome questi han sempre avuto più comodo di arricchire i loro Avvocati, così la dottrina forense composta non da altri che da costoro, non mai si è posta nel giusto tuono di dire la verità”. Per tale motivo – sottolinea il Masci  ‐  sarà costretto, nell’Esame politico‐legale, Cassiano: Angelo Masci 12 dalla “necessità di confutare i nostri Dottori”, proprio per la ragione che, il più delle volte, consapevolmente, “al falso, non mai al vero, eccetto che per casualità, si sono appigliati”.   La forte e ardita denunzia della consapevole mistificazione forense in favore della sopravvivenza dei baronali “diritti ingiusti” non altro significa che il Masci si poneva in difesa di quei ceti produttivi, rappresentati soprattutto dalla piccola e media e grande borghesia rurale del Mezzogiorno,    che pure c’erano    e costituivano una oggettiva potenzialità di progresso e di civile sviluppo, ma erano impediti nella loro libera evoluzione dal vecchio establishment. Se ne deve dedurre che Masci si pone in antitesi con i gruppi sociali dominanti dell’epoca; si attesta sulle posizioni d’avanguardia progressiste e riformatrici del tempo; non gli interessano  l’astratta e teorica uguaglianza od altre formule consimilari. Per lui – come, del resto, per i filosofi riformatori napoletani da Filangieri a Mario Pagano –    il diritto deve avere una sua funzione pratica e strumentale a garanzia del vero e del giusto.             Il carattere di novità dell’opera masciana consiste nell’assunzione di un programma riformatore delle campagne, che riveste naturalmente non solo una valenza economica di distribuzione della ricchezza, ma anche sociale e politico in quanto presuppone una visione nuova del rapporto tra politica e diritto. La tesi in forza della quale “tutti gli individui che compongono lo Stato hanno uguale diritto di essere difesi e protetti dallo Stato medesimo”, non può non avere conseguenze dirompenti e Cassiano: Angelo Masci 13 rivoluzionarie in quanto affida al diritto, all’ordinamento ed, in ultima analisi, alle leggi positive, la finalità di eliminare le discriminazioni fra i cittadini e l’oppressione di una classe sulle altre; il che, peraltro, era anche tema ricorrente fra i riformatori napoletani, per esempio, lo si ritrova nei “saggi politici” di Mario Pagano, amico di Pasquale Baffi. Il diritto – contrariamente a quanto riterranno i romantici – non nasce per germinazione spontanea come espressione dello spirito di un popolo. Esso origina, invece, e presuppone l’esistenza della società civile con i suoi interessi, magari contrastanti. Ne segue che, prima del diritto e della legge, vi è la politica; solo attraverso e per mezzo dello scioglimento dei nodi politici, si perviene alla formazione della legge, che regola le istituzioni pubbliche ed i rapporti tra queste ed i cittadini nonché le relazioni intersoggettive. Ove mai si dovessero disgiungere politica e diritto, non si vede con quale strumento e per quale via, se non l’arbitrio, si potrebbe garantire quell’”uguale diritto” fra i cittadini, che Masci assume ed ipotizza come compito fondamentale dello Stato. La dialettica, quindi, fra diritto e politica rende possibile la realizzazione del principio di giustizia che – come assai noto – sta alla base della moderna concezione dello Stato e che – come scrive il Masci – garantisce “eterna durata” a quegli Stati “dove si osserva questa proporzione, che è la perfetta uguaglianza richiesta dalla giustizia distributiva”, della quale “ogni Sovrano è l’incorruttibile esecutore”. L’opera del Masci    ‐  che, all’apparenza, sembra un pamphlet di polemica antifeudale – contiene una visione dialettica della società e Cassiano: Angelo Masci 14 dei gruppi sociali che vi interagiscono e che sono rappresentati dagli ecclesiastici, dai lavoratori dei campi, dai villani, dai borghesi e dai liberi possessori di terre, oltre ai nobili. E’ intuitivo che, per realizzare la “giustizia distributiva” e, cioè, in definitiva, la distribuzione della ricchezza, vanno eliminati, sul piano politico‐sociale, gli “ostacoli” che, all’epoca, erano rappresentati dai privilegi e dagli abusi baronali, ma, in prospettiva, saranno rappresentati da tutte le concentrazioni di interessi, che dominano la politica e ne determinano le leggi, e che storicamente sono destinate a mutare oggettivamente e soggettivamente. Masci supera, quindi, il