domenica 30 dicembre 2012

La Rivoluzione francese e la Repubblica Partenopea ( Parte prima)

La Rivoluzione francese è stato uno degli eventi più importanti della storia dell'uomo che maggiormente hanno costituito oggetto di disquisizioni. Fuor di dubbio, essa s'incubò e vide luce soprattutto per le nuove correnti filosofiche dell'Illuminismo liberale e anticlericale e come tutte le rivoluzioni essa non fu popolare, ma borghese, con ecumenicità, anche del giacobinismo ecclesiastico. Ma poichè si tratta di un avvenimento particolarmente predisposto a coinvolgere giudizi di carattere politico, è stata, per lo più delle volte, fertile terreno di divulgazione ideologica piuttosto che di indagini strettamente scientifiche. Indefinite sono state le interpetrazioni date alla Rivoluzione francese, ma essa, viene configurata, dalla maggior parte degli intellettuali di oggi, come un fenomeno che assimila attuali problematiche esistenziali. Con meditante concentrazione si rifletta, ad esempio, sui principi fondamentali della democrazia, sulla questione dell'uso legittimo o illegittimo della violenza e dei soprusi, sulle forme di organizzazione della società e delle conquiste politiche, sul ruolo degli intellettuali o dei dirigenti politici, sulla questione del partito unico o della repressione, sulla articolata problematica intrinseca al rapporto fra stati e religioni, su tematiche demagogiche e strumentali della divulgazione ideologica o ancor di più la creazione di miti e di simboli: in sostanza una lunga serie di valori o disvalori, nei quali, da duecento anni, intere generazioni, hanno formato e formano la propria coscienza politica.
In Francia, la situazione politica e sociale alla fine del XVIII secolo, si delineava, negativamente più marcata rispetto alle altre realtà statuali d'Europa: l'imposto e profondo divario fra le classi sociali esacerbava, in maniera inquietante, le masse popolari, costituite prevalentemente dal ceto contadino che, tassato all'inverosimile per il sostentamento delle spese rese grevi dall'aristocrazia,  si unì per agire concordemente, nella contestazione, con la piccola e media borghesia. Il sovrano, Luigi XVI, goffo ed incompetente,  conscio della sua incapacità di governare saggiamente, non diede importanza al fenomenale stato di disagio in cui, con implacabile disperazione, il Terzo Stato e il ceto medio fossero costretti a condurre vita, producendo dispendioso disprezzo per gli spropositi dell'aristocrazia. Le entrate del regno, infatti, in quel periodo, venivano impiegate, in maggior misura, più  per l'aiuto devoluto ai bisogni della rivoluzione americana, che lottava per l'indipendenza dall'Inghilterra e alle sfarzose feste di corte che per una regolamentazione dell'economia rientrante nei parametri della normalità. Il 95% delle entrate fiscali proveniva dalla produzione agricola, la quale, essendo sottoposta ad incredibile tassazione e angosciata dalla carestia del 1787, agonizzante cessò di essere forza trainante dell'economia nazionale. In quello stesso anno Jacqus Neker assume la direzione delle Finanze, venendo a conoscenza del grave dissesto finanziario e delle concomitanti cause, arditamente, l'anno successivo pubblica il "Compte Rendu", dove rivela la drammaticità della situazione economica. le spesse folli e gli inamissibili sprechi della corte: per questa onesta e responsabile divulgazione venne destituito dall'incarico. Dalla sua bilanciata ed analitica ricerca dedusse che: dei 503 milioni di lire in entrata allo Stato, ben 629 costituivano la spesa, includendo nella stessa 38 milioni per feste e pensioni ai cortigiani.
