La Vallja, patrimonio culturale dell'Arberia calabrese
Firmo 30 aprile 2012 c/o Protonvento dei Domenicani alle ore 18.30
Introduce e modera: Paolo Cuzzolino (Dip. Arte Musica e Spettacolo UNICAL)
Saluti del Vice Sindaco del Comune di Firmo Pietro Roseti e di
INTERVENGONO:
Alessandro Rennis- Filologo e musicologo
Papàs Pietro Lanza- Rettore Seminario Italo Greco Albanese dell'Eparchia di Lungro
Emanuela Capparelli- Presidente fondazione minoranze linguistiche per l'Arberia Italiana
Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro- Redattore del Nuovo Monitore Napoletano
Kikina Martino- Sportello linguistico Comune di Firmo
Saverina Bavasso- Sportello linguistico Comune di Lungro
Pietro Napoletano- Scrittore, giornalista pubblicista.
sabato 28 aprile 2012
domenica 15 aprile 2012
Le leggi eversive della feudalità
Convento dei Domenicani a Firmo (CS) |
Di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro
Le province meridionali del regno di Napoli furono l'ultima roccaforte del sistema feudale nell'Europa Occidentale.
All'avvento della Repubblica Napoletana, nonostante i tentativi operati in precedenza dal riformismo carolino, la situazione nelle province dell'Italia meridionale rimase immutata rispetto a quella del XVII secolo.
A sostegno dell'azione eversiva della feudalità, la Repubblica, in 26 articoli aveva proposto la "Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino e dei suoi rappresentanti e un "Progetto di Costituzione" composto da 421 articoli raggruppati in 15 Titoli. Per la sua breve durata, il Governo Provvisorio non potè proclamare la Costituzione, nè potè procedere all'abolizione della feudalità. La reazione borbonica annullò tutte le leggi emanate dalla Repubblica Napoletana, salvo quella riguardante la soppressione dei fedecommessi. I baroni laici ed ecclesiastici rientrarono in possesso dei loro feudi, continuando ad esercitare indisturbati perangherie ed incredibili abusi. Ma tanta crudele ed ostinata reazione non produsse variazioni di intensità e di estinzione delle idee dell'Illuminismo, fondamenta del pensiero liberale, forza motrice del processo per l'abolizione della feudalità. Degli abusi e delle indescrivibili angherie dei baroni, ecclesiastici e laici, chiare sono le testimonianze che ci vengono riportate da Davide Winspeare nella sua opera, " Storia degli abusi feudali": "..in alcuni feudi i vassalli erano soggetti a capricciose tasse, e talvolta obbligati a lavorare per un determinato numero di giorni gratuitamente pel Barone; in altri luoghi diverse servitù personali erano state cangiate in prestazioni pecuniarie. I Baroni poi avevano generalmente il diritto di percepire sui terreni dei loro feudi una porzione del prodotto, che talvolta era della decima parte, ed alcune volte si estendeva sino alla quinta. Essi godevano inoltre il diritto del pascolo, nè il contadino poteva seminare il terreno che un determinato giro di due, di tre e talvolta anche di sei anni. Le acque dei torrenti appartenevano esclusivamente ai Baroni, ed essi solamente potevano avere molini, come pure forni ed alberghi. Di più in molti luoghi avevano imposto pedaggi pel transito che si faceva alle barriere de' feudi. Eranvi quasi da per tutto latifondi che denominanvansi demanj, ed in questi aveano diritti misti di pascere, si seminare, di legnare tanto i Baroni che gli abitanti de' feudi. La giustizia criminale, e in parte quella civile era esercitata in nome de' Baroni, ed erano appunto Baronali la maggior parte delle terre e delle città del regno. Questo sistema feudale rendeva i Baroni comunemente ricchi e spesso prepotenti, senza invidia dell'autorità regia". Altro esempio di tali esacerbate angherie, questa volta perpetrate dal baronato ecclesiastico, ci viene riproposto dal rapporto fra i PP. Domenicani e la popolazione albanese di Firmo ( CS) in un documento del 1775: "......la popolazione suddetta è obbligata oltre li carlini tre a fuoco ( famiglia), a pagare a detto Venerabile Convento altri due carlini a fuoco, una gallina, due uova ed una giornata di fatica".
