Intra colline e piani
Ai piè del monte, cheta,
e dal frastuon lontana
s’erge FARNETA.
Allietan le sue ore
Il canto degli uccelli,
le danno il bell’umore
le bimbe belle
che nei dì di festa
danzan con frenesia
e con la banda in testa,
Con canti in albanese.
Ed ecco perch’è bello
Il mio paese.
(Domenico Licursi)
dolce armonia.
Prima della attuale collocazione le prime famiglie farnetane, Licursi, Camodeca, Trupo, Petta e i Pappadà, hanno girovagato in diverse parti; infine si sono fermati nel marchesato di Oriolo. Non abbiamo dati sicuri della loro venuta e della fondazione di Farneta e delle sue contrade. La prima volta si stabilizzarono a fondo valle, “Katundisht” (era il paese), abbandonato per la quantità di serpenti, poi verso l’attuale bivio di Oriolo, “Katund i vjeter”, così ancora denominata la località. Anche questo abbandonato verso il 1560 per la peste, portata da un certo Licursi Costantino da Caserta, uomo di fiducia del marchese, vicino vi era una chiesetta dedicata a San Giorgio Martire, la cui statua si trova nella chiesa di Oriolo, come raccontano gli anziani. Il paese, nel suo sito odierno, è posto ai piedi della montagna Rotondella (1016 m.) con attorno quattro piccole sorgenti, Kroj Marsit, Kroj Priftit, Kroj Tufit e Kroj Posht. E’ diviso in due rioni, chiamati entrambi “Ka Mbatana”, collegati con una strada “Nzillikata”. A metà strada della parte alta si ergeva un gigantesco e maestoso OLMO, orgoglio del paese, con una circonferenza di circa quattro metri ed alto circa trenta, piantato nel 1799, in occasione della Repubblica Partenopea, come albero della LIBERTA’, simbolo e manifestazione dell’esultanza e caduta dei regimi assolutistici. Il paese sperduto e povero, eppure l’idea di cambiamento è arrivata fino a Farneta. Certamente la classe intellettuale di Oriolo ha influito, ma gli alunni del Collegio Corsini e di Sant’Adriano hanno fatto anche essi la loro parte.
Si continuò a rivivere, incoscientemente, il mito dell’olmo. Sotto le sue ampie e possenti fronde, gli anziani del popolo si riunivano per discutere e dirimere le questioni della comunità ed amministrare la giustizia. Quest’olmo, in due secoli ha racchiuso la storia dei farnetani e diverse vicissitudini, gioie, sofferente, sogni e speranze. Nella mitologia greca e latina lo ascoltavano come oracolo degli dèì. La gente, vedendo i suoi rami un po’ alla volta seccarsi, colpito da un virus letale, lo compiangevano, “MURGU”, sventurato, come era bello e comodo. Di giorno era luogo di incontro e pettegolezzi delle donne, di sera specie d’estate degli uomini, accalorati, che pensavano di risolvere i problemi locali, nazionali e mondiali. Ancora oggi dicono “MURGU”, i sogni svaniti e fallaci. Sembrava eterno, ma è morto, con nostro grande rimpianto.
Da Farneta si gode un incantevole e stupendo panorama: si ammirano le ampie vallate del fiume Ferro, il Mar Ionio fino a Taranto, le montagne della Basilicata, il Monte Sparviere. Nelle passeggiate estive, spaziando lo sguardo verso un infinito idilliaco, con il cielo azzurro, in mezzo alla fitta vegetazione delle farnie, provi un riposo rilassante e una pace interiore.
In un manoscritto di Giorgio Toscano di Oriolo del 1600, pubblicato nel 1978, è scritto: “…il casale di Farneta riuscì ben popolato, con persone comode e facoltose di possessione, bestiami e industrie”, ma la fortuna delle volte cambia strada. Anche perché il paese è posto in una zona franosa e con scarse sorgenti.
Nel primo censimento del 1542 non risulta né Farneta né Castroregio ma un paese scomparso, San Procopio. Nel 1551 vi erano circa 400 persone; nel 1669, 250 persone; nel 1750, 100 persone; nel 1841, 100 persone; nel 1806, 250 persone; nel 1816, 484 persone; nel 1857, circa 450; nel 1901, 489; nel 1921, circa 500; nel 1950, 508; nel 1985, 250; oggi, 65. Quale sarà il suo futuro?