confine dell’ormai antiquata diatriba tra esperti nella scientia juris perché lega l’affermazione del principio d’uguaglianza e del diritto alla reale prassi politica in una sorta di dialettica tra diritto e politica, che – anche se ancora ruvida – è destinata a fecondare il dibattito politico nel secolo successivo. IV Nel trambusto, seguito al crollo della Repubblica Partenopea, insieme allo zio Pasquale Baffi – già membro dell’Assemblea Legislativa e ministro della Educazione Pubblica – e a Domenico Bellusci (1774‐1833), futuro vescovo‐presidente del Collegio di S. Adriano, cercò riparo nella campana napoletana. I tre furono arrestati: il Baffi fu condannato alla pena capitale, eseguita nel novembre del 1799; il Masci ed il Bellusci scontarono diciassette mesi di carcere. Il Bellusci, che era stato mandato a Napoli dal vescovo Francesco Bugliari per aggiornarsi culturalmente nella “scienza dei Locke, dei Condillac e dei Genovesi”, Cassiano: Angelo Masci 15 ritornò all’insegnamento nel Collegio italo‐greco. Masci ritornò all’esercizio dell’avvocatura per poi riemergere alla caduta dei Borbone. Nel Decennio, per la consolidata fama di giurisperito, di pubblicista e di intellettuale impegnato sul fronte delle riforme dell’Amministrazione Pubblica, ebbe a ricoprire, dapprima, la carica di Consigliere dell’Intendenza di Napoli e, successivamente, nel 1809, per decreto di Gioacchino Murat, fu nominato Procuratore Regio del Tribunale di Appello delle Due Calabrie con sede a Catanzaro, istituito nel gennaio dello stesso anno.   Un anno dopo, per la specifica competenza che aveva in materia agraria, fu nominato Commissario Regio per la ripartizione dei demani nella Calabria Ulteriore ed in Basilicata. In tale compito, profuse tutto il suo impegno e la sua passione civile in favore della popolazione contadina di quelle zone, superando oggettive difficoltà e – non ultime – quelle frapposte dagli stessi “villani (che) si dimostrano volgo istupidito dalla passata tirannia feudale e dalla mancanza di qualsiasi buon istituto, non capace nemmeno della idea di bene pubblico e dello spirito nazionale”. Ad ogni modo, nonostante tutto, in una relazione al Ministro dell’Interno, sottolineava come “finalmente queste infelici popolazioni vanno ad escitarsi dal lungo letargo in cui sono giaciute. Appena incominciate le operazioni della ripartizione, è incredibile l’entusiasmo che anima tutti i villani a correre per profittare dei Cassiano: Angelo Masci 16 salutari effetti della legge e benedire il Sovrano che ha spezzato il giogo della servitù”.   Tuttavia – contrariamente alle aspettative – i “villani” non usufruirono realmente dei benefici effetti della legge eversiva della feudalità. Le assegnazioni a contadini poveri e braccianti di quote di terreni demaniali – da un minimo di quattro ad un massimo di trenta tombolate – non furono sufficienti a determinare la costituzione di un solido ceto medio contadino, fedele alle istituzioni. Gli assegnatari, non assistiti economicamente almeno per avviare la trasformazione dei fondi ricevuti e metterli in produzione, nell’impossibilità di potervi provvedere con mezzi propri o per essersi sproporzionatamente indebitati, trovarono più economico vendere le rispettive quote. Queste furono, perlopiù, acquistate dalla borghesia rurale di recente formazione, oggettivamente agevolata nel processo di accumulazione delle ricchezze dalla contingenza politica.   La successiva soppressione degli ordini ecclesiastici – in Calabria, secondo la stima del Caldora, ne furono ben 202 ‐ , l’incameramento e la vendita all’asta del complessivo e consistente patrimonio immobiliare erano destinati a ridisegnare il quadro sociale e politico a tutto vantaggio degli homines novi della emergente borghesia rurale che, in buona parte, furono gli acquirenti di quei beni, riuscendo, così, a costituire solide e durature fortune economiche, diventando protagonisti della vita sociale e politica. Questa classe, con la sua ambivalenza – rivoluzionaria in politica, ma conservatrice in economia, schierata in difesa del “sacro” principio di Cassiano: Angelo Masci 17 proprietà – caratterizzerà col suo protagonismo tutto il periodo risorgimentale. La sua egemonia svuoterà di contenuto il principio di uguaglianza; da qui, matureranno nuovi processi politici.   