La situazione divenne insostenibile e nessuno, ad esclusione del Neker, esonerato, pare abbia avuto la volontà di porre rimedio alla dilatazione della abissale voragine volontariamente provocata.
Come assunto in precedenza, le cause originanti la Rivoluzione Francese, debbono, oltre che, da attribuirsi al malcontento del terzo Stato, in buona porzione anche alle esigenze di comodo della borghesia e ai nascenti concetti di Razionalismo, Contrattualismo ed Egualitarismo dell'autoctono Illuminismo.
Il 1789 è stato l'anno dei grandi sconvolgimenti sia per i francesi che per il resto della civiltà europea: il 14 luglio ci fu la presa della Bastiglia e un mese dopo con la "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e dei Cittadini", venivano aboliti i diritti feudali, le classi sociali, più tardi la schiavitù nelle colonie e tutto ciò che ostava i principii dell'esistenzialità dell'uomo. Prescindendo dai personaggi che, da attori o comparse, si distinsero negli eventi rivoluzionari, è necessario dissertare di storiografia moderata, reazionaria, radicale, marxista, anarchica, senza la remora di confondere la politica con l'indagine scientifica. Con ispirito, non malcelato e con dovuta meditazione, fra le plurilaterali asserzioni di carattere ideologico, si è giunti unanimemente alla giusta risoluzione che, la Rivoluzione Francese, da sola o assieme ad altre rivoluzioni ad essa contemporanee, sia con i successi che con le negatività, ha, con stile carismatico, introdotto nuovi ed irreversibili elementi nella storia della civiltà europea occidentale. Oggetto di discussione potrebbe essere considerata, come proiezione prospettica, se le novità da essa introdotte, costituiscano contrasto con il passato dell'ancien règime oppure una accelerazione di processi avviati da tempo. Inconfutabile è che essa, con le sue produzioni, diede all'uomo, nella storia, la dignità dovutagli.
Negli anni successivi, la Francia rivoluzionaria, acquistò la simpatia, in quasi tutta Europa, di molti intellettuali e di una considerevole frangia delle classi popolari e di tutti coloro che speravano nella solenne dichiarazione del 1792, dove la nazione d'oltralpe si rese patrocinante d tutte le genti in lotta contro la tirannia. In Italia questa sorta di deferenza per i francesi in rivoluzione si era diffusa soprattutto negli ambienti borghesi, nel clero meno bigotto e più erudito ed anche in una ristretta cerchia dell'aristocrazia e, in alcune aree, anche se in maniera confusa, fra le masse contadine-popolari.
Il motto rivoluzionario della libertà, della uguaglianza, della fraternità, attraverso circoli e organizzazioni, diede vita, in poco tempo, a quel fenomeno definito giacobinismo italiano.
Con le campagne napoleoniche, la Francia, intensifica, a livello internazionale, una politica di organizzazione delle repubbliche sorelle: nel 1796 nascono la Repubblica Cisalpina e la Traspadana, nel 1797 la Elvetica e quella Ligure e nel 1798 la Romana.