La maggior parte delle notizie sono ricavate da visite apostoliche, da Antonio Scura, da Domenico Zangari, da Patrizia Resta, dal Rodotà, dal Mussabini e dal Korolevski, da Padre Moratti e dai dati Istat, e dagli scritti di Domenico Licursi, poeta, giornalista, fondatore di “Rinascita Sud”, collaboratore di diversi quotidiani locali, appassionato alle problematiche politiche e sociali e del mondo arbereshe e storico.
Caduto il feudalesimo ai tempi di Gioacchino Murat, 1806, Farneta rimane con Oriolo, distante circa 8 km, per passare nel 1819 con Castroregio, da cui dista 32 km e tre ore a piedi. Il passaggio è avvenuto per motivi etnici e religiosi. Apparteneva, insieme a San Costantino Albanese, San Paolo Albanese e Castroregio, alla diocesi di Anglona-Tursi: nel 1919, con la erezione dell’Eparchia di Lungro, entra a far parte con gli altri paesi citati della nuova diocesi. Queste quattro comunità hanno mantenuto nel corso dei secoli la tradizione bizantina, guidati dai loro papàs, in modo particolare dall’Archimandrita Pietro Camodeca dei Coronei, Arciprete di Castroregio, propugnatore della nuova diocesi italo-albanese.
A Farneta vi erano tre chiese: la parrocchiale dedicata a San Nicola di Mira, prospiciente l’olmo e la piazzetta, chiesa che fu demolita negli anni ’50; San Rocco, ingrandita nel 1900 e rifatta nel 1968, oggi sede parrocchiale con una comoda casa canonica; S. Antonio di Padova, con una piazzetta, che viene festeggiato il 13 maggio ed il 13 giugno: in questa chiesetta vi è una statua del 1708 raffigurante la Madonna della Catena, festeggiata il 10 maggio dalla famiglia Trupo. In campagna vi è una cappella dedicata alla Madonna del Ceraso, così denominata dalla contrada in cui sorge, con una statua ricavata da un unico pezzo di pietra, che per il peso non si portava in processione, festeggiata il martedì dopo Pentecoste, secondo l’usanza italo-greca. Questa cappella possedeva un vasto podere, e espropriato dallo Stato Italiano nel 1860. Sotto l’ombra dell’olmo nelle due piazzette si svolgeva la vita sociale e comunitaria di Farneta, al suono delle zampogne e di altri strumenti si ballava e si cantava, momenti sempre vivi e presenti. Catturavano tempo e spazio per manifestare i sentimenti della propria vita: ecco la gjithonia (vicinato), locus della cultura tradizionale e della crescita umana e sociale.
Tutti possono contribuire a fare la storia del proprio paese, ma alcuni danno una mossa forte e incisiva. Il 7 marzo 1945 è stata una giornata eccezionale. Due sacerdoti, con un tubo in testa ed ampie vesti nere, al suon delle campane a festa entrano a Farneta, accolti dal Papàs Giovanni Battista Mollo. Era una giornata fredda. Uno dei due era il nuovo parroco, giovane, capelli lunghi, barba folta. Si è presentato: io sono Padre Alfredo, il nuovo parroco, vengo dalle Alpi del Trentino, non sono albanese però lo imparerò. L’altro era Zoti Vincenzo Matrangolo di Acquaformosa, che il giorno dopo per paura di essere bloccato dalla neve parte di buon ora, lasciando solo il giovane prete in un paese senza nessun servizio, con un idioma per lui “straniero”. Sembrava abbandonato. Però vista l’accoglienza festosa e la grande gioia dei farnetani, si fermò. La gente tra sé pensava: rimane, e per quanto tempo? Farà come gli altri? Rimase invece per trent’anni! Si era in tempo di guerra.” La povertà
galleggiava e ci si adattava con quanto si poteva trovare.
Molte cose mi mancavano ma un pezzo di pane no, mai visto tanta generosità.”
Nel suo libretto “Ricordi di Farneta” scriveva: “Per Pasqua e nelle altre feste, San Donato, San Rocco, Madonna del Ceraso ed in altre circostanze, i giovani e le ragazze si organizzavano le per suggestive Vallje in cui si prendevano per mano alternati danzando e cantando secondo l’uso degli antichi Albanesi. Il primo e l’ultimo della catena sbandieravano un bel foulard a colori (Flamuri, bandiera). Si spostavano da una parte all’altra, per poter accerchiare qualcuno per farsi offrire da bere. La vittima più cercata ed adocchiata è il parroco. Era per me un piacere”.
