Le stragi di Pontelandolfo e
Casalduni del 14 Agosto1861
Il 2 agosto 1861, Massimo
D’Azeglio, in una lettera al senatore Carlo Matteucci, pubblicata
poi dai giornali, scrive : "Noi siamo proceduti innanzi dicendo che
i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi: e con questa
massima, che credo e crederò sempre vera, abbiamo mandato a farsi
benedire parecchi sovrani italiani; ed i loro sudditi, non avendo
protestato in nessun modo, si erano mostrati contenti del nostro
operato, e da questo si è potuto scorgere che ai governi di prima
non davano il loro consenso, mentre a quello succeduto lo danno.
Così i nostri atti sono stati consentanei al nostro principio, e
nessuno ci può trovare da ridire. A Napoli abbiamo cacciato
ugualmente il sovrano, per stabilire un governo sul consenso
universale. Ma ci vogliono, e pare che non bastino, sessanta
battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti o non
briganti, tutti non ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio
universale? Io non so niente di suffragio, ma so che di qua del
Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là sì. Si deve
dunque aver commesso qualche errore; si deve, quindi, o cambiar
principi, o cambiar atti e trovare modo di sapere dai Napoletani,
una buona volta, se ci vogliono sì o no. Capisco che gli Italiani
hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i
Tedeschi in Italia; ma agli Italiani che, rimanendo Italiani, non
vogliono unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate ...
perché contrari all’unità".
Il D’Azeglio scrive quello che
moltissimi pensano.
Il governo «italiano» risponde
addossando allo Stato Pontificio la responsabilità che il
brigantaggio è alimentato da Francesco II con la protezione del Papa
e che non si può dubitare della "legittimità" dei plebisciti. In
realtà, com’è riconosciuto dalla stessa Commissione d’inchiesta,
fazione esercitata dal governo duosiciliano in esilio a Roma è del
tutto trascurabile e l’aiuto prestato è limitato all’invio sporadico
di qualche agente di collegamento e di scarsi soccorsi materiali. In
tutte le province duosiciliane la guerriglia è un fenomeno di
ribellione popolare del tutto spontaneo per liberarsi dagli
invasori.
Quasi tutti i paesi duosieiliani
sono in rivolta. Numerosi sono i collaborazionisti uccisi dai
partigiani.
La notte tra il 4 ed il 5, le
montagne che cingono Pontelandolfo sono piene d’insorti: i fuochi
accesi sono tantissimi. I liberali collaborazionisti dei piemontesi
impauriti fuggono dalla cittadina.
Il giorno dopo, a Pontelandolfo,
si tiene l’antichissima Fiera di S. Donato. Il viale che porta dalla
provinciale alla piazza principale, attraverso lo spiazzo della
chiesa di San Donato, è gremito di almeno cinquemila persone venute
da altri paesi. Durante la processione arrivano anche gli insorti di
Cosimo Giordano, accolti festosamente da tutti gli abitanti al grido
di "Viva Francesco II.
Il 7, Casalduni è semideserta,
numerosi sono a Pontelandolfo per la fiera. Verso le 18 qualcuno
porta la notizia che alla fiera di San Donato sono arrivati il
Giordano e il suo gruppo, che dappertutto sventolano i vessilli
delle Due Sicilie e che è stato proclamato un governo provvisorio.
La gente rimasta si raduna spontaneamente, si dirige alla caserma
della guardia nazionale, ne scardina l’ingresso, s’impadronisce
delle armi e delle munizioni e abbatte gli stemmi savoiardi.
Il 9, a Cancello, i soldati
piemontesi uccidono 29 civili che manifestano contro gli occupanti.
I guerriglieri dei La Gala assaltano un treno carico di truppe, a
cui infliggono numerose perdite.