Con la riconquista francese del regno di Napoli, Giuseppe Bonaparte con la legge n.130 del 2 agosto 1806 aboliva la feudalità. Da tale legge riporto gli articoli più significativi:
art.1: La feudalità con tutte le sue attribuzioni viene abolita;
art.2: Tutte le città, terre e castelli, non esclusi quelli annessi alla Corona, abolita qualunque differenza, saranno governati secondo la legge comune del Regno;
art.5: I fondi e rendite , finora feudali, saranno, senza alcuna distinzione, soggetti a tutti i tributi;
art.6: Restano abolite, senza alcuna indennizzazione, tutte le angarie, le preangarie, ed ogni altra opera o prestazione personale, sotto qualunque nome venisse appellata, che i possessori dei feudi per qualsivoglia titolo soleano riscuotere dalle popolazioni e dai particolari cittadini;
art.7: Tutti i diritti proibitivi restano egualmente aboliti senza indennità...
art.8: I fiumi, abolito qualunque diritto feudale, restano di proprietà pubblica...
art.15: I demani che appartenevano agli aboliti feudi, restano agli attuali possessori. Le popolazioni conserveranno ugualmente gli usi civici, e tutti i diritti, che attualmente posseggono su dei medesimi, fino a quando di detti demani non ne sarà con altra nostra legge determinata e regolata la divisione proporzionata al demanio e diritto rispettivi. Intanto espressamente rimane proibita qualunque novità di fatto;
art.19: I suffeudi restano parimenti aboliti...ma qualunque prestazione suffeudale, che soleano pagarsi ai possessori dei feudi principali, saranno conservate col carattere di censi riservativi, soggetti però ad essere ricomprati in danaro per lo giusto prezzo da valutarsi.Con la legge del 23 ottobre del 1809 si giunse infine alla istituzione dei Commissari incaricati della liquidazione degli usi civici e con legge 588-589 del 10 marzo del 1810 si davano disposizioni ai Commissari ripartori circa la divisione dei demani comunali. Fra i più importanti membri della Commissione feudale vanno ricordati il napoletano Davide Winspeare e l'italo albanese Angelo Masci.
Gli usi civici delle popolazioni sui territori vennero distinti in tre categorie e adottate in base ai criteri delle commissioni feudali: usi civici essenziali (diritto di pescare, acquare, legnare, pernottare, erbare ecc..); usi civici utili (raccolta di ghiande, di giunchi, di legna secca ecc.); usi civici dominicali erano infine quelli che davano la possibilità alle popolazioni di usufruire dei frutti e al dominio del fondo.
I terreni appartenenti ai Comuni ( ex Università), sia nella qualità di demani originali propri ( demani universali), sia assegnati come demani feudali, venivano distinti secondo l'uso cui potevano essere destinati. Si prevedeva, infatti, per i terreni suscettibili di essere coltivati, la quotizzazione e relativa assegnazione alle famiglie contadine prive di ogni bene rustico e che davano garanzie di poterli coltivare. Tale assegnazione si doveva legalizzare attraverso un contratto di enfiteusi, prevedendone il riscatto da parte dell'assegnatario, allorquando si fossero apportati i miglioramenti previsti nell'atto di concessione.
Tutto ciò, però, non trovò piena e pronta attuazione e fu solo dopo la unificazione dell'Italia che i governanti, nella speranza di accattivarsi la simpatia delle popolazioni meridionali così gravemente raggirate, cominciarono a promuovere la individuazione dei demani e qualche lieve quotizzazione in altri luoghi dove lo strapotere baronale ancora resisteva.
Bibliografia essenziale:
Annali d'Italia dal 1750 compilati da A.Coppi; Tomo IV dal 1803 al 1810. Roma 1829 Presso libreria Moderna via del Corso n.348;
Le idee dell'Illuminismo nel pensiero degli Italo Albanesi alla fine de XVIII secolo. Vittorio Elmo, Marco Editore 1992;
Davide Winspeare, Storia degli abusi feudali, Tip. Trani Napoli 1811.