Ebbe quattro visite pastorali da parte di Mons. Giovanni Mele, che proveniva da Castroregio, tre ore a dorso di un mulo sellato, col suo segretario Padre Giovanni Caon, su di un asinello col basto. Si fermavano almeno due notti: era un problema serio ospitarli in quanto mancava tutto. Solo nei primi anni del ’60 vennero i servizi primari, luce, strada, acquedotto, fognatura, telefono pubblico, dietro interessamento vivo e continuo del parroco e di Rago Giuseppe, delegato comunale a Farneta. Mons. Mele sorrideva benedicendo con tanta filosofia. Tanti altri episodi si raccontano in paese circa la permanenza del Vescovo.
Padre Alfredo era nato a Tuenno in Val di Non, il 4 gennaio 1920. A sedici anni entrò nel noviziato dei Conventuali a Padova. Compì gli studi filosofici e teologici a Padova e a Roma, in Collegio Greco. Ordinato sacerdote in rito bizantino con destinazione Albania il 6 gennaio 1943. Ma chiusa l’Albania per eventi bellici, la Provvidenza lo porta in Calabria, a Farneta.
Nel suo 65° anniversario di sacerdozio a Rovereto, dove si era ritirato, così ricordava la permanenza a Farneta: “Nel marzo 1945 fui inviato a Farneta, piccolo villaggio di origine albanese con rito bizantino, sperduto sulle montagne della Calabria, località mai sognata nel corso della mia vita eppure rimasi per trent’anni, conformandomi interamente e di buon grado agli usi e costumi con quella gente, permeata di fede, condividendo gioie ed ansie, allegrie e tristezze, facendo per quanto possibile il medico delle anime e dei corpi”. E’ diventato fratello in mezzo ai fratelli, consigliere, maestro, sacerdote, integrando la vita pastorale con quella manuale. Aprì subito l’oratorio in una stanza dove cucinava e dormiva, l’ambulatorio, lo studio fotografico e il pronto soccorso. Mi ricordo ancora la lunga fila, di buon mattino, per le punture davanti alla sua casetta. Termina la sua vita terrena il 13 febbraio 2013 a San Pietro di Barbozza (Treviso). Nelle mie doverose visite, che aspettava con ansia e gioia, apriva i suoi album con le foto di Farneta, che indicava con emozione e grande gioia. Non aveva perso il contatto con i suoi vecchi parrocchiani. Cresciuto ed educato in un ambiente diverso, sposò la tradizione e la spiritualità della nuova comunità, imparò a parlare la lingua “straniera”, si immedesimò nel vivere e nel pensare con il popolo, chiesa vera e concreta. Sobrio ed essenziale nel suo agire, uomo di grande fede: tutti ancora lo ricordano con affetto a Farneta.
Un altro personaggio da ricordare è senz’altro l’Archimandrita Pietro Scarpelli. A pochi giorni dal trapasso era ricoverato presso l’ospedale di Policoro. Il personale ospedaliere mi diceva: “Muore un patriarca, orante e benedicente, come se si preparasse per andare a nozze”. Figura ieratica, Era nato a Farneta il 15 agosto 1887: il padre Giuseppe era insegnante di scuole elementari, proveniente dai casali della Presila, che aprì per la prima volta le scuole elementari a Farneta e sposò Troiano Margherita. Il giovane Pietro frequentò il liceo a Cosenza e a Tursi, sua diocesi, studiò filosofia e teologia al Collegio Greco, presso la Propaganda Fide, dove prese la licenza in entrambe le materie, ordinato sacerdote il 29 giugno 1912 a S. Atanasio (Roma). Venendo in Calabria, fu nominato parroco nel suo paese natìo (1914-1923) per poi passare a San Paolo Albanese, dove si era trasferita la sua famiglia. Dal 1922 al 1928 divenne Vicario generale di Mons. Mele, dal 1928 al 1946 si trasferì in Albania nella Missione cattolica di rito bizantino (Elbasan, Fieri ed altri luoghi). Con l’avvento del comunismo fu costretto forzatamente a tornare in Italia. Visse il resto della vita presso i suoi familiari a San Paolo Albanese e morì il 24 agosto 1973. Il Korolovski nella sua visita del 1921fu ospite a casa sua e così lo descrive: “Ottimo sacerdote, intelligente, istruito, zelante, gode di grande stima”. Mons. Stamati, nella sua omelia in occasione dell’Ufficio funebre disse: “Fu aperto ai fratelli ortodossi, rispettoso verso i musulmani, anticipatore dell’ecumenismo, amò la verità senza ostentazione”.