Nel 1807, il Masci dà alle stampe  il Discorso sull’origine, i costumi e lo stato attuale degli Albanesi nel Regno di Napoli per contestare alcune affermazioni, contenute nel Rapporto di Francesco Lomonaco al cittadino Carnot, a proposito degli Albanesi del Molise (Ururi, Portocannone, Campomarino) che, nei fatti del 1799‐1800, si erano distinti dedicandosi “all’assassinio e al contrabbando, per l’esca del bottino formarono orde furiose, portando dappertutto l’infamia, la desolazione e la morte”. Si dava ad intendere nella predetta relazione la sussistenza di un dato razziale, tipica della popolazione albanese, quasi che la ferinità dei costumi dipendesse da una caratteristica etnica e non trovasse, invece, una più plausibile e storica spiegazione nelle particolari condizioni di ignoranza, di miseria, di superstizione e di oppressione in cui, per circa quattro secoli, quelle popolazioni erano state costrette a vivere, alla pari, del resto, della popolazione indigena del Mezzogiorno. Il Masci, da buon conoscitore dei processi storici, individua giustamente le “cause del picciolo progresso” degli albanesi, non in astratte ed infondate ragioni di razza, ma nell’emarginazione e nello sfruttamento in cui erano state costrette a vivere per secoli dal loro insediamento nel regno; nella “falsa politica dei vicerè”, che avevano disperso gli albanesi in ghetti, in piccoli e sperduti villaggi per meglio servirsene come manodopera agricola, poco o nient’affatto retribuita, Cassiano: Angelo Masci 18 con estremo vantaggio dei feudatari, grandi proprietari parassitari in difficoltà per la carenza di manodopera; nella “privazione di ogni commercio”; nel precario possesso di terreni “sterili” ed “insignificanti”; nell’assoggettamento, nonostante la loro povertà, al pagamento di balzelli ingiusti; nella “mancanza di Collegi e d’istruzione (che) li fecero giacere nell’ignoranza per più di duecento anni”. Altra non meno rilevante causa, che ostacolò il progresso, fu, secondo il Masci, l’ostilità costante ed ostinata dei Vescovi di rito latino, i quali, “invece di promuovere… gli studi, far crescere i lumi, proteggere le scienze e le arti, per una malintesa religione non hanno avuta altra cura che di abbattere il rito greco…da ciò sono avvenuti eterni litigi e reciproche ostilità, che tendendo sempre alla depressione degli Albanesi, aumentavano in loro l’aborrimento della vita civile, delle scienze e delle arti”. Basterebbe eliminare tali ostacoli “per veder fiorire una Nazione…e aumentare nel Regno la popolazione di gente brava e fedele”.  Ed, a tale proposto, non tralascia dal sottolineare la recente istituzione del Collegio italo‐greco, dopo la cui erezione, immediatamente “s’incominciò a vedere qualche lume”. Non appena quella popolazione fu posta in grado di potere profittare della cultura, si constatò infatti, un rapido e generale miglioramento delle condizioni civili ed economiche ed un’appropriazione, costante e progressiva, degli strumenti culturali. Del resto, Baffi, Bugliari, Bellusci e lo stesso Masci non erano che figli di quel “lume”, acceso dal Collegio. Cassiano: Angelo Masci 19 Nel periodo della Restaurazione, la monarchia borbonica con avveduta politica mantenne l’ordinamento del Decennio;    col trattato di Casalanza, re Ferdinando si era impegnato per una generale amnistia e per il mantenimento negli uffici e nei gradi dei funzionari del passato regime. Il Masci conservò la sua carica di magistrato, ma da Catanzaro fu trasferito alla Corte d’Appello di Napoli. Nel 1820, fu nominato Consigliere di Stato, ma il 10 luglio dell’anno seguente, cessò di vivere, stroncato da un ictus.      Angelo Masci va collocato, dunque, a buon diritto tra quegli intellettuali meridionali ed, in particolare, tra quelli calabro‐arberischi, importanti e di ragguardevole numero, che al declinare del secolo XVIII ed agli inizi del secolo seguente, furono protagonisti delle grandi battaglie ideali per il rinnovamento della cultura, della società e delle istituzioni politiche nel nostro Mezzogiorno, con sacrificio del personale interesse, sopportando, a volte, persecuzioni, carcere ed esilio, malcompresi o non compresi affatto da una massa ignorante, servile e superstiziosa. “Ragione in più – per concludere col Croce – per amarli e venerarli e per non troppo vituperare la terra che essi ebbero cara e per la quale stimarono che mettesse conto di sostenere quelle prove”.