mercoledì 11 aprile 2012
Il riformismo borbonico
Ferdinando IV e famiglia |
( di Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro)
Durante il regno di Carlo III ( 1734-1759) e di suo figlio Ferdinando IV (1759-1806), anche la monarchia borbonica, emulando quelle europee ed italiane, intraprese a conformarsi alle nuove trasformazioni, inserendosi nella evoluta cerchia dei monarcati assoluti illuminati. Padre e figlio, avvalendosi delle straordinarie capacità del Primo Ministro Bernardo Tanucci e Ministro delle Finanze Giuseppe Zurlo, quest'ultimo operò in seguito anche con i napoleonidi, cominciarono le opere di modernizzazione sociali ed economiche nel regno di Napoli. Carlo III, figlio del re di Spagna Filippo V e dell'italiana Elisabetta Farnese, nel 1734, durante la guerra di secessione polacca, essendo la Francia e la Spagna in conflito con l'Austria, spinto dalla madre, da Parma mosse, ancora diciottenne, alla testa di un numeroso esercito, numerato maggiormente da truppe spagnole, alla conquista dell'Italia Meridionale, costituente, in quel periodo, un vicereame sottoposto al dominio degli Asburgo. Con l'entrata in Napoli di questo giovane ed intraprendente principe, nipote del Re Sole, iniziò una nuova fase storica, politica e sociale per l'Italia meridionale ed insulare ( la Sicilia ), infatti nasceva la dinastia dei Borbone di Napoli, sotto i quali, dopo secoli di dominazioni straniere, veniva a consolidarsi un regno unitario ed autonomo, anche se agli inizi ci fu la ingerenza spagnola, con un personale coinvolgimento di governo del monarca. Formatosi, Carlo, alla colta corte di Francia e in quella cattolicissima spagnola, ben presto venne apprezzato dalle altre monarchie europee per saggezza e cultura riformista. Conscio delle condizioni di arretratezza del suo nuovo regno, rispetto agli altri stati del veccchio continente, circondandosi di valenti illuministi napoletani, quali il Filangieri, il Genovesi ed altri e avvalendosi , come prima notato, del superbo stile di destreggiamento nei rapporti sociali e politici nonchè dell'acuta visione riformatrice del suo Primo Ministro Bernardo Tanucci, si elevò a capo dei principi, dando lustro e rinomanza al suo nuovo regno. Soleva egli sostenere, da quanto scritto dal fiornalista Aldo Canale, che il suo "opus rei" si basava sulla felicità del popolo: "Le ricchezze dei re sono fatte dai poveri, diamo lavoro e diamo da vivere".
Ma tutto ciò veniva da lu espresso , forse, da come annotato da dallo storico Armando Oriolo, solo per giustificare le pazze spese affrontate per la costruzione delle reggie di Capodimonte, Portici e Caserta. In realtà, molte opere pubbliche vennero portate a termine, come acquedotti, strade, riomdernamenti di porti e nuove architetture. Tra i più significativi provvedimenti risultò essere quella della introduzione della lingua italiana come " uffficiale" del regno, in sostituzione di quella latina e spagnola, dando così un'impronta di stabile nazionalismo al nuovo monarcato. Ma per l'attuazione delle riforme era necessario attingere dal patrimonio finanziario pubblico, che per la precedente politica smodata dei vicerè, si rivelò inesistente.
La disponibilità del giovane re e il genio del suo primo minstro, tutto fecero per risistemare la caotica situazione ereditata dal passato, ma a frenare i loro disegni, si interposero due secolari endoparassiti: la Chiesa e il potere baronale laico. La Chiesa, da parte sua, vantava privilegi feudali sul regno di Napoli fin dal periodo normanno e Carlo d'Angiò nel 1625, accentuando lo stato di vassallagio istituì la "Chinea o Acchinea", un tributo di 7000 ducati da versare alla Chiesa di Roma come segno di omaggio e sottomissione. La Chiesa veniva così ad essere indenne da ogni tributo, con ampi poteri su tutto ciò gravitasse nella sua sfera.Il potere feudale laico, male endemico nelle aree meridionali, costituiva la barricata centrale, sia per lo sviluppo della società sia per la sovrantà personale del monarca, infatti, in Sicilia, il re era coadiuvato, in maniera rilevante, da un parlamento formato dai feudatari dell'isola. Nonostante tutti questi fattori concorsero al rallentamento del processo delle riforme, la ferrea volontà e la lucida visione nella propugnazione della ragion di stato del Tanucci, portarono, anche se parzialmente, accorti rimedi alla manovra innovativa.
Indispensabile ed urgente si prospettò l'esigenza di un riordino fiscale basato su solide perequazioni esattoriali ed in cosiderazione di questa, venne istituito il catasto onciario o carolino ( dal nome del monarca, Carlo III ). La sua istituzione, tutt'oggi, viene cosiderata come un'opera di ingegneria finanziaria, infatti la maggior parte dei moderni catasti sono improntati, in linea di massima, su quello carolino. Esso venne denominato "onciario", in quanto, i patrimoni fondiari venivano valutati in once, unità di misura utilizzata in quasi tutta Europa, prima dell'adozione del sistema metrico decimale; l'oncia, inoltre, nel periodo della Roma repubblicana, era una moneta di bronzo equivalente la dodicesima parte dell'asse e, probabilmente, anche per questo motivo, Carlo III la fece coniare nel 1749. Il 17 marzo del 1741, con la Prammatica Reale " De Catastis", affidata,per l'approvazione nel regno, alla Regia Camera della Sommaria, inizio per il mezzogiorno d'italia una nuova era. Non vi erano più gli agenti feudali, laici ed ecclesiastici, ad esigere i tributi, ma agenti fiscali incaricati dal re; ad acquisire e produrre gli atti preliminari, questa fu eccellente cosa, furono incaricat i Sindaci delle Università ( attuali comuni) e i capo eletti del posto. Il catasto era prettamente descrittivo, non essendoci stato tempo disponibile per consolidarne le forme, era privo di mappature dei luoghi, ma come trampolino di lancio per la perequazione fiscale, si rivelò abbastanza efficace.