La parrocchia di Farneta, povera ed isolata, non era per nulla ambita dal clero,, anzi il contrario, vista come luogo di punizione ed esilio, dove i sacerdoti dopo pochi anni se ne andavano via. I registri parrocchiali sono andati smarriti o consumati dai topi. Il primo risale al 1826. Però l’Archimandrita Pietro Camodeca nella sua monografia su Castroregio, manoscritto in possesso della sua famiglia, mai pubblicato, riporta: “Nel 1590 vi era il registro dei battesimi”. Nel 1841 si svolge la visita di Mons. Mussabini. Vi erano tre sacerdoti, tutti di Farneta, don Martino Camodeca, parroco, don Pietro Camodeca, professore, don Nicola Petta, professore. I sacerdoti Camodeca possedevano una ricca biblioteca, andata perduta. Il secondo registro risale 1908 con la firma di Oreste Polilas, di don Antonio Lavitola, don Brescia da San Costantino Albanese, don Pietro Scarpelli, don Antonio Gulemì da San Costantino Alb., don Girolamo De Nicco da Castroregio, don Costantino Tallarico da S. Demetrio Corone, don Giovanni Battista Mollo, infine dal 1945 Padre Alfredo Moratti. Si sono succeduti a padre Alfredo i sacerdoti Gennarino Ferrari da Vaccarizzo Alb., Nicola Vilotta da S. Benedetto Ullano, Saverio Pugliese da Lungro, Giovanni Tamburi ieromonaco basiliano da San Basile, Donato Giannotti da Lecce, Francesco Mele da Acquaformosa, Alduino Marcacci da Firmo ed oggi Zoti Vasil dall’Ukraina. Un vero via vai.
Venendo in Italia gli albanesi alla fine del 1400 per motivi politici e religiosi, hanno continuato a fare i pastori e gli agricoltori sotto i feudatari, dissodando terreni con intelligenza, operosità, e si son fatti valere in diverse attività, tutti cercavano di avere un pezzo di terra, che garantisse di dare un minimo di sopravvivenza, hanno fatto enormi progressi in paese e fuori. Le varie contrade, Llazët, Fikarroni, Grizat, Cirazi, Llumbardi, Lugadhi, Pëtroza, Kroj Posht, Llazi Minkut, Katundisht, Pishkunjeti, Rrupaqjea, Kalbazaqi, Dhjeci, Krojzërvet, Rrutunda, Udha e Horës. Per cinque secoli duramente lavorate hanno nutrito intere generazioni.
I tempi sono cambiati, Farneta si è fermata, la povertà ha avuto il sopravvento, la terra è diventata più avara e amara. Conviene restare a Farneta o partire? Molti sono partiti per Roma, Milano, Torino, oppure oltre oceano. La scuola è chiusa come anche l’ufficio postale. I farnetani sono costretti a partire senza far ritorno. Eppure chi ha avuto l’opportunità di salire “Ka Bregu Rutundës” o “Ka Bregu Llumbardhit” o passeggiare “Ka Rrahi Travet” in mezzo alla folta vegetazione ha ammirato i tramonti suggestivi. Il suo spirito si è riposato, contemplando il sacro silenzio, le meraviglie della natura. Ha trovato la pace interiore, la serenità, il sorriso, l’osmosi tra sé, natura e il Signore, ha vissuto momenti di felicità. Buone e utili anche oggi nel tran tran della vita quotidiana.
La scrittrice ebrea Simone Veil diceva che l’uomo può raggiungere il cielo solo contemplandolo: il cielo scenderà, ci avvolgerà e ci abbraccerà. Eschilo, il grande autore di tragedie greche, scriveva: “Il Divino è senza sforzo, guardando gli spazi infiniti non è perdita di tempo, ma pienezza nello spirito”. Dice Gesù nel Vangelo: “Osservate come crescono i gigli del campo, non lavorano, non filano eppure vi dico che neanche Salomone con tutta la sua ricchezza vestiva come loro”. La storia della chiesa, ad opera dello Spirito santo vivificante, è piena di testimonianze di persone estatiche, uomini e donne, che hanno contemplato le meraviglie di Dio, suggellando la propria adesione con una crescente e attiva risposta: AMIN, ASHTU KLOFT, COSI SIA”.Poi formano le “vallje”
Con canti in albanese.
Ed ecco perch’è bello
Il mio paese.
(Domenico Licursi)