Domenico Cassiano



                                                                          
 Nota bibliografica Angelo Masci, Discorso sull’origine, i costumi e lo stato attuale degli  Albanesi del Regno di Napoli, Napoli, 1807; Cassiano: Angelo Masci 20 Id., Esame politico‐legale de’ diritti e delle prerogative de’ Baroni del Regno di Napoli, Napoli MDCCXCII, nella Stamperia Simoniaca; Raffaele Ajello, Arcana Juris Diritto e politica nel Settecento Italiano, Napoli, 1976;       Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, 1958; Id., La rivoluzione napoletana del 1799, Napoli, 1998; Antonino Catalano, Angelo Masci: la sua opera e i suoi tempi, in Risveglio‐Zgjimi, VI, n. 2, 1968, pp. 17‐29; Domenico A. Cassiano, Angelo Masci tra borghesi e contadini al tramonto del feudalesimo napoletano, in Il Serratore, Corigliano Calabro, 1988, a. I, n. 3. pp. 43‐44;   Gaetano Cingari, Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799, Messina, 1957; U. Caldora, Calabria napoleonica, Napoli, 1960. L. Villari, Bella e perduta L’Italia del Risorgimento, Bari, 2009

giovedì 14 gennaio 2016

RIFLESSIONI SULLA “RILINDJA” ARBËRESHE

( di Francesco Cassiani)

 Con il termine “Rilindja” si individua quel movimento politico, intellettuale, letterario, sviluppatosi tra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo, promosso dai maggiori intellettuali arbëreshë, laici ed ecclesiastici, sulla scia dei movimenti politico – letterari che caratterizzarono il risveglio delle coscienze meridionali contro il governo oscurantista ed assolutista borbonico ed in linea con le nuove idee di libertà e di indipendenza che, investendo la vita letteraria, politica e civile, si andavano diffondendo per tutta la penisola, concretizzandosi in moti e sommosse a cui parteciparono cittadini appartenenti alle più diverse classi sociali, accomunati dalle stesse idee di libertà, democrazia e unità nazionale. Il movimento della “Rilindja”, inquadrato, quindi, in questo contesto di fermenti di nuove idee, contribuisce alla formazione di una nuova realtà letteraria e politica che, oltre ad aver attivamente contribuito al rinnovamento della cultura calabroalbanese adeguandola alle nuove tendenze letterarie nazionali ed europee, inserendola nel movimento romantico calabrese e nazionale, ed aver avuto parte attiva alla causa del Risorgimento, si interessò alle sorti della patria degli avi, ancora sotto il dominio turco ed oggetto delle attenzioni dell’impero austro- ungarico, che cominciava a rivolgere le sue mire alle regioni balcaniche; pertanto, fa notare Giuseppe Carlo Siciliano, “il movimento della “Rilindja” non nasce nella madre patria, ma fa capo, in un primo momento, ai gruppi intellettuali che sono espressione delle grandi comunità albanesi della diaspora e cioè alle colonie d’Italia, di Istambul, di Bukarest, del Cairo e di Sofia”. Importanza fondamentale per la diffusione delle nuove idee ed il consolidarsi del movimento della “Rilindja” ebbe certamente il collegio S. Adriano di S. Demetrio Corone, che, sotto la guida e l’impulso di Vescovi come Francesco Bugliari (a cui si deve il trasferimento del collegio da San Benedetto Ullano a S. Demetrio nel 1794) e Domenico Bellusci, si formarono quasi tutti i personaggi più illustri del firmamento intellettuale politico-patriottico del mondo arbëresh e che tanta parte ebbero per l’affermarsi della nuova cultura romantica e nelle vicende risorgimentali calabresi e nazionali. La figura centrale e preminente di questa nuova cultura fu sicuramente Girolamo De Rada, alunno prima e docente poi del S. Adriano, il più alto esponente della letteratura romantica arbëreshe e, come scrive F. Altimari “punto di riferimento della “Rilindja” politico-patriottica e culturale della diaspora”. L’opera del De Rada, così come le riviste da lui fondate, ebbero una vasta eco oltre i confini regionali e nazionale, sensibilizzando il mondo culturale europeo alla causa albanese. A questo proposito una menzione particolare merita la figura e l’opera di papàs Vincenzo Dorsa, quasi contemporaneo del De Rada, entrambi definiti da papàs Giuseppe Ferrari “I grandi apostoli dell’idea di un Albania libera ed indipendente”. Ma il Collegio di S. Demetrio fu anche perno (non solo per gli albanesi) per la diffusione delle idee risorgimentali, infatti tra le sue mura si educò una schiera di giovani che, infervorati dalle nuove idee di libertà ed unità nazionale che si andavano diffondendo per la penisola, parteciparono attivamente ed eroicamente alle vicende patriottiche e che serviranno anche da sprone per il risorgimento albanese. Per celebrare le gesta di questa schiera di “Eletti” cito alcuni versi tratti dal poemetto “Brezia” del 1899 di Ferdinando Cassiani: “ Fummo noi nella calabra tenzone Presso Campotenese Che sostenemmo la rivoluzione Dell’italo paese” ed ancora oltre “Fra noi nacque Toscano, il difensore Del Forte di Vigliena, Falcone, il leggendario lottatore, che con novella lena marciò per Sapri insieme a Pisacane e v’incontrò la morte, chè furon tutte le speranze vane della balda coorte. Mauro,Nociti, Damis, e Milano, pure nacquer tra noi, e con animo nobile e romano si mostrarono eroi”. Ma oltre ad essere stato un movimento di rinnovamento la “Rilindja” rappresentò anche un movimento di rivalsa e riscatto civile di una minoranza etnica dalle angherie ed umiliazioni subite dai signorotti e nobili indigeni e da parte di certo clero e contribuì alla sua definitiva integrazione nella realtà italiana ed alla conseguente partecipazione alla formazione dello Stato che si andava delineando, rafforzando, nello stesso tempo, “il concetto di appartenenza ad una propria individualità etnico-culturale, che fino a quel momento si era identificata nell’elemento religioso e rituale”
. Scrive Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro: “Che cosa ha spinto queste popolazioni a riporre da parte la loro condizione di minorità e quindi di misurarsi con i grandi appuntamenti della Storia d’Italia? Sicuramente le cause sono da ricercare nelle condizioni di vita disumana che dovettero condurre fin dal loro primo insediamento nell’Italia meridionale, dove stagnante ed ancestrale di presentava il regime feudale”. Alla luce di quanto sopra, si potrebbe quindi affermare che il processo della “Rilindja” individua il “Rinascimento” politico, culturale e civile di un popolo dopo un oscuro periodo “medioevale” che cominciò a schiarirsi con l’Istituzione del Collegio italo- albanese il cui ruolo, come scriveva il già citato papàs Ferrari fu fondamentale anche “per combattere l’ignoranza ed impedire il pericoloso addormentarsi delle coscienze dei profughi”. Fortunatamente questo pericolo, almeno per il momento, sembrerebbe scongiurato, grazie alla “seconda Rilindja” che, come si legge nell’introduzione all’opera “Antologia degli autori frascinetesi” di Caterina e Giulia Adduci ( Comune di Frascineto 2009) è “tesa a richiamare l’attenzione sulla questione arbereshe per dare ad essa nuova linfa vitale”, da qui, proseguono le suddette autrici, “l’attività di rivitalizzazione culturale legata all’associazionismo e ad intense campagne divulgative supportate da riviste specializzate”. E’ auspicabile, quindi, che il concetto di “Rilindja” possa continuare a consolidarsi cosicchè il vessillo del Castriota possa continuare a sventolare nel cuore di tutti gli arbereshe.


 Francesco Cassiani