Tutto questo, sicuramente, non è stato gradito dai feudatari laici e dagli ecclesiastici, in quanto molti privilegi, da loro acquisiti in passato decaddero e fu proprio in questo periodo che i loro ribaldi soprusi fuoriscirono dagli argini del vivere civile. Lo stato fu laicizzato, le tasse da pagare alla Curia Romana furono diminuite e le secolari prerogative feudali della nobiltà e del clero decisamente ridimensionate. Con il concordato del 1741 raggiunto con la Santa Sede, la giuridizione dei vescovi venne limitata e quest'ultimi, non più come in passato, venivano sì, nel regno, ordinati dalla Curia Romana, ma la loro nomina ufficiale era divenuta prerogativa del re che avvaleva di una commissione speciale da lui presieduta: il Sacro Regio Consiglio). Quando, nel 1759, Carlo III venne incoronato sovrano di Spagna, salì al suo posto al trono del regno di Napoli il suo terzogenito Ferdinando. Avendo egli appena nove anni, suo amministratore fu nominato il Tanucci e anche quando il piccolo re raggiunse la maggiore età, lascio il governo nelle mani dell'abile statista senese, che aveva l'onere, però, di rendere conto del suo operato alla corona spagnola. Bernardo Tanucci era un tenace sostenitore della "ragion di stato", riformista determinato, ingegno politico; uno statista di razza che intuì che solo attraverso le innovazioni nella politica sociale, era possibile porre il regno napoletano su un podio dove gareggiare, in seguito, con le maggiori potenze del vecchio continente. Fu proprio durante il periodo della reggenza tanucciana che il rifomismo borbone raggiunse maggiore attuazione, infatti in quel periodo, 1767, su sollecitazione del sovrano di Spagna fece espellere i gesuiti dal regno. I vuoti lasciati dai Gesuiti, in tutto il regno, furono prontamente occupati da uomini di cultura, laici e religiosi, che si ispiravano, anche se in maniera moderata, a Voltaire,Diderot e D'Alembert.
Con l'espulsione dei Gesuiti e la conseguente confisca del loro considerevole patrimonio ( 42.000 ettari di terreno agricolo in Sicilia e 18.500 nel continente, innumerevoli chiese e scuole, biblioteche ecc..) il Tanucci, su consiglio di Antonio Genovesi, professore di economia all'Università di Napoli, con saggia decisione, preferì non incamerare al regio demanio i fondi agricoli confiscati, ma di parcellizzarli e concederli in uso alle classi meno abbienti, ponendo così le basi per la creazione di una classe operaia contadina fino allora emarginata ed oscurata dal prepotente regime feudale. Altra grande riforma, per luogo-tempo, attuata per effetto della espulsione gesuitica, fu la istituzione della scuola pubblica, sostituente quella privata, quest'ultima retta prevalentemente dalla casta religiosa. L'innovazione non ebbe molta fortuna, in quanto i costi di mantenimento si erano rivelati consistenti e quindi il più delle volte, l'accesso all'istruzione, per i figli delle popolazioni meno agiate, veniva precluso.
Con l'entrata in scena di Maria Carolina, tratta in moglie da Ferdinando IV, la politica del regno di Napoli mutò direzione politica. La nuova regina, all'inizio della sua attività di governo, si interessò analiticamente delle riforme in atto, avendo premure, particolarmente di realizzare opere pubbliche e militari; tutto ciò che mirassee alla elevazione del popolo, veniva da lei considerato inutile e dispendioso. Cercando di allontanarsi dalla sfera politica spagnola, ben presto si trovò in attrito con il Tanucci, il quale nel 1776, per volere di lei, fu sollevato dall'incarico di Primo Ministro e sostituito dal siciliano Giuseppe Beccadelli, marchese della Sambuca, uomo, più cortigiano che politico e con vedute meno ampie del validissimo toscano. Con l'ingerenza della politca asburgica nel regno di Napoli vennero a cessare quegli intenti atti alle riforme. Il processo di riformismo intrapreso dal Tanucci non si interruppe del tutto, dopo la sua estromissione, anche negli ultimi anni del secolo decimo nono, non mancò la volontà di " cambiare in meglio": esemplare fu la battaglia che Domenico Caracciolo, vicerè di Sicilia, mosse contro lo strapotere baronale e gli abusi signorili. L'età dello splendore finì con la politica filo asburgica.