A Napoli, il Cialdini, temendo che
la situazione diventi incontrollabile, telegrafa al generale
Cadorna: "Nel caso di avvenimenti gravi ed imprevisti a Napoli od
altrove, concentri la sua truppa a Teramo, Aquila e Pescara ed
agisca secondo le circostanze se le comunicazioni con me venissero
interrotte" .
Il giorno dopo, Ruvo del Monte, S.
Giorgio, Molinara, Pago e Pietrelcina sono accerchiate dal truppe
del 31 ° bersaglieri comandato dal maggiore Davide Guardi: le case
sono saccheggiate, 23 persone uccise, il denaro delle casse comunali
confiscato. L’ufficiale taglieggia anche i possidenti, ne arresta
numerosi perché rifiutatisi di pagare e con l’accusa di attentato
alla sicurezza dello Stato. Tra questi bersaglieri molti sono quelli
che si fanno fotografare, sorridenti, accanto ai cadaveri degli
insorti a cui tengono sollevata la testa per i capelli. Tra i
taglieggiatori vi è anche il maggiore Du Coll del 61’ fanteria.
Il Sannio ed il Molise sono
praticamente sotto il controllo della resistenza. Cerreto Sannita è
isolato e così pure Campobasso, il cui governatore Giuseppe Belli fa
arrivare questa informativa al Cialdini: "Ho interessato questo
colonnello del 36° Fanteria a spedire delle forze verso Sepino, lo
stesso ho fatto col generale Villerey comandante la brigata di
Isernia. Ho telegrafato al governatore di Benevento per conoscere lo
stato di quei luoghi mentre il commercio si trova paralizzato da due
giorni dopo le notizie dei noti avvenimenti, infine non ho mancato
disporre che le guardie nazionali dei Comuni lungo la strada sino a
Sepino, pratichino esatte e perenni perlustrazioni interessando in
pari tempo i miei colleghi di Benevento e Caserta a fare lo stesso,
per il tratto della consolare che rientra nelle rispettive
giurisdizioni".
I FATTI DI CASALDUNI E
PONTELANDLFO
Il generale De Sonnaz, per sedare
la rivolta di Pontelandolfo, invia da S. Lupo un drappello di 45
uomini del 36’ fanteria, comandato dal tenente Cesare Augusto
Bracci. Alle prime ore dell’alba del 10 agosto il tenente Bracci
parte da Campobasso, ma, giunto in località Borgotello, è accolto da
colpi di fucile. Un bersagliere rimane ucciso. Si dirigono poi a
Pontelandolfo, ma circondati da numerosi partigiani a cavallo nei
pressi della masseria Guerrera, si danno alla fuga in ordine sparso
dirigendosi verso Casalduni. Inseguiti, sono costretti a uno scontro
a fuoco. Due soldati rimangono uccisi. Nel frangente uno dei
soldati, accusato il tenente Bracci di incapacità, gli spara col
fucile uccidendolo. Tutti gli altri, tranne un sergente che si
nasconde tra i rovi della boscaglia, si consegnano ai guerriglieri.
Il Sergente partigiano Pica e i suoi uomini, ordinato ai prigionieri
di mettersi in colonna, si dirigono verso Casalduni. I guerriglieri
sono accolti da una folla festante. Tra la folla in piazza vi è
anche il vice sindaco Nicola Romano, autore di brogli durante il
plebiscito-farsa. Anche lui inveisce contro i prigionieri, ma,
riconosciuto dalla folla, è legato ad un albero della piazza e
fucilato. Per i prigionieri è istruito un processo sommario. Ne
viene decisa la fucilazione, eseguita alle ore 22,30 del giorno 11.