venerdì 21 dicembre 2012

Il profumo del pane: buka

( di Pietro Napoletano)

Foto di Francesco Lofrano  ( Ngiku ka Ferma)
Il pane rappresenta da sempre l'alimento per eccellenza, il simbolo del cibo.
Non a caso, nella più bella ed autorevole preghiera cristiana s'invoca a Dio " il pane quotidiano", mentre nella Genesi (3,19),  si dice: "col sudore della tua fronte mangerai pane", quasi per sottolineare l'indispensabilità di questo alimento primario, che fu di uso comune presso i popoli più antichi, e specialmente presso gli Egizi, i Greci, i Romani. Ora sono rimasti in pochi a fare il pane in casa, perchè riesce più facile acquistare quello che si trova abbondantemente in commercio, ma al tempo della mia fanciullezza,il pane, almeno nei paesi, lo facevano tutti in casa. E m'è rimasto un ricordo nitido del rituale che si ripeteva puntualmente, due o tre volte al mese. Qualche giorno prima, mia madre preparava le bianche tovaglie, puliva il grano e lo portava a macinare, mentre mio padre preparava la necessaria legna, ben secca. La sera prima, mia madre lavava la madia ( magijen), cerneva la farina, si procurava il lievito ( brumit),e approntava le coperte che dovevano tenere al caldo i pani durante la lievitazione.
Il lievito era costituito da una porzione di farina di frumento inacidita, che si mescolava alla massa della pasta perchè ne provocasse la fermentazione. E lo si passava in prestito, da una famiglia all'altra, perchè venisse continuamente rinnovato, in modo da averlo sempre fresco.
La mattina, mia madre si alzava presto, sempre prima dell'alba, per procedere all'impasto. Ricordo che mi alzavo anche io, spesso, per assistere a quell'affascinante operazione, ed ho ancora nelle orecchie il rumore soffocato prodotto dal reiterato rigurgito dell'acqua nella pasta, ad ogni affondar di pugno:"Clòppete, clòppete, clòppete"! ogni tanto mia madre aggiungeva una tazza di acqua calda e continuava ad affonadare ritmicamente i suoi pugni nella pasta gommosa: "clòppete, clòppete, clòèppete"!
Non so precisamente quanto durasse quell'operazione. Un'ora all'incirca. Per me era uno spettacolo fantasioso e interminabile. Poi mia madre esmaninava soddisfatta l'operato, tracciava sulla pasta tre segni di croce col raschiatoio di ferro, e lo copriva, prima con una bianca tovaglia e poi con alcune coperte.
Dopo circa un'ora, o anche di pù, se faceva freddo, andava ad accendere il forno, calcolando che fosse pronto, quando terminava il processo di fermentazione. Allora iniziava la panificazione. Ed era vago spettacolo assistere a quella fase di lavorazione. Spargeva sullaspianatoia della madia una manciata di farina, poi staccava dalla massa pastosa dei pezzi sempre uguali, li schiacciava, li riappallottolava e li deponeva, in fila, su una bianca tovaglia stesa su un grande tavolo. In ultimo preparava le focacce: tonde, schiacciate,con o senza buco al centro, a seconda se dovevano rimanere focacce oppure se dovevano poi elaborate a pizze col pomodoro, con olio, pepe e origano, con sarde o verdure cotte.
Ci voleva un'abilità particolare, per capire quando il forno raggiungeva la giusta grfadazione di calore, necessaria per una buona cottura. Ed io ricordo che mia madre scrutava con competenza la volta del forno, frangeva e spargeva la brace con una lunga verga di ferro, vi infilava per qualche attimo il braccio nudo, e spesso ripassava il piano ammattonato con uno scopone di cenci bagnati, avendo notato che era eccessivamente caldo. Poi con le lunghe pale di legno, incominciava ad infornare, prima le focacce e le pizza, e finalmente il pane. Ogni tanto toglieva la chiudenda di ferro, per assicurarsi che la cottura procedesse bene, e soltanto quando constatava che i grossi pani si andavano gonfiando e indorando nella giusta misura, si tranquillizzava, sorrideva, si asciugava il sudore e finalmente si sedeva, concedendosi qualche minuto di meritato riposo. Io ero sempre lì, vicino a mia madre. E un pezzo di focaccia calda, condita con olio e sale, era una cosa appetitosa, quasi una leccornia, che non tralasciavo mai di sbocconcellare, mentre tutt'intorno si spandeva la delicata fragranza del pane.


 

venerdì 14 dicembre 2012

Losërat dhe lodrat në traditën popollore të Fermës

(a cura di Ambrogio Bellizzi)



Nel corso dell'anno scolastico 2011/2012 gli alunni della Scuola Primaria di Firmo hanno partecipato alla realizzazione del progetto R.U.G.A. (Ringjallja Udhesuese Gjuhes Arbereshe - Rinascita pianificata della lingua Arbereshe) per lo studio e la valorizzazione della storia, della cultura e delle tradizioni della  minoranza linguistica: la Lingua Arbereshe.
Il progetto è stato finanziaro dal MIUR con i fondi della legge 15 Dicembre 1999, N°482, art.5 ed è stato realizzato in rete con gli Istituti Comprensivi "E. Koliqi" di Frascineto e "G. Pascoli" di Villapiana.
"ll nostro Istituto ha inteso, così, dare continuità alle attività di insegnamento della lingua arbereshe, già avviate con successo negli anni precedenti, al fine di perservare la stessa dai pericoli di una società globalizzata e globalizzante nella quale si impongono idiomi e modelli ad essi correlati, che mettono in grave pericolo aspetti relativi all'identità degli appartenenti alla minoranza linguistica"  sottolinea il Dirigente Scolastico Prof. G. B. Di Marco.
Come tutti sanno, i nonni hanno una grande importanza nella nostra vita. Infatti, dopo i genitori, sono le figuri più presenti e assumono un aspetto carismatico legato alla loro disponibiltà, alla serenità e alla tranquillità che trasmettono.
Le nonne e i nonni sono importanti anche perchè rappresentano le radici vive della nostra vita, della nostra cultura, della nostra lingua, per questo il Preside ha voluto che la scuola realizzasse un progetto nel quale, attraverso l'opera dei nonni, si educasse l'alunno a conoscere il passato per comprendere meglio il presente e organizzare il proprio futuro.
Questi due percorsi didattici spesso si intrecciavano e quindi abbiamo deciso di farli camminare insieme. Abbiamo scelto in particolare di conoscere la nostra storia, dei nostri nonni e attraverso loro quella della nostra comunità.

Il gioco stimola l'inventiva, la curiosità, l'ingegno, la manualità, la creatività; abitua alla competizione, alla riflessione, al rispetto delle regole; contribuisce a formare la mente e potenzia le ablità fisiche e motorie; inoltre rappresenta un vero e proprio allenamento che il bambino compie inconsapevolmente per avvicinarsi ed addattarsi alla società degli adulti.
Nei tempi passati, il gioco era di tipo creativo, collettivo, di alto valore sociale. Infatti, i nostri nonni stavano sempre in compagnia in mezzo alla strada, ka gijtonia, ka ruga, nei vicoli del paese, nei campi, dalla mattina alla sera.
La gijtonia e la ruga rappresentavano la prosecuzione naturale dell'ambiente domestico , spesso povero ed angusto; erano il luogo ideale, soprattutto nelle belle giornate primaverili ed estive, alla vita comunitaria degli adulti e dei bambini. Erano questi i luoghi di incontro privilegiati, teatro dei giochi infantili di un tempo, dove ragazzini e ragazzine vocianti e gioiosi si confrontavano in giochi collettivi; erano il laboratorio deputato alla realizzazione di nuovi giocattoli ricavati con mezzi di fortuna e costruiti spesso in modo rozzo e poco resistenti. Infatti, il più delle volte, erano i bambini stessi, spesso assieme agli adulti, che dovevano costruire i loro giocattoli: piruçet, karroçulli, paluni (pallone costruito con gli stracci), frexi (la fionda), con materiali che riuscivano a reperire in casa o fuori.
Abbiamo scoperto come con semplici mezzi, parole, suoni e immagini, si divertivano i nostri nonni e i nostri genitori; apprezzato la bellezza e la semplicità dei giochi di una volta, sperimentandoli direttamente con grande divertimento di tutti. Grazie a loro abbiamo riscoperto il valore e l'autenticità del gioco e del giocare, divenendo coscienti dell'importanza dello stare insieme, acquisendo la consapevolezza dell'attività ludica, intesa come coinvolgimento di tutte le attitudini psico - fisiche della persona.
Pensiamo che la scuola dovrebbe promuovere progetti di studio sui giochi, sul modo di divertirsi, di vivere e di lavorare di una volta; non come ricerca episodica e fine a se stessa, ma come importante scelta didattica per la formazione delle giovani generazioni. Queste ricerche hanno avuto, nel corso dell'anno, un valore etno-antropologico, non certo marginale per lo studio e la conoscenza delle tradizioni, della cultura e della storia locale.
A conclusione dell'intero percorso, lo studio effettuato, ha reso possibile la realizzazione di una serie di lavori e manufatti di alcuni giocattoli e la stesura del presente testo, a memoria e testimonianza delle attività svolte.
  
Ambrogio Bellizzi
Docente Referente del Progetto 

martedì 11 dicembre 2012

Sirku: il baco da seta

(di Pietro Napoletano ) 
 

Quando avevo otto anni la mia curiosità di bambino venne in contatto con la bachicoltura (sirku). E fu anche l'ultima volta che vidi mia madre impegnata in quel lavoro, pare che mia nonna, che io non ho mai conosciuto, fosse una " maestra nell'arte della bachicoltura, e mia madre ne aveva appreso i segreti del miestere.

Baco da steta (Sirku)
La gelsicoltura - mi raccontava mia madre - era molto fiorente nel secolo scorso e gran parte del territorio intorno al paese era coltivata a gelsi (men), gelseti puri o a coltivazione promiscua. Anche noi avevamo due tomolate di gelseto, che poi tuo padre ha tagliato.
E perchè l'ha tagliato? - chiesi con malcelato interesse, dato che dei piccoli frutti (korronxeze), sia bianchi che neri, ne ero ghiotto.
-Perchè ormai la bachicoltura è in crisi - mi rispose, con un velo di rammarico negli occhi luminosi e chiari - e nessuno viene più a comprare i bozzoli (kukulet). I gelseti sono stati quasi tutti tagliati. Sono rimaste delle piante soltanto lungo i confini dei campi, soprattutto per i frutti.
"Menariqi", un piccolo gelso rachitico che sorgeva lungo il ciglio della strada detta "la Variante", ora via Cavour, rappresentava un punto di riferimento dove i ragazzi si davano appuntamento per i loro giochi: "Shihemi ka menariqi".
Anche se praticato in modo rudimentale, quello della bachicoltura era stato, fino agli anni Venti, uno dei più fiorenti e redditizi settori dell'economia locale che garantiva alla gente un sicuro introito in denaro liquido, ma sul finire degli anni Trenta, ebbe la sua scomparsa quasi definitiva. Nell'immediato dopoguerra qualcuno praticò ancora la bachicoltura, ma finalizzata soltanto alla produzione di seta (sitadhoprit) per il fabbisogno personale o familiare.
L'allevamento del filugello (Krymbi mendafshit) comprendeva varie fasi e richiedeva molta cura e perizia. Il seme si acquistava, ma si produceva anche localmente. L'incubazione delle uova, che durava circa diciotto giorni, doveva avvenire in luogo caldo, di modo che venisse garantita una tempertura uniforme intorno ai venti gradi, perciò si preferiva sistemarle vicino al caminetto ( vatra) o nella stalla, tra la paglia. Allo schiudersi delle uova, i piccoli vermi venivano posti in ceste di paglia (kufe) e alimentati con foglie di gelso tagliuzzate minutamente.

Pianta di Gelso
Man mano che crescevano, poi, venivano sistemati su rudimentali cannicci (kanicolle) e nutriti (tagjisur) con abbondante fogliame fresco di gelso. Chi non disponeva di magazzini (katoqe) o stalla, riduceva tutta la casa a bigatteria. Il periodo larvale durava circa trenta giorni e si svolgeva nel mese di giugno; la sbozzolatura, ovvero l'uscita delle farfalle dai bozzoli, avveniva ai primi di luglio.
I bozzoli venivano accuratamente selezionati e, prima della sbozzolatura, quelli di migliore qualità venivano venduti, mentre lo scarto era destinato alla trattura domestica.
Per la vendita esisteva la figura del mediatore, o sensale,  che acquistava per conto di un commerciante che arrivava solo a fine campagna, quando era pronto tutto il carico di bozzoli.
La mia memoria focalizza in modo particolare il giorno della trattura; c'erano mia madre, mia zia, donna C., una vecchietta molto cordiale e particolarmente disponibile a rispondere alle mie continue domande, ed alcune ragazze del vicinato (gjitonia venute a curiosare.
La trattura è l'operazione di svolgimento dal bozzolo del filo di cui è formato ed il conseguente suo avvolgimento in matasse.
C'era sul fuoco una grossa caldaia di rame (halkome) dove, poco prima che l'acqua iniziasse a bollire, venivano immersi i bozzoli. Perchè il soffocamento della crisalide avveniva per immersione nell'acqua bollente.
Per rinvenire i capi dalle bave, mia madre soffregava la massa dei bozzoli mediante una piccola ramazza, poi acchiappava i fili e li faceva passare attraverso i buchi di una grossa schiumarola di rame, precedentemente attaccata ad una sedia, di modo che venisse a trovarsi alla stessa altezza della caldaia, così il filato si amalgamava e diventava più omogeneo ed uniforme. Intanto, con movimento lento e ritmato, donna C. o qualche altra delle persone presenti, girava l'aspo intorno al quale si avvolgeva il filato in una grossa matassa. Durante il tiraggio, mia madre, con abile movimento delle dita, cercava di eliminare delicatamente nodi e garbugli.
Il filato di seta (mendafshi) era di colore giallastro e, successivamente, prima della lavorazione - mi spiegò donna C. - veniva sottoposto a candeggio per renderlo più morbido e più bianco, ed eventualmente a tintura.
Fu in quell'occasione che arricchii il mio lessico concernente sia "sirkun"( il baco da seta) che argali (il telaio): il vocabolo "kukule" indicava sia il bozzolo sia il cascame di seta, ovvero il prodotto meno pregiato; " palaçe e kukulte" era una coperta di seta grezza; la seta di prima qualità aveva ormai perso il vocabolo appropriato, " mendafsh" (stolì mendafshi = vestiti di seta), e veniva chiamata "sitadhopir"; la stoffa grezza di cotone era detta " pilhure"; la rascia, un grossolano tessuto di lana, era chiamata " follondine".
Donna C. mi invitò poi a casa sua e mi fece vedere il telaio (argalia), il naspo (tiligadhi), l'arcolaio (anemi), la girella (qertulla), la navetta (zhgjeteza), il subbio (shuli), il pettine invergatore (cungrana), la matassa  (alisidja ), il fuso (boshti). E sempre parlando con donna C. appresi il verbo " yenj", (tessere) ed il vocabolo " skamengje" (batufolo di cotone).

Estratto da " Il volto della memoria" Pietro Napoletano, edizioni il Coscile, 1995.
Foto diGiardinaggio.efiori.com;
Laboratorioantispecista.org













 
 
 

lunedì 10 dicembre 2012

L' Eparchia degli Italo Albanesi dell'Italia continentale celebra il Centenario dell'Indipendenza dell'Albania




In occasione della Festa  di San Nicola di Myra, patrono di Lungro e dell'Eparchia degli Italo Albanesi dell'Italia Continentale, Sua Eccellenza, l'Eparca Donato Oliverio, ha voluto ricordare il primo centenario dell'Indipendenza  dell'Abania.
L'Eparca ha voluto ricordare che il popolo Italo Albanese è sempre rimasto legato alla madre patria, soprattutto per il legame linguistico che per il Rito Bizantino degli antichi Padri. Questa forma di fedeltà - ha continuato Mons. Oliverio - è stata premiata con la istituzione, nel 1919, voluta da Papa BenedettoXV, dell'Eparchia degli Italo Albanesi a Lungro. Infine è stato ricordato il compianto Mons. Giovanni Stamati, che nel 1968 ha introdotto nella Divina Liturgia Bizantina di San Giovanni Crisostomo la lingua Albanese, che tutt'oggi, nei paesi che formano l'Eparchia,  viene cantata a Gloria di Dio. Noi siamo fiduciosi- ha concluso - che sacerdoti, laici e giovani possano oggi recarsi in Albania,  come studiosi, per meglio conoscere la lingua e la letteratura del posto, in maniera tale che la Nostra Arberia possa vivere e nel contempo rinascere.

lunedì 3 dicembre 2012

La religione dei Pelasgi è viva in Albania


domenica 2 dicembre 2012

Finja: il bucato

(di Pietro Napoletano)

 
Era uno dei mestieri esercitati abitualmente in ogni casa, con frequenza quindicinnale o, al massimo, mensile, ma tra i meno graditi, che neppure nel ricordo conserva alcunchè di poetico. Il bucato (finja), infatti, veniva fatto per necessità, più che per piacere,  ed era una operazione collettiva a cui partecipavano più persone, consistente nella lavatura della biancheria mediante un processo di lisciviazione. L'attrezzo più caratteristico era la "skorca" (scorza), un rustico corbello rottondo ottenuto intrecciando fasci di rami di ginestra, sul cui piatto fondo veniva lasciato un grosso foro per lo scolo dell'acqua.
Chi poteva permetterselo, chiamava in aiuto, soprattutto per il risciacquo, che veniva eseguito al fiume. C'erano, a tal fine, tante donne che lo facevano a pagamento, portandone sulle mani evidenti segni, perchè il ranno iiruvidisce la pelle e la screpola.
 Il giorno prima si metteva a bagno la biancheria nell'acqua saponata. I panni con lo sporco più resistente venivano insaponati abbondantemente e trattati con il battitoio, (me kopanin). Venivano poi sistemati a strati nella " skorca", avendo cura di non andare oltre i quindici, venti centimetri dall'orlo, dopo di che vi si stendeva sopra la "shtruamja" , un rozzo panno che faceva da filtro al ranno, proteggendo la biancheria da possibili danneggiamenti. Si preparava quindi la cenere. Ricordo che mia madre la cerneva con un vecchio setaccio adibito appositamente a tale uso. La si scioglieva in una grossa caldaia piena d'acqua, rimestando con un bastone, e si attizzava il fuoco, aspettando che arrivasse ad ebolllizione. Era così pronta la liscivia che, presa con un mestolone, veniva cersata nella "skorca", sopra la "shtruamja" che tratteneva l'impasto melmoso di cenere, facendo filtrare soltanto il ranno bollente che agiva come efficace detergente sui panni.
La mattina seguente, poi, sollevata "shtruamja", con la poltiglia di cenere, si traeva la biancheria che aveva bisogno di essere risciacquata in abbondante acqua. E questa operazione, in mancanza di grosse vasche, in genere, veniva compiuta al fiume. Mia madre, per tale servigio, chiamava sempre due sorelle, di cui aveva molta fiducia. " Perchè -diceva- la biancheria delicata deve essere risciacquata molte volte e con cura, altrimenti si può macchiare, strappare, o vi resta la puzza della liscivia".
Le donne avvolgevano tutta la biancheria in un involucro di tela, se la caricavano sulle spalle, legandola con una corda (me telin), e la portavano al fiume distante circa un chilometro dal paese.
Il posto preferito per le lavandaie era in un tratto in pianura, vicino a un ponticello, ove la fiumara si allargava e l'acqua scorreva con minore  impeto, insinuandosi lentamente nell'ampia ansa cosparsa di grossi macigni levigati dall'uso. Ognuna di quelle lavandaie, frequentatrici abituali, aveva il suo posto, ad una certa distanza l'una dall'altra, per non intralciarsi; e immergendosi fino al ginocchio, avevano l'opportunità di sciacquare e risciacquare la biancheria, specie le lenzuola. Al fine di liberare i panni da qualche macchia residua o dall'alone della liscivia, li sfregavano sulla pietra o su un asse di legno con scannalature (derraza) con movimento verticale in su e in giù, per poi risciacquarli, strizzarli e sciorinarli al sole, sopra cespugli di ginestra, di luzule o di lentisco, mentre l'acqua continuava a scorrere, portando seco crucci ed affanni, sudori e ranno.



foto di: gozlinusvalva. wordpress.com;
             www.sanmarcoinlamis.org




sabato 1 dicembre 2012

Poçia

( di Pietro Napoletano)


Da novembre a maggio, questo benemerito utensile di terracotta a forma cilindrica, dalla pancia arrotondata, non mancava mai al focolare. E il suo caratteristico brontolìo prodotto dal gorgoglìo dell'acqua in ebollizione che trascinava i fagioli o i ceci in un vorticoso saliscendi, faceva parte della colonna sonora del viver quotidiano intorno al focolare. No la si poteva lasciare sola perchè c'era il rischio di vederla crepare per mancanza d'acqua, e la mamma, sacra vestale addetta al culto della pignatta, attizzava il fuoco, aggiungeva l'acqua, metteva il coperchio per accelerare l'ebollizione, la schiumava, la scaricava debitamente, se si accorgeva che era troppo piena. Le riservava, insomma, particolare premurosa attenzione e, se proprio era costretta ad allontanarsi, non  mancava di raccomandare a qualcuno di stare attento alla pignatta.
Ve ne erano di diverse dimensioni: grosse, medie piccole, piccolissime, da usare a seconda delle necessità. Le più grosse venivano impiegate in particolari occasioni, per cuocere la carne per il brodo (vi si conteneva una gallina intera), o semplicemente per avere sempre pronta l'acua calda; le medie e le piccole, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, erano adibite alla cottura dei fagioli, dei ceci, lenticchie, cicerchie; le piccolissime venivano usate per preparare l'infuso di camomilla ( peçorriqe hamumilit).
Anche oggigiorno, laddove è ancora d'uso il focolare, non è raro trovare la pignatta accanto al fuoco. Ma la sua presenza ha una funzione diversa. Oggi esaudisce un desiderio, contribuisce alla realizzazione di una variante culinaria, partecipa alla riscoperta di antichi sapori. Ieri, invece, era un punto di riferimento, una colonna portante dell'alimentazione, tanto da rappresentare il simbolo di un'epoca.
La prima colazione costituiva un momento particolarmente piacevole, perchè le ali della fantasia delle nostre madri riuscivano a diradare le ombre della miseria e avevano il merito di elevare a rango di leccornia umili cibi e intingoli d'occasione.
E chi, tra quelli della mia generazione, può dire di non avere più volte gustato il prelibato sapore della pasta fatta in casa ( shtridela, tumac, strangula, rrashekatjel), riscaldata il mattino seguente? Ma il piatto più caratteristico e ricorrente della nostra prima colazione era la colatura della pignatta.
Io detestavo i borlotti, varietà di fagioli rossi e tondi, i "fagioli dellocchio ( fasullelet), piccoli e rosei, dall'ilo nero, non gradivo ceci e lenticchie, perchè non si prestavano alla colatura, in quanto la loro brodaglia nera era disgustosa. Andavo invece in solluchero alla vista della pignatta con i bei fagioli tondi e appetitosi.
Si mettevano in un piatto fondo o in una scodella pezzeti di pane raffermo e, quando la pignata aveva concluso la prima bollitura, vi si versava il suo brodo, si insaporiva con olio, sale e pepe rosso e, con l'immancabile condimento dell'appetito, rappresentava,quel piatto un manicaretto squisito, prelibato, di cui ancora m'è grato il ricordo.
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Foto di Francesco Fusca Tempesta