La notizia degli avvenimenti di
Casalduni arriva anche a San Lupo al liberale Iacobelli. Costui,
alla testa di duecento guardie nazionali bene armate, si dirige
verso la cittadina, ma accortosi che ogni strada è controllata dagli
insorti, devia verso Morcone. Da questo luogo, invia al Cialdini un
dispaccio, che in pratica decreta la fine di Pontelandolfo e
Casalduni: "Eccellenza, quarantacinque soldati, tra i più valorosi
figli d’Italia, il giorno 11 agosto 1861 furono trucidati in
Pontelandolfo. Arrivati sul luogo vennero tenuti a bada dai
cittadini fino al sopraggiungere dei briganti. Giunti costoro, i
soldati avevano subito attaccato, ma il popolo tutto accorse
costringendoli a fuggire. Inseguiti si difesero strenuamente, sempre
combattendo, fino a ritirarsi nell’abitato di Casalduni ove si
arresero e passati per le armi. Invoco la magnanimità di sua
eccellenza affinché i due paesi citati soffrano un tremendo castigo
che sia d’esempio alle altre popolazioni del sud.
Il Cialdini ordina allora al
generale Maurizio De Sonnaz che di Pontelandolfo e Casalduni " non
rimanesse pietra su pietra ". Costui, il 13, col 18° reggimento
bersaglieri, forma due colonne, una di 500 uomini al comando del
tenente colonnello Negri, che si dirige verso Pontelandolfo, l’altra
di 400 al comando di un maggiore, Carlo Magno Melegari, che si
dirige verso Casalduni. Prima di entrare nei paesi, le colonne si
scontrano con una cinquantina d’insorti, che però sono costretti a
fuggire nei boschi dopo avere ucciso nel combattimento venticinque
bersaglieri.
accompagnato dal De Marco, ha
contrassegnato le case dei liberali da salvare, i bersaglieri
entrati in Pontelandolfo fucilano chiunque capiti a tiro: preti,
uomini, donne, bambini. Le case sono saccheggiate e tutto il paese
dato alle fiamme e raso al suolo. Tra gli assassini vi sono anche
truppe ungheresi che si distinguono per loro immondi atrocità. I
morti sono oltre mille. Per fortuna alquanti abitanti sono riusciti
a scampare al massacro trovando rifugio nei boschi.
Nicola Biondi, contadino di
sessant’anni, è legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri.
Costoro ne denudano la figlia Concettina di sedici anni, e la
violentano a turno. Dopo un’ora la ragazza, sanguinante, sviene per
la vergogna e per il dolore. 11 soldato piemontese che la stava
violentando, indispettito nel vedere quel corpo esanime, si alza e
la uccide. Il padre della ragazza, che cerca di liberarsi dalla fune
che lo tiene legato al palo, è ucciso anche lui dai bersaglieri. Le
pallottole spezzano anche la fune e Nicola Biondi cade carponi
accanto alla figlia. Nella casa accanto, un certo Santopietro con il
figlio in braccio mentre scappa, è bloccato dalle canaglie
savoiarde, che gli strappano il bambino dalle mani e lo uccidono.
Il maggiore Rossi, con coccarda
azzurra al petto, è il più esagitato. Dà ordini, grida come un
ossesso, è talmente assetato di sangue che con la sciabola infilza
ogni persona che riesce a catturare, mentre i suoi sottoposti
sparano su ogni cosa che si muove. Uccisi i proprietari delle
abitazioni, le saccheggiano: oro, argento, soldi, catenine,
bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti.
Angiolo De Witt, del 36° fanteria
bersaglieri, così descrive quell’episodio: "... il maggiore Rossi
ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero
paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti
i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di
bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti
reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni
erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti,
vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica
a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero
incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i
superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per
incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò
un’intera giornata: il castigo fu tremendo...".
Due giovani, di cognome Rinaldi,
salvati dal De Marco perché liberali, alla vista di tanta barbarie e
tanto accanimento contro i loro compaesani e la loro città,
consultatisi col padre, si dirigono verso il Negri. I due giovani
avevano appreso le idee liberali frequentando circoli culturali a
Napoli, sognavano un’Italia una, libera, indipendente; sognavano la
fratellanza. A quelle scene di terrore e di orrore aprono però di
colpo gli occhi. Il più giovane dei due aveva finito da poco gli
studi all’Università di Napoli e si avviava all’avvocatura; il
fratello maggiore era un buon commerciante di Pontelandolfo. I due
fratelli sono accompagnati dal De Marco per protestare contro quel
barbaro eccidio. Il Negri per tutta risposta dà immediatamente
ordine di fucilarli tutti. Dieci bersaglieri prendono i Rinaldi,
s’impossessano dei soldi che hanno nelle tasche e li portano nei
pressi della chiesa di San Donato. l due fratelli chiedono un prete
per l’ultima confessione. ma è loro negato. Sono bendati e fucilati.
L’avvocato muore subito, mentre il fratello, pur colpito da nove
pallottole, è ancora vivo. Il Negri lo finisce a colpi di baionetta.
Il saccheggio e l’eccidio durano
l’intera giornata del 14. Numerose donne sono violentate e poi
uccise. Alcune rifugiatesi nelle chiese sono denudate e trucidate
davanti all’altare. Una, oltre ad opporre resistenza, graffia a
sangue il viso di un piemontese; le sono mozzate entrambe le mani e
poi è uccisa a fucilate. Tutte le chiese sono profanate e spogliate.
Le sacre ostie sono calpestate. Le pissidi, i voti d’argento, i
calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive,
rubati. Gli scampati al massacro sono rastrellati e inviati a
Cerreto Sannita, dove circa la metà è fucilata.
A Casalduni la popolazione,
avvisata in tempo, fugge. Rimane in repressione e qualche altro che
pensa di farla franca restando chiuso in casa. Alle quattro del
mattino, il 18° battaglione, comandato dal Melegari e guidato dal
Jacobelli e da Tommaso Lucente di Sepino, circonda il paese. Il
Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale
Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento
militi ciascuna e attacca baionetta in canna concentricamente. La
prima casa ad essere bruciata è quella del sindaco Ursini. Agli
spari e alle grida, i pochi rimasti in paese escono quasi nudi da
casa, ma sono infilzati dalle baionette dei criminali piemontesi.
Messo a ferro e a fuoco Casalduni e sterminati tutti gli abitanti
trovati. Dalle alture i popolani osservano ciò che sta accadendo nei
due paesi, ma sono impotenti di fronte a tanto orrore.
A Pontelandolfo e a Casalduni, i
morti superano il migliaio ma le cifre reali non sono mai svelate
dal governo «italiano». Il "Popolo d’Italia", giornale
filogovernativo e quindi interessato a nascondere il più possibile
la verità, indica in 164 le vittime di quell’eccidio, destando
l’indignazione persino del giornale francese " La Patrie " e
dell’opinione pubblica europea.
Il giornale fiorentino "Il
Contemporaneo" pubblica alcune statistiche sui primi nove mesi della
"libertà" piemontese nel Regno delle Due Sicilie: morti fucilati
"istantaneamente" 1.841, fucilati "dopo poche ore" 7.127, feriti
10.604, prigionieri e arrestati 20.000, 3000 ex soldati deportati
nel campo di concentramento di S. Maurizio (presso Torino), famiglie
"perquisite" (saccheggiate) 2.903, case incendiate 918, paesi
totalmente distrutti 14, paesi incendiati 5, chiese saccheggiate 12,
sacerdoti fucilati 54, frati fucilati 22, comuni insorti 1.428,
persone rimaste senza tetto 40.000.
Ai criminali assassini Cialdini,
Negri, Melegari, Rossi e agli ungheresi, lo Stato italiano ha
concesso onorificenze e medaglie d’oro. Questi criminali ancora oggi
sono considerati e venerati come «eroi del risorgimento».
I martiri di Pontelandolfo e
Casalduni sono, invece, completamente ignorati dallo Stato italiano,
che però continua a perseguire i nazisti, che, al confronto con le
canaglie savoiardopiemontesi, sembrano teppisti da oratorio.
Antonio